L'Imperatore Giuliano l'Apostata

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Title: L'Imperatore Giuliano l'Apostata

Author: Gaetano Negri

Release Date: November 11, 2011 [EBook #37986]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

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GAETANO NEGRI
 
 
L'IMPERATORE
 
GIULIANO L'APOSTATA
 
STUDIO STORICO
 
Seconda Edizione riveduta ed ampliata
 
 
 
ULRICO HOEPLI
EDITORE LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
1902

PROPRIETÀ LETTERARIA
 
 
Milano 1901 — Tipografia Umberto Allegretti. — Via Larga, 24

INDICE

PREFAZIONE

Nel presentare questo nuovo mio libro ai miei pochi ma cortesi lettori, io vorrei rinnovare l'espressione di un desiderio, già manifestato nei miei volumi antecedenti. Io vorrei che essi fossero persuasi che non c'è, nel mio pensiero, neppur l'ombra di un'inclinazione tendenziosa. Per me la storia non ha interesse, se non è trattata con uno spirito e con un metodo rigorosamente oggettivo. Se lo scrittore si giova della storia per dare sfogo alle sue preconcette preferenze, se vuol forzare i fatti alla giustificazione delle sue teorie, potrà scrivere un'opera interessante ed eloquente, potrà scagliare un libello od imaginare un romanzo, ma non scriverà una storia.

Tale concetto deve applicarsi alla storia delle religioni, come a quella di qualsiasi altro fenomeno dello spirito umano. Lo studio, la narrazione di un episodio religioso non dev'essere nè un'apologia nè un attacco; dev'essere un'imparziale, serena, diligente esposizione degli avvenimenti e delle cause che li hanno prodotti. Questo metodo di critica perfettamente oggettiva non deve offendere nessuna coscienza, per quanto delicata, poichè una religione, quale sia l'origine sua, viene pure a contatto con gli uomini, ed è quindi necessariamente perturbata, oscurata dall'elemento umano, e soggetta a tutte le vicissitudini che quell'elemento subisce col passar dei secoli. Anche l'acqua di un fiume sgorga limpida come un cristallo dalla vena montana, ma poi, scorrendo sul fondo della valle, serpeggiando per la fertile pianura, attraversando le popolose città, s'intorbida e s'inquina pei detriti impuri che le cadono in seno. Risalga alle scaturigini genuine chi vuol confortarsi coi suoi salutari lavacri.

Generalmente la storia dei fatti religiosi si fossilizza o nell'ammirazione irragionevole di tutto, anche di ciò che non può esser ammirabile, perchè è il prodotto dell'azione disturbatrice che l'uomo vi ha esercitata, od in un'avversione non meno irragionevole anche di ciò che dev'essere rispettato, perchè è l'espressione genuina dell'irresistibile aspirazione dell'anima umana all'infinito. Quanto più in un paese è scarsa la coltura e mancante il senso critico, tanto più è prevalente questo modo esclusivo e falso di giudicare gli avvenimenti nella loro attinenza col fenomeno religioso. E, in conseguenza di questa ristrettezza di giudizio, non è più possibile lo studio oggettivo del processo di azione e reazione per cui passa lo spirito umano nei suoi successivi adattamenti alla forma religiosa. È la faccia umana del fenomeno religioso, è l'osservazione delle alterazioni che il sentimento religioso subisce nell'ambiente intellettuale e storico da cui è circondato che esercita una singolare attrattiva sullo studioso delle leggi che determinano l'evoluzione dell'uomo e della società. Chi riesce ad applicare alla coscienza umana, nei suoi rapporti col fatto religioso, una lente che non sia colorita da nessun pregiudizio di affermazione o di negazione, riesce, insieme, a scoprirne le più intime fibre, ad isolarne i tessuti più profondi e delicati.

L'essere razionale si distingue dal bruto perchè, potendo assorgere, mercè le sue facoltà di astrazione e di riflessione, al concetto di causa, pone davanti a sè due problemi dalla cui soluzione dovrebbe scaturire la spiegazione e la ragione dell'universo, il problema della morte ed il problema dell'esistenza del male. Le religioni antiche davano una soluzione vaga ed incerta del primo, e non ne davano alcuna del secondo. Prometeo che osava agitare questo problema era un ribelle che Giove inchiodava sul Caucaso. Le religioni antiche, ispirandosi ad una tendenza essenzialmente ottimista, attenuavano il problema del male, non ne sentivano tutta la portata e la tragica difficoltà. Ben le vide e le sentì il Cristianesimo, che fu la religione della sventura e del dolore. Ma il Cristianesimo non lasciò l'uomo piangente e sgomentato davanti all'esistenza del male, poichè, scrutando il problema della morte, vide nella morte il processo di redenzione dal male. Quest'idea, in cui era la chiave del mistero del mondo, parve divina all'umanità assetata d'ideale, afflitta ed oppressa dalla prepotenza e dall'iniquità trionfante. Quest'idea ha dato al Cristianesimo una vittoria che sembra senza ragione a chi non sa comprendere che la ragione si trova nella rispondenza del Cristianesimo con le più profonde esigenze dell'umana coscienza. Ma quest'idea, ottenuta che ebbe la vittoria sulle religioni e sulle dottrine dominanti nel mondo antico, divenuta, a sua volta, dominatrice, non ha potuto conservarsi nella purità della sua ispirazione genuina e dovette adattarsi al mondo che l'aveva abbracciata, lasciando oscurare quella virtù redentrice che ne aveva fatta la forza e le aveva guadagnato il cuore umano.

Lo studio che qui si presenta prende il Cristianesimo appunto nel momento in cui, dalle angustie di segreti ed isolati recessi, esce e si allarga come un fiume regale sul campo immenso dell'impero romano. Distendendosi su terreni isteriliti, di nuovo li fertilizza con le sue acque fecondanti, ma prende e trascina con sè una parte delle brutture da cui erano contaminati.

Era naturale che in questo momento, in cui ancora non era scomparso del tutto quel complesso di forze su cui si innalzava l'antica civiltà, questa tentasse di dare l'ultimo guizzo ed, approfittando del traviamento a cui il Cristianesimo, divenuto un istituto mondano, cominciava ad essere in preda, volesse rinnovare il combattimento, nella fiducia di riuscirne vincitrice.

Questo movimento dello spirito antico che resiste un'ultima volta all'invasione del Cristianesimo e ridesta gli antichi ideali si è personificato in un curioso ed enigmatico personaggio, l'imperatore Giuliano. Ora è una grande fortuna per lo storico il trovar concentrate nel foco di una sola persona tutte le passioni che hanno determinato l'indirizzo, provocato l'atteggiamento dell'anima umana, in un dato momento della sua evoluzione. La storia non è viva, non è chiara, non è sicura se non quando può esercitarsi intorno all'individuo e può cogliere nella sua coscienza il riflesso diretto degli avvenimenti e delle idee diffuse nel mondo. La storia che vaga da astrazione in astrazione, che incede nell'aria rarefatta di principî e di generali affermazioni, che è una scienza di concezioni aprioristiche, crea, come la metafisica, dei grandi edifici che, appena sorti, svaniscono, simili a quelle figure fantastiche di cui scorgiamo, talvolta, il profilo nelle nuvole spinte dal vento sull'azzurro del cielo. Tutta la scienza ormai la scienza dell'uomo come quella della natura, è la scienza dei fatti. L'ipotesi non vale se non come una preparazione alla scoperta del fatto, e la teoria deve seguire, non precedere il fatto. La storia, anch'essa, deve essere, sopratutto, una ricerca di fatti ed un'analisi psicologica dell'uomo. Noi dobbiamo ricreare, quanto più è possibile, nella storia, il dramma umano, rivivere nel pensiero, nel sentimento, nelle passioni della persona umana in un punto determinato del tempo, in un determinato conflitto di speranze e di timori, d'ire e di affetti, d'illusioni e di realtà.

È ciò, appunto, che io ho tentato di fare col personaggio tanto curioso ed interessante dell'imperatore Giuliano. Non ebbi per lui nessun preconcetto di simpatia o di esecrazione. Ho cercato esclusivamente di comprenderlo, scrutando i moventi che lo avevano spinto al suo folle tentativo, ricreando l'ambiente in cui era vissuto, riguardando, infine, il mondo che lo circondava, attraverso l'atmosfera di quegli stessi pregiudizî in cui era cresciuto. Da uno studio siffatto balza fuori una figura vivente e si apre uno spiraglio da cui si scopre un lembo di realtà.

Nello scrivere questo libro io non ebbi altro scopo, fuor di questo puramente oggettivo, e ci vorrebbe una larga dose di buona, dirò meglio, di cattiva volontà, per vedercene un altro. Chi ha un temperamento critico sa guardare i fenomeni morali con quello stesso disinteresse speculativo con cui guarda i fenomeni fisici, con quella stessa necessaria imparzialità con cui il chimico analizza una sostanza e l'astronomo determina l'orbita di un corpo celeste. Una cosa è il sentimento ed un'altra la ragione. La causa vera del disordine che perturba i giudizî umani è che gli uomini portano il sentimento là dove non dovrebbero portare che la ragione. Errore funesto, ma non più funesto dell'errore di quei pensatori i quali credono che la ragione esaurisca l'universo e non s'accorgono, per la brevità del loro sguardo, che essa lascia pur sempre una larga striscia d'ignoto, dove il sentimento regna assoluto ed invincibile dominatore.

Aprile 1901.

G. Negri.


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GIULIANO
nel busto d'Acerenza

IL BUSTO D'ACERENZA

Acerenza, diventata, in questi giorni, famosa in Italia pel disastro della frana che l'ha colpita, è una piccola città della provincia di Potenza, posta sulla vetta di un'isolata montagna che s'innalza alla confluenza del Bradano col Signone. Acerenza ha il privilegio singolare di possedere il busto colossale dell'imperatore Giuliano. E, ciò che è propriamente un colmo di stranezza, il busto dell'apostata imperiale è collocato su di un alto pinnacolo della sua cattedrale, come l'imagine del santo protettore della città. Le indicazioni precise intorno a quel busto furono date, credo, la prima volta da Francesco Lenormant1. Acerenza pare fosse una delle poche città che cordialmente parteggiavano per la restaurazione politeista tentata da Giuliano. Il giovane imperatore vi doveva essere grandemente onorato. Un frammento d'iscrizione che si legge su di una pietra impiegata nella costruzione della cattedrale e che doveva appartenere al piedestallo di una statua, dice: «Al riparatore del mondo romano, al nostro Signore, Claudio Giuliano Augusto, principe eterno». Ed un secondo frammento di un'altra iscrizione più monumentale, portante alcune lettere del nome di Giuliano, fu letta dal Lenormant sulla soglia di una delle cappelle della cattedrale. È dunque assai probabile che il busto in marmo d'imperatore romano che adorna il vertice della cattedrale stessa rappresenti appunto Giuliano, ed abbia appartenuto ad una statua colossale che gli abitanti d'Acerenza avevano innalzata in suo onore. La probabilità è accresciuta dalla circostanza che facilmente si può spiegare il bizzarro equivoco pel quale l'apostata maledetto si è trasformato in un santo venerato. Il patrono della cattedrale d'Acerenza è San Canio, vescovo di Juliana, in Africa, il cui corpo, si narra, fu portato in Lucania dai Cristiani che fuggivano dall'Africa cacciati dai Mussulmani. «Ora — dice il Lenormant — il rapporto delle proporzioni rispettive sembra indicare che il frammento d'iscrizione in onore di Giuliano, formante la soglia di una delle cappelle, proviene dal piedestallo della statua. Quel frammento presenta solamente le lettere VLIAN. Se, come è probabile, i due avanzi furono estratti dal suolo nel medesimo tempo, i preti d'Acerenza, fra il 1090 ed il 1100, più preoccupati di San Canio che dell'imperatore Giuliano, avranno completata l'iscrizione mutilata in quella di Julianensis episcopus, e l'Apostata fu d'un colpo trasformato in martire ed in protettore celeste». Questo ritratto di Giuliano, già tanto interessante per la sua storia curiosa, lo è anche pel valore intrinseco dell'opera, per l'espressione intensa di vita e per una certa grandiosità potente che c'è nell'insieme. Pare anzi strano che, in un'epoca in cui l'arte era in piena decadenza, ci fosse uno scultore capace di plasmare una figura con sì semplice vigoria. Lo scultore ha voluto rappresentare non il pensatore, ma il soldato. Il capo è cinto da un serto d'alloro, e il corpo è coperto dal paludamento militare. Se questo è Giuliano noi dobbiamo vedervi Giuliano vittorioso, alla testa delle sue legioni.

Dissi, se questo è Giuliano, perchè, malgrado le indicazioni affermative del Lenormant, che hanno avuto testè la conferma di un insigne archeologo, Salomone Reinach, in una comunicazione da lui letta all'Istituto di Francia, qualche dubbio non può a meno di sorgermi nell'animo. In primo luogo, mi pare non possa esservi alcuno che abbia qualche dimestichezza con gli scritti di Giuliano, il quale non provi un'impressione di stupore nel vedersi davanti questo ritratto. Ma come? Il pensatore, lo scrittore che aveva passata tutta la sua giovinezza sui libri, il filosofo ed il teologo sottile ed inquieto, lo studioso infaticato che, anche in mezzo alle cure della guerra, si alzava, nel cuor della notte, per leggere i suoi autori e comporre i suoi trattati, il sognatore utopistico che non pensava che alla rivoluzione morale del mondo, alla creazione di un Stato religioso di cui egli sarebbe il pontefice massimo, avrebbe avuto i lineamenti e l'aspetto di questo Romano d'antico stampo, di questo soldato risoluto, quadrato e robusto nella mente come nel corpo, di quest'uomo a cui, certo, possiamo attribuir la forza della volontà ed il vigore dell'indole, ma a cui parrebbe del tutto estranea quella mescolanza di idealità e di pedanteria che era così caratteristica dello spirito di Giuliano? Se questo è il suo ritratto genuino, v'era tutta una parte di lui che non traspariva nel suo volto, che rimaneva nascosta nei penetrali più segreti dell'anima. In questa effigie potrei riconoscere l'eroe di Strasburgo, il duce audace del passaggio del Tigri, ma invano vi cerco lo scrittore modesto ed arguto della lettera a Temistio, il moralista severo del frammento sui doveri del sacerdozio, il poeta pungente, ingegnoso e dotto del Misobarba.

Ma confrontiamo l'imagine d'Acerenza coi ritratti scritti che ci hanno lasciato Gregorio di Nazianzo ed Ammiano Marcellino. Come vedranno i lettori che vorranno addentrarsi in questo mio libro, il profilo tracciato da Gregorio non è in alcun modo conciliabile con questo busto di vigoroso soldato. Gregorio ci presenta un giovane convulso, una specie di epilettico dallo sguardo vagabondo, dal collo dondolante, dai lineamenti mobilissimi, dall'atteggiamento incerto ed instabile, una figura interessante, che però non ha nemmeno il più lieve vestigio di quella maestà fiera, ma posata e sicura, che splende sul volto dell'eroe d'Acerenza. È vero che Gregorio era ispirato dall'odio contro Giuliano così che egli ne ha disegnato il ritratto coll'intenzione di farne la caricatura. Ma non bisogna, però, dimenticare che Gregorio ha convissuto lunghi mesi con Giuliano sui banchi della medesima scuola; pertanto, data anche l'intenzione di farne la caricatura, ci doveva pur essere, nella caricatura, un fondo di verità. Se non che, si potrebbe forse osservare che Gregorio ha conosciuto Giuliano giovanissimo, prima che la dura vita di soldato, da lui condotta in Gallia, lo avesse invigorito e trasformato in un uomo d'azione, e non è da ritenersi impossibile una corrispondente trasformazione della sua figura.

D'importanza capitale è la descrizione d'Ammiano che ha accompagnato Giuliano in Persia e che, quindi, ce lo presenta quale era negli ultimi tempi della sua vita. — Mediocris erat statura, capillis perquam pexis et mollibus, hirsuta barba in acutum desinente vestitus, venustate oculorum micantium flagrans, qui mentis ejus argutias indicabant, superciliis decoris et naso rectissimo, ore paulo majore, labro inferiore demisso, opima et incurva cervice, umeris vastis et latis, ab ipso capite usque unguium summitates liniamentorum recta compage. — Questa descrizione d'Ammiano corrisponde, in gran parte, al ritratto d'Acerenza. Abbiamo i capelli lanosi e molli, abbiamo gli occhi singolarmente vivaci ed espressivi, il naso diritto. Ma non mi pare sufficientemente indicata, almeno dalla fotografia che qui è riprodotta, la sporgenza del labbro inferiore; c'è la robustezza ma non la curvatura del collo, e manca la caratteristica barba da caprone, accennata da Ammiano, la quale, come vedremo a suo luogo, è un personaggio importante del Misobarba di Giuliano stesso. Si risponde a quest'ultima difficoltà, affermando che Giuliano ha lasciato crescere la barba, solo dopo il suo ingresso a Costantinopoli, tanto è vero che, come sappiamo da Ammiano, nei primi giorni della sua dimora in quella città, egli faceva ancora chiamare un barbiere ad demendum capillum. Ora, se il ritratto, come è probabile, è stato eseguito a Costantinopoli, lo scultore non avrà visto nel suo modello che una barba incipiente, la quale, pertanto, non poteva ancora aver acquistata la forma puntuta. La risposta all'obbiezione sarebbe certo ingegnosa, ma io vorrei osservare, in primo luogo, che Ammiano dice che il tonsor venne ad demendum capillum non già ad demendam barbam. Ora se è vero che sotto l'espressione generica di capillum può intendersi anche la barba, non è men vero che Ammiano stesso, nella descrizione di Giuliano, distingue nettamente le due cose ed i due nomi. In secondo luogo, senza entrare, a proposito di Giuliano, in una discussione per la quale bisognerebbe appellarsi alla competenza di un barbiere, io vorrei dire che la barba del ritratto d'Acerenza copre le guancie, ma lascia quasi scoperto il mento, e mi par quindi assai difficile che quella barba potesse, in poco tempo, diventar puntuta. Un'ultima difficoltà che mi si presenta è che Giuliano era poco più di trentenne, quando entrava imperatore a Costantinopoli. Ora, al personaggio, rappresentato dal busto d'Acerenza, mi pare si possa, senza fargli torto, attribuire abbondantemente una diecina d'anni di più.

Malgrado questi dubbi che mi son sorti alla vista della fotografia del ritratto, io non esito ad ornarne questo povero mio libro. Anche nell'ipotesi che non sia un ritratto preso dal vero a Costantinopoli, ma un lavoro fatto in Italia, con indicazioni non tutte esatte, la genialità, la vita che vibra in esso lo rendono singolarmente interessante. Noi vediamo in questo lavoro, in cui si sente una mano appassionata, come il riflesso dell'ammirazione e della simpatia che l'audace restauratore dell'Ellenismo aveva destate ai primi passi della sua carriera imperiale.

E poi quale esempio parlante della profonda ironia delle cose umane! L'imagine del più grande nemico che abbia avuto il Cristianesimo, trasformata in quella di un santo, accoglie e trasmette al cielo le preghiere di quei Cristiani ch'egli tanto disprezzava ed aborriva! Io cercava un motto che, posto in fronte al libro, riassumesse il significato della storia di Giuliano. Il busto d'Acerenza è il più eloquente dei motti!


Salomone Reinach ha testè pubblicato, nella Revue Archéologique, una dotta ed interessante memoria sul ritratto di Giuliano. Nella prima parte di quella memoria egli mette in chiaro l'errore pel quale le due statue esistenti a Parigi, l'una al Museo delle Terme, l'altra al Museo del Louvre, rappresentanti un personaggio togato e barbuto, si credettero il ritratto di Giuliano, mentre lo devono essere di qualche retore o di qualche filosofo. Nella seconda l'insigne archeologo discorre del busto d'Acerenza, ed insiste sull'autenticità assoluta del ritratto, cercando anche di dissipare alcuni dei dubbi che io ho sollevato. Però, anche ammesso come tolte redicalmente le difficoltà dell'espressione del busto, in cui è nascosta tanta parte dell'indole di Giuliano, e l'altra dell'età provetta dell'uomo che vi è rappresentato, resta pur sempre la difficoltà che la barba non ha la forma caratteristica della barba da caprone, ed è già così abbondante e cresciuta sulle guance, e così scarsa sul mento, da rendere molto difficile un cambiamento di disposizione, nel breve tempo che si frappone fra la data del ritratto e l'ingresso di Giuliano in Antiochia.

La memoria del Reinach è ornata da tre grandi e belle fotografie prese dal vero in Acerenza. Quella che dà la testa di profilo è di una bellezza propriamente singolare. La perfezione dei lineamenti, la profondità dello sguardo, l'impostatura del collo sulle spalle, l'equilibrio di tutta la compagine, se davvero appartenevano al Giuliano reale, dovevan far di lui, anche fisicamente, il tipo ideale dell'eroe. Si capisce subito, guardando questa bella testa, la simpatia che l'imperatrice Eusebia ha sentito per lui. Ma abbiam proprio, qui, Giuliano? O piuttosto, l'idealizzazione della sua figura, fatta da uno scultore geniale che plasmava l'imagine di un uomo che non aveva visto, che conosceva per la descrizione altrui, e che egli ricreava seguendo, più che altro, la visione della sua mente? Io devo dire che l'interessante dissertazione di Salomone Reinach, per quanto erudita, non mi ha completamente liberato dall'esitanza di cui fui colto fin dal primo momento che ho posto gli occhi sul busto d'Acerenza e di cui ho dato ragione nel mio breve discorso.

Luglio 1901.

INTRODUZIONE

La sorte toccata all'imperatore Giuliano è davvero miseranda. Nessuna figura, nella decadenza dell'impero, più originale, più interessante, più attraente della sua. Ma la tradizione ecclesiastica gli è stata terribilmente nemica; gli ha impresso il marchio dell'apostata e, con questa qualifica, lo ha condannato all'abbominio ed all'oscurità. Come ciò avvenisse s'intende. La Chiesa agiva con un'intenzione polemica. A lei premeva sopratutto di rendere odioso un uomo che aveva tentato di ferirla a morte. Come sempre nella polemica, la verità doveva cedere il posto alla passione ed all'interesse partigiano. Ma lo storico ed il critico non devono lasciarsi stordire e confondere dai clamori della polemica; il loro compito è di anatomizzare oggettivamente e con una intiera imparzialità il fatto o l'uomo che hanno sulla loro tavola d'esperienza e d'osservazione, cercando di cogliere il vero nella sua essenziale realtà.

Ora, è chiaro che le invettive e le maledizioni della Chiesa non tolgono che, nell'imperatore Giuliano l'uomo e l'azione siano singolarmente interessanti. Non vi può essere studio storico più attraente del ricercare le origini, le cause, le conseguenze della restaurazione politeista a cui il giovane imperatore ha posto mano. Quelle invettive e quelle maledizioni non possono nascondere il vero a chi appena guardi la storia e i documenti; e il vero è che Giuliano fu un uomo per eccellenza geniale, un uomo che, dopo aver passate l'adolescenza e la giovinezza immerso negli studi, da cui, ad ogni istante, lo distraeva l'aspettazione di essere trucidato ad un cenno dello scellerato cugino che sedeva sul trono imperiale, investito, improvvisamente, di un supremo comando militare, in una posizione che pareva disperata, si rivela, in breve tempo, generale di altissimo valore, e conduce una campagna meravigliosa, coronata da splendide vittorie. La sua vita pubblica è chiusa nel breve ciclo di otto anni, dal 355, l'anno in cui è mandato nelle Gallie a fronteggiare le invasioni germaniche, al 363, l'anno in cui cade sul campo di battaglia combattendo eroicamente i Persiani. Questi otto anni furono tutti spesi in una vita agitata, piena di avventure e di preoccupazioni amministrative e militari. Eppure, il giovanissimo imperatore, che doveva morire a trentadue anni, non abbandonò mai i suoi studi, non interruppe mai la sua attività letteraria, e trovò il modo e il tempo di essere uno degli uomini più colti del suo secolo, e l'ultimo scrittore, il più brillante, il più acuto, della decadenza greca. Austero di costumi, infervorato di aspirazioni ideali, meravigliosamente versatile d'ingegno, eccellente in ogni cosa a cui rivolgesse le sue cure, Giuliano è un'apparizione meritevole di profonda investigazione, è una figura, come or si direbbe, suggestionante. Certo, il suo tentativo di porre un argine all'avanzare del Cristianesimo, e di ricondurre lo Stato al culto politeista, era errato nel principio, e rivelava uno spirito guidato da fantasmi filosofici più che da un esatto apprezzamento delle condizioni morali ed intellettuali del tempo. Ma nulla, appunto, di più interessante che l'investigare le cause per le quali uno spirito tanto acuto e pronto sia caduto in così grave errore; nulla di più curioso che il seguirlo nei suoi sforzi per dar vita al suo ideale, che il raccogliere, dal suo labbro e dai suoi scritti, le intenzioni da cui era mosso, gli scopi a cui mirava, le speranze e i disinganni da cui era accompagnato.

La Chiesa è stata assai più feroce contro Giuliano che contro qualsiasi degli imperatori che pur l'hanno perseguitata col ferro e col fuoco. Eppure Giuliano, che aveva iniziata una sistematica restituzione del Politeismo, non ha versata, di sua iniziativa, una goccia di sangue per la causa che gli stava a cuore assai più delle sue imprese guerresche e delle sue riforme amministrative. Anzi, come vedremo, proclamava ufficialmente il principio della tolleranza e non voleva le conversioni forzate. Ma la Chiesa era ispirata da un istinto sicuro. Sentiva che la persecuzione, dopo tutto, era una forza per lei ed uno strumento di vittoria. Quanto più perseguitata, tanto più potente. S'era ormai avvezza ad affrontar impavida la violenza, ma essa si arretrò spaventata davanti a questo giovane che, dal trono imperiale, predicava il ritorno al Politeismo, in nome della ragione e della morale. Era una cosa tanto nuova ed inaspettata che essa vi vide un pericolo maggiore di quello che fosse nella realtà. Nessuno dei persecutori del Cristianesimo era mai entrato nel merito del Cristianesimo. Lo si perseguitava perchè lo si credeva pericoloso per la società e per lo Stato, ma nessuno s'incaricava di esaminarlo nelle sue basi filosofiche e storiche. Il lavoro critico di Celso era rimasto presso che isolato. Ora, qui si presentava un imperatore, il nipote di Costantino, il quale si dichiarava apostata del Cristianesimo e pretendeva di giustificare la propria apostasia con la dimostrazione dell'irragionevolezza e della mancanza di base storica di una religione che ormai pareva vittoriosa d'ogni resistenza. Nulla poteva riuscire più offensivo alla Chiesa, la quale s'era già avvezza a dominare sovrana assoluta, ed a cui, pertanto, doveva parere intollerabile ogni discussione sulla sua autorità. Il giavellotto di un Persiano la tolse, in breve, da ogni preoccupazione, ma non cancellò la memoria del paventato ed odioso tentativo, ed essa se ne vendicò condannando il nome di Giuliano all'obbrobrio e la sua storia ed i suoi libri ad un immeritato oblio.

In questo nostro studio, noi cominceremo col dare una rapida occhiata alla vita di Giuliano. Poi esamineremo l'ambiente religioso e filosofico in cui venne a trovarsi. Ci fermeremo più a lungo sull'impresa da lui tentata di restaurare il culto politeista e le antiche idee religiose. Noi troveremo, cammin facendo, molte occasioni di interessanti considerazioni sulla natura dei movimenti religiosi, sugli effetti che producono e sulle ragioni tanto delle loro vittorie quanto delle loro sconfitte.

Giuliano può essere studiato nella sua vita, nel suo spirito, nelle sue azioni, con una larghezza di notizie e con una approssimazione al vero assai maggiore di quanto avvenga generalmente pei personaggi della storia antica. Ciò deriva, in primo luogo, dall'esistenza di tre fonti di singolare importanza, tutte contemporanee al personaggio di cui parlano, e sono le storie di Ammiano Marcellino, i discorsi di Libanio e quelli di Gregorio di Nazianzo; in secondo luogo, e sopra tutto, dalla conservazione degli scritti dello stesso Giuliano, che sono la più interessante rivelazione di quello spirito inquieto.

Ammiano Marcellino, nato da nobile famiglia, in Antiochia, entrò, giovinetto ancora, nella carriera delle armi, ebbe alti uffici, e prese parte ad importanti imprese. Nel 350, fu, dall'imperatore Costanzo, destinato ad accompagnare il generale Ursicino, a cui era affidata la difesa dell'Oriente. Nel 354 venne a Milano, con lo stesso Ursicino, e seguì costui nelle Gallie, onde domare la ribellione di Silvano. Ucciso Silvano, fu rimandato in Oriente dove era ancora quando Giuliano prese il posto di Costanzo. Egli fu un devoto e fedele ammiratore del giovane sovrano e lo accompagnò nella spedizione di Persia. Avvenuta la catastrofe di Giuliano, pare che Ammiano abbandonasse la carriera militare, e si ritirasse a vita riposata in Roma, dove, come sappiamo da una lettera di Libanio, scrisse le sue storie che ci giunsero in condizione frammentizia. Ammiano Marcellino è un testimonio prezioso per la serena imparzialità del suo giudizio. Scrittore mediocre e pesante, dal punto di vista letterario, ma coscienzioso, esatto, espertissimo di cose militari, legato a Giuliano da un'ammirazione affettuosa, che però non gli cela la percezione del vero, anche quando il vero non torna a lode del suo eroe, Ammiano ci ha lasciata una narrazione in cui si può riporre una fede sicura. Se non che, soldato nell'anima, ed uomo d'azione per eccellenza, Ammiano, sebbene non fosse cristiano, non sentiva interesse alcuno per l'opera di restaurazione religiosa, iniziata da Giuliano, e, pertanto, si occupa quasi esclusivamente del capitano e del principe. Il filosofo ed il pontefice non appaiono che di sfuggita nelle pagine dell'onesto storico. Tuttavia, l'imagine del giovane imperatore vien fuori vivente dalla sua schietta pittura, così che il lettore è condotto a risentire per l'eroe, di cui si seguono le gesta, un po' della devozione, pur temperata da qualche rimprovero, a cui s'ispira il narratore nel suo racconto e nei suoi giudizi.

Libanio fu uno dei personaggi più cospicui del mondo ellenico nel secolo quarto. Nativo egli pure, al pari di Ammiano, di Antiochia, Libanio, letterato e retore insigne, empì della sua attività letteraria i grandi centri dell'Oriente, Costantinopoli, Nicomedia, Antiochia, durante i regni di Costanzo, di Giuliano, di Valente e di Teodosio. Professore di retorica, tenne, per incarico governativo, pubblica scuola in ognuna di quelle città, ed a lui accorrevano i giovani, onde addestrarsi in quell'arte tutta formale che costituiva l'insegnamento letterario dell'epoca. Entusiasta amatore delle tradizioni elleniche, Libanio odiava il Cristianesimo e non vedeva la salute del mondo che nel ritorno all'antico. Egli era esclusivamente un letterato, un oratore; mancava affatto di spirito filosofico. I suoi discorsi non sono che esercizi d'eloquenza, assai interessanti per le cose che narra e per la pittura dell'ambiente, ma vuoti di pensiero. Libanio era un abile artefice di frasi. Spirito leggiero, impressionabile, vanitoso, ebbe una vita agitata, combattuto da rivali, costretto a mutar la sede del suo insegnamento da Costantinopoli a Nicomedia, poi di nuovo a Costantinopoli e finalmente ad Antiochia, ora perseguitato, ora esaltato, ma pur sempre vittorioso di tutti e di tutto per la grande fama di cui godeva e per l'autorità di un nome, rispettato da tutti gli uomini colti del suo tempo.

Libanio ora è troppo dimenticato. I suoi scritti numerosissimi, il suo ricco epistolario, conservati, caso raro, in gran parte, sono una delle cose più vive della letteratura antica, e dànno una rappresentazione parlante della società dell'impero d'Oriente, nel secolo quarto. È curioso il vedere come la decadenza dello spirito e della letteratura greca fosse stata meno rapida e meno profonda della decadenza dello spirito e della letteratura latina. Mentre questa si era spenta del tutto, per non risorgere che con gli scrittori ecclesiastici, nell'Oriente erano rimasti accesi dei vivissimi focolari di movimento intellettuale, e si conservavano tradizioni letterarie che rendevano possibile l'apparizione di scrittori come Giuliano e Libanio. Quest'ultimo, spirito, come dissi, superficiale, ma brillante e mosso, molte volte, da un'ispirazione schietta, ci ha lasciati, in quei suoi discorsi, generalmente troppo lunghi e peccanti nella composizione, delle pagine veramente belle e sentite.

Aveva conosciuto Giuliano giovinetto, se non di persona, almeno di fama, ed aveva come tanti altri, riposte le sue speranze in lui. Era, dunque, naturale ch'egli salutasse, con vero entusiasmo, l'astro del nuovo imperatore, appena sorto sull'orizzonte, ed approvasse ed aiutasse, con tutta l'anima, la sua impresa di restaurazione ellenica. Ed è pur naturale che l'improvvisa caduta di tante speranze lo gittasse in una profonda desolazione. Di questi suoi sentimenti di gioia e di dolore Libanio ci lasciò l'eloquente espressione in sette discorsi, di cui quattro scritti durante il breve regno di Giuliano. Due di questi, il Saluto, pronunciato all'entrata di Giuliano in Antiochia, e l'altro All'imperatore console, scritto in occasione del consolato di Giuliano, sono inni di gioia per l'inaugurazione della nuova primavera ellenica, voluta dal geniale imperatore. Altri due di quei discorsi, l'Ambasciata e il Discorso dell'ira, sono destinati a riconciliare l'irritato Giuliano con la frivola e frondeuse Antiochia. Due altri, Il Lamento solitario e la Necrologia, sono gridi di dolore per la morte dell'eroe. La Necrologia è una vera storia di Giuliano. Il piangente Libanio narra lungamente tutta la vita dell'imperatore. È un documento fondamentale per chi voglia studiare Giuliano ed il suo tempo. Il discorso Della vendetta fu scritto sedici anni dopo la morte di Giuliano, e diretto all'imperatore Teodosio, quando questi fu chiamato da Graziano ad assumere l'impero d'Oriente. Libanio, completamente illuso sulle tendenze del giovane e sconosciuto Teodosio, lo eccita a vendicare Giuliano, come solo mezzo per indurre gli Dei a fermare il corso delle calamità che minacciavano l'oscillante impero. Questi discorsi di Libanio sono una miniera di notizie intorno a Giuliano, ma sono sopratutto preziosi come una rappresentazione dell'impressione prodotta da Giuliano, e dall'aura di simpatia e di speranza che lo circondava, lo eccitava, e gl'impediva di percepire la verità. Certo, Libanio è un uomo di partito, un ellenista appassionato, e non ha la piena sicurezza di giudizio che si ammira nel mediocre ma equilibrato Ammiano Marcellino. Tutto quello che dice Libanio deve essere ricevuto con beneficio d'inventario, ed esaminato con un granello di sale, ma, in ogni modo, non è possibile farsi un'idea chiara e precisa di ciò che è stato e di ciò che ha voluto fare Giuliano, se non si leggono gli scritti di questo suo devoto amico ed appassionato ammiratore.

All'estremità opposta a quella in cui si trova Libanio, noi vediamo Gregorio di Nazianzo, che fa parte, insieme a Basilio ed a Gregorio di Nissa, di quel terzetto di grandi teologi ed oratori, al quale è dovuta la vittoria finale dell'ortodossia nicena. Nato a Nazianzo, in Cappadocia, nel 330, Gregorio era coetaneo di Giuliano, e si trovò insieme a lui in Atene, dove furono condiscepoli di studio. Ma Gregorio era tanto infervorato di Cristianesimo, quanto l'altro d'Ellenismo, e, sebbene Giuliano prudentemente nascondesse le sue tendenze, queste furono indovinate da Gregorio che concepì tosto una viva antipatia pel compagno. Tale antipatia si convertì ben presto in un odio veramente feroce. Gregorio aveva acquistata, come vescovo, ma sopratutto come oratore, un'altissima posizione nel mondo ecclesiastico, e questa posizione, aumentando la sua responsabilità, lo faceva più implacabile pel nemico del Cristianesimo. A ciò si aggiunga che la grande coltura del suo spirito lo rendeva maggiormente sensibile al pericolo che il nuovo genere di guerra, iniziato da Giuliano, creava alla religione cristiana. La morte di Giuliano, che fu per gli ellenisti un colpo terribile e desolante, fu pei Cristiani, e, sopratutto, pei Cristiani letterati e filosofi, come Gregorio, un sollievo inaspettato che li liberava dal più spaventoso degli incubi, ed essi innalzarono un grido di gioia. Nessun grido più esultante e più spietato di quello di Gregorio nei due discorsi infamanti, nelle due colonne infami, come egli stesso li chiama, da lui scritti contro Giuliano, quando ne fu conosciuta la morte. In questi discorsi, Gregorio non è uno storico, e molto meno un giudice; è un polemista terribile, ispirato da un furore che gli toglie del tutto la serenità dell'occhio e del giudizio, ma un polemista dall'ampio volo, e di una eloquenza che trascina. Se Libanio ci rappresenta l'impressione d'esultanza che Giuliano aveva prodotta nel mondo ellenico, Gregorio ci rappresenta ancor più vivamente l'impressione d'orrore prodotta nel mondo cristiano. Le esagerazioni dell'amore e dell'odio, dell'ammirazione e dell'aborrimento si correggono a vicenda, e ne esce una figura rispondente alla verità.

Non vi può essere esempio più curioso della relatività soggettiva dei giudizii umani. Ecco qui due uomini, due contemporanei, di ingegno aperto, di grande coltura, due, infine, fra le più eminenti personalità del loro tempo. Sono essi, e l'uno e l'altro, venuti a contatto con un principe audace, in balia dei più strani capricci della sorte, un principe che ha empito il mondo delle gesta compiute nella sua brevissima, meteorica esistenza. E l'uno e l'altro parlano di quel principe in solenni discorsi, tenuti quando egli era morto, quando della sua opera nulla era rimasto, quando, pertanto, nè il lodarlo poteva recar vantaggio, nè il combatterlo poteva avere un interesse polemico. Ebbene, e l'uno e l'altro sono così esaltati, anzi, acciecati dalla passione che, mentre per l'uno quel principe è un miracolo di virtù, per l'altro è un mostro d'ignominia. Intorno alla sua memoria, i partiti continuarono, per qualche tempo, a tenzonare. Di Giuliano può dirsi davvero che, in vita, è stato

segno d'immensa invidia
e d'indomato amor.

Egli aveva sollevata una tempesta. Le onde di quella tempesta palleggiarono furiosamente il suo cadavere, e lo gittarono sulla spiaggia sfigurato e dilaniato. Che dobbiamo noi fare, per ricomporre quella figura, nella sua realtà? Guardare a ciò ch'egli stesso ci ha detto e ci ha narrato della sua vita, delle sue speranze, dei suoi disinganni. Lì, noi avremo un ritratto genuino, lì, riconosceremo l'uomo vero, con le sue doti meravigliose e con le sue debolezze, e avremo liberato il nostro giudizio dalle imprecazioni appassionate del Cristiano come dalle fallaci apoteosi del Pagano.

Non tutti gli scritti di Giuliano giunsero fino a noi. Tuttavia ne abbiamo in quantità sufficiente per essere pienamente illuminati sul valore dell'uomo e dello scrittore. Rapidissimo dettatore, come vivacemente ce lo dipinge Libanio2, non vi erano preoccupazioni di guerra o di governo che lo distogliessero dal comporre discorsi, trattati, satire, lettere, in cui versava, con un talento naturale, al quale mancava solo il tempo di adoperare la lima, tutta la pienezza del suo spirito versatile. È in questi scritti che si raccoglie il pensiero genuino di quel giovane inquieto che sprecava, nel correr dietro al più ingannevole miraggio le forze di un ingegno acuto e di un'anima generosa.

Gli scritti di Giuliano non hanno tutti il medesimo valore. Abbiamo, da una parte, i discorsi panegirici ch'egli componeva sulla falsa riga della retorica della scuola, la quale poneva tutta l'arte e l'eloquenza in un arido ricettario di formole. Sono, come vedremo, l'espressione di un opportunismo spiegabile, ma, certo, non lodevole nel giovane e sospettato principe. Abbiamo poi i discorsi filosofici, un affettato e poco organico ammucchiamento di dottrine e di simboli, raccolti nell'insegnamento neoplatonico. Questi discorsi, al pari dei panegirici, sono pesanti ed artifiziosi, e, considerati come esercizi letterari e filosofici, hanno, per sè stessi, uno scarso valore. Ma sono preziosi come un saggio delle tendenze e delle abitudini che dominavano nelle scuole del tempo, e, sopratutto, come una dimostrazione del simbolismo mistico con cui il Politeismo si andava piegando alle esigenze del monoteismo, e cercava di lottare col Cristianesimo vittorioso.

Accanto a queste esercitazioni scolastiche, abbiamo i discorsi d'occasione, le satire e le lettere. Qui rivive, davvero, uno spirito originale di cui la pedantesca educazione non aveva illanguidito il fiore, uno spirito che portava, in ogni cosa, una prontezza di percezione, un'impressionabilità geniale, un'acutezza di visione e di giudizio che danno alla sua parola un'espressione vibrante di schiettezza e di verità. È qui che bisogna studiare Giuliano, e quando ricordiamo che questo scrittore brillante, talvolta profondo e talvolta poetico, questo satirico acuto, questo pensatore meravigliosamente versatile e dotto, questo erudito pel quale non solo la sua diletta letteratura ellenica ma anche l'odiata letteratura cristiana non aveva segreti, questo lettore appassionato ed instancabile di Omero, di Bacchilide, di Platone, era quello stesso giovane condottiero di cui il fedele Ammiano Marcellino ci narra le stupende imprese guerresche e ci descrive l'indomabile valore, non possiamo esitar nell'affermare che egli è stato, malgrado l'errore fondamentale della sua vita, una delle figure più cospicue che abbiano illustrata la decadenza fatale dell'antica società.

La storia di Giuliano deve esser fatta con queste quattro fonti che, essendo contemporanee, hanno un valore insuperabile. Le altre narrazioni delle gesta di Giuliano o son giunte a noi in una condizione troppo frammentizia e guasta, per essere documenti sicuri, o provengono, per la massima parte, da scrittori che sono posteriori almeno di un secolo a Giuliano, e quindi non meritano che scarsa fede.

Sarebbero assai interessanti, per la conoscenza di Giuliano, le storie di Eunapio, che, nato nel 347, può ritenersi contemporaneo e testimonio delle gesta del giovane imperatore, sebbene egli stesso ci dica che era in età troppo fanciullesca — κομιδῆ παῖς — per formarsene un giudizio diretto. Eunapio era un fervente ammiratore di Giuliano, e della sua ammirazione le sue storie dovevano dar continue prove. Ma, appunto per ciò, ci pervennero rovinate da ciechi fanatici e ridotte a frammenti poco importanti, perdita tanto più deplorevole perchè Eunapio aveva avuto a sua disposizione le Memorie del medico Oribasio, uno dei più fidi amici di Giuliano.

Ma Eunapio ci ha lasciate, in un altro suo libro, nella Vita dei Sofisti, delle brevi biografie, direi meglio, dei bozzetti dei principali fra i filosofi neoplatonici, in mezzo ai quali fu educato Giuliano. Sebbene egli sia un ben misero scrittore, e, direi quasi, indegno dei tesori di erudizione, che vi dedicarono il Boissonade ed il Wyttenbach, pur egli ha, per la storia di Giuliano, il pregio incomparabile di essere, lui pure, un contemporaneo. Infatti, sebbene appartenesse alla generazione posteriore a quella di Giuliano, egli conobbe personalmente quasi tutti gli uomini di cui ci fa il ritratto, ed anzi, fu parente ed allievo di Crisanzio, uno dei maestri di Giuliano. Noi, pertanto, troviamo in lui delle notizie preziose. Leggendo le vite di Edesio, di Crisanzio, di Prisco, di Oribasio, sopratutto quella di Massimo, il superuomo di quel piccolo mondo, ci sentiamo trasportati nell'ambiente della società neoplatonica, con una vivacità d'impressione assai maggiore di quella che raccogliamo dalla lettura degli storici e dei critici delle epoche posteriori.

Un altro storico bizantino, entusiasta di Giuliano, è Zosimo. Egli dimostra un retto senso critico nel dare, per la conoscenza di Giuliano, una suprema importanza agli scritti stessi dell'imperatore a preferenza di qualsiasi altra fonte. Però, poco o nulla aggiunge a quanto già sappiamo pel racconto di Ammiano. Ma è pur sempre un'autorevole testimonianza della profonda impressione di grandezza che Giuliano aveva lasciata nel suo rapido passaggio sulla scena del mondo.

Gli storici ecclesiastici che si sono occupati di Giuliano, appartengono tutti, escluso il solo Rufino, al secolo successivo a quello di Giuliano. Scrivendo, perciò, in un'epoca tanto lontana dagli avvenimenti che narrano, in un ambiente favorevole alla fioritura della leggenda, mancanti affatto d'ogni prudenza letteraria, spinti ad accarezzare i pregiudizii dello spirito pubblico, a cui era odioso ogni ricordo di Paganesimo, quegli autori non possono costituire per noi delle fonti sicure. Rufino il quale, come dissi, era più vicino a Giuliano, scrisse la continuazione della storia ecclesiastica di Eusebio e la condusse fino al 395. Il suo racconto della reazione di Giuliano è breve ed incompleto. Ma è scritto con uno spirito di relativa tolleranza, e pare che egli non conoscesse, o, se li conosceva, non ha seguiti, i giudizi del terribile Gregorio.

L'ariano Filostorgio, che non ci è pervenuto che in frammenti rimaneggiati, e Teodoreto, negli scritti dei quali la storia è soffocata dalla leggenda, non sono, per gli storici di Giuliano, di nessuna utilità. Importantissime sono, invece, le due storie ecclesiastiche di Socrate e di Sozomene.

Socrate, vissuto verso la metà del secolo quinto, sotto il regno di Teodosio II, scrisse, lui pure, una continuazione della storia ecclesiastica di Eusebio. Nel suo libro, interessante più come un segno delle opinioni del tempo che come critica dei fatti, troviamo narrato, con molti particolari, l'episodio della reazione di Giuliano. Socrate è uno storico intelligente e misurato. Certo, i discorsi di Gregorio hanno esercitato sovra di lui una grande influenza, ed egli riferisce molti fatti evidentemente leggendari o ingranditi dalla leggenda. Ma, pure, non si può dire che Socrate sia acerbo nei suoi giudizii. Nel suo insieme, la storia di questo scrittore equilibrato è un documento che non può esser trascurato da chi vuole studiare la vita di Giuliano.

Sozomene, di poco posteriore a Socrate, ha rifatto la storia di quest'ultimo, aggiungendo qua e là, qualche nuova notizia e, sopratutto, intensificando gli elementi leggendari. Qui non è il luogo di discutere il valore rispettivo di Socrate e di Sozomene, ma è innegabile che Socrate è una personalità letteraria ben più alta; per quanto riguarda la storia di Giuliano, Sozomene non si distingue dal suo predecessore se non per averne abbandonata la relativa temperanza.

La vita e le opere dell'imperatore Giuliano sono assai studiate dalla storia e dalla critica moderna, e ricca è la letteratura che si occupa di lui. Lasciando anche da parte quegli studi necessariamente sommarii che si trovano nelle storie generali, come quella fondamentale del Gibbon sulla decadenza dell'impero romano, o quella recentissima del Villari sulle invasioni barbariche, noi abbiamo numerosi saggi illustrativi di qualche punto speciale delle imprese e del pensiero di Giuliano, ed abbiamo anche brillanti articoli, come quello famoso dello Strauss, che prendeva occasione dalla storia del combattuto apostata per comporre un trasparente tessuto di allusioni al romanticismo medioevale del re Federico Guglielmo. Ma un libro che, tenendo conto di tutto il lavoro critico, cerchi di far rivivere intiera la figura enigmatica di Giuliano e di rappresentarla sotto i suoi vari aspetti, finora non esiste3.

Fra gli eruditi più insigni che si sono occupati di Giuliano, il primo posto va dato al Neumann, il quale, con mirabile acutezza, ha saputo ricostruire, sulla confutazione che ne aveva fatto Cirillo, almeno una parte del trattato di Giuliano contro i Cristiani, parte piccola, ma pur preziosissima per la conoscenza del pensiero di Giuliano4. Preciso e sereno è il libro del Naville, sulla filosofia di Giuliano5. Ricchissima di notizie ed eccellente per l'indicazione delle più piccole e nascoste fonti è la storia del Mûcke6. Ma la mancanza di critica sicura nei giudizi toglie molto del pregio al faticoso lavoro. Interessanti, per la storia delle imprese militari di Giuliano, sono le recenti ricerche del Kock intorno alla campagna di Gallia ed ai rapporti fra Giuliano e Costanzo7; ed istruttivo per la vasta conoscenza delle fonti è il lavoro del Vollert intorno alle opinioni di Giuliano8. Elegante, rapido, abbellito da una facile dottrina è il capitolo su Giuliano nell'opera di Gaston Boissier9. Ma, fra le cose moderne, i due scritti migliori intorno a Giuliano, sono, a parer mio, l'articolo dell'Harnack, in cui il grande erudito, con mano maestra, traccia il profilo dell'apostata imperiale, ed indica l'indirizzo generale del suo pensiero10 e il libro del Rode sulla reazione di Giuliano contro la Chiesa cristiana11. Quest'ultimo, che è un opuscolo di poco più di cento pagine, è un vero capolavoro pel rigore della ricerca, per la logica serrata della dimostrazione, per la precisione, direi quasi, matematica del ragionamento. Non guarda tutto Giuliano, non lo studia che da un solo aspetto. L'uomo, il soldato, l'amministratore non figurano in quel libro; non si vede che il nemico del Cristianesimo, il restauratore dell'Ellenismo. Sebbene talvolta si possa uscir, come vedremo, dallo schema da lui disegnato, si deve pur sempre riconoscere che è impossibile dominar meglio tutti i fattori di un problema storico e rappresentarli in un quadro più evidente.

Ma, se io accenno a questi libri, e molti altri ne dovrei menzionare, sia direttamente relativi a Giuliano, sia ai personaggi che son venuti a contatto con lui, od alle quistioni che fervevano al suo tempo, io voglio soggiungere che non è su questi libri che è fatto il mio12. Io ho attinto alle fonti originali e, su di esse, mi son formata la mia convinzione. Fu la forte impressione che su me produsse la conoscenza degli scritti di Giuliano, la singolare originalità della sua figura, e la possibile applicazione degli insegnamenti che provengono dalla sua storia alla evoluzione del sentimento religioso, che mi spinsero ad intraprendere uno studio che certamente ha in sè gli elementi di un vivo interesse.

Ma, prima di addentrarci in questo studio sulla vita e sullo spirito di Giuliano, guardiamo ancora alla singolarità del fenomeno storico ch'egli ci presenta. Da mezzo secolo il Cristianesimo aveva trionfato. Quattro imperatori, Costantino e i suoi tre figli, lo avevano abbracciato e ne erano diventati i fervidi sostenitori. La Chiesa aveva prese le abitudini di dominatrice assoluta ed ormai più non si contestavano i suoi diritti. La somma del movimento politico ed intellettuale pareva fosse nelle mani dei suoi vescovi. La stessa profonda divisione fra l'ortodossia atanasiana e l'Arianesimo era indizio di un organismo già abbastanza forte e sicuro per darsi il lusso di scissure e di traviamenti che erano indizio di vitalità esuberante. Se, nelle campagne, con la tenacità delle popolazioni lontane dai focolari dove si elabora il pensiero, si perdurava nel culto antico, nelle grandi città i templi erano abbandonati e l'immensa maggioranza degli abitanti era convertita al Cristianesimo. Tutto, infine, indicava una condizione di cose che pareva rendesse inammissibile un ritorno al passato, la ripresa di una posizione che si doveva credere definitivamente abbandonata. Quand'ecco, ascende al trono dei Cesari un giovane imperatore, unico erede di quella famiglia imperiale, a cui il Cristianesimo doveva il suo riconoscimento ufficiale, e questo giovane si accinge alla restaurazione del Politeismo ellenico. Egli è guidato non già da un intento puramente politico, come gli antichi persecutori, ma, bensì, da un concetto razionale. Egli conosce a fondo il Cristianesimo in cui è nato ed educato, e conosce a fondo l'Ellenismo a cui lo hanno iniziato le sue letture e lo studio dei neoplatonici del suo tempo. Egli vede e constata gli effetti reali che il Cristianesimo ha avuto per la moralità del mondo in cui vive, e, da tutto ciò, deduce la conseguenza che l'Ellenismo è preferibile al Cristianesimo, e che il suo dovere d'imperatore è di favorire il ritorno all'antico e d'impedire il diffondersi di una religione che portava con sè la distruzione di una gloriosa civiltà. Ora, quando noi riflettiamo che Giuliano aveva un ingegno forte e nutrito, un animo eroico, un carattere, per eccellenza, virtuoso, non possiamo attribuire ad un capriccio, ad una leggerezza o all'impulso di tendenze viziose quella sua strana risoluzione. Noi siamo condotti a pensare che sia stata il frutto di un ponderato proposito che trovava nelle condizioni dell'ambiente la sua spiegazione ed anche, in parte, la sua giustificazione. Per venire in chiaro sulla genesi di sì strano fenomeno, noi dobbiamo entrare nell'analisi della vita di Giuliano e delle idee che dominavano nel suo spirito ricercatore ed inquieto.

LA VITA DI GIULIANO

Flavio Claudio Giuliano, nacque nel 331, in Costantinopoli, da Giulio Costanzo, fratello dell'imperatore Costantino e da Basilina, che apparteneva ad una nobile famiglia bitinica, congiunta con uno dei principi della Chiesa, Eusebio, vescovo prima di Nicomedia, poi di Costantinopoli. La madre moriva pochi mesi dopo la nascita del figlio, che perdeva anche il padre, quando appena aveva compiuti i sei anni. L'imperatore Costantino, morendo nel 337, lasciava tre figli, Costantino, Costanzo e Costante. Questi tre figli, degni di un padre il quale, sebbene avesse abbracciato il Cristianesimo, eguagliava per la disinvoltura nei delitti domestici, i più efferati dei suoi predecessori13, iniziarono il regno con lo sterminio dei parenti, di Giulio Costanzo, loro zio e padre di Giuliano, del figlio maggiore di costui, di un altro zio, e di tre cugini, figli di un altro fratello di Costantino.

La responsabilità di tali delitti pesa tutta su Costanzo, a cui era toccato il governo dell'Oriente e che risiedeva a Costantinopoli, dove avvenne la strage. Costanzo ha cercato più tardi di scusarsi di quell'orribile misfatto, di cui si pentiva, attribuendone la causa ad una rivolta militare14. Ma la scusa non è ammissibile, perchè l'esercito non aveva nessun interesse nella scomparsa di quegli eventuali pretendenti, mentre Costanzo, per natura sospettoso di tutti e di tutto, e traviato da cortigiani che volevano guadagnarsene l'animo e la fiducia, doveva facilmente essere indotto ad un delitto che, del resto, era nelle tradizioni della famiglia. E, se anche si volesse tener per valida la frase di Eutropio, il quale dice che la cosa avvenne Costantio sinente potius quam iubente, è chiaro che si avrebbe affermata una di quelle ipocrisie che salvano le apparenze, ma lasciano intatta la realtà.

Non furono risparmiati, in questo eccidio, che i due ultimi figli di Giulio Costanzo, Gallo e Giuliano, ritenuti, pel momento, innocui per la loro tenera età. «Costantino — scrive Libanio — morì di malattia, ma la spada fece strage di tutta la sua famiglia, tanto dei padri quanto dei figli. Il fratellastro di Giuliano, maggiore d'anni di lui, scampò dall'eccidio, salvato da un'infermità che si credeva gli avrebbe data la morte, Giuliano dall'età, perchè appena slattato»15. Qui c'è una grave inesattezza, perchè Giuliano, nato nel 331, aveva sei anni alla morte di Costantino.

Quei tre scellerati Costantiniani vennero ben presto alle mani fra di loro. Costantino fu ucciso nel 340. Rimasero Costante che tenne per sè l'Occidente, e Costanzo che regnò sull'Oriente, finchè, ucciso anche Costante dall'usurpatore Magnenzio nel 350, Costanzo ebbe nelle sue mani tutto l'impero.

Durante questi tragici avvenimenti, il piccolo Giuliano cresceva a Costantinopoli, presso la famiglia materna, educato, come narra Ammiano, sotto la direzione del vescovo Eusebio di cui era lontano parente16. Se non che, assai più che l'influenza del vescovo, sentì quella del pedagogo a cui fu affidato all'età di sette anni, ed a cui, certo, è dovuta la prima piega del suo spirito impressionabile e vivace. Quel pedagogo era un eunuco, già vecchio assai, che l'avo di Giuliano, come questi ci narra nel Misobarba17, aveva dato maestro a Basilina, la madre di Giuliano, quando era fanciulla, onde guidarla nella lettura di Omero e di Esiodo. Mardonio, così si chiamava, doveva essere un letterato pieno di ammirazione per la coltura e per le tradizioni elleniche. Libanio lo chiama «insigne custode di sapienza»18. Nella frivola e cristiana Costantinopoli, costui cercava di avviare il discepolo all'esercizio delle più severe virtù, opponendo alle abitudini corrotte e molli del mondo in cui viveva il rigore ideale della filosofia e della saggezza ellenica.

Ma qui noi lasceremo la parola allo stesso Giuliano, il quale, nel Misobarba, ci fa una vivace descrizione del sistema educativo, tenuto con lui dal suo pedagogo. Onde dare al lettore la possibilità di comprendere, nel suo vero significato, questo brano interessante, dobbiamo dirgli, precorrendo le future analisi, che il Misobarba è una satira pungente diretta dallo sdegnato imperatore contro gli abitanti di Antiochia, a cui egli era venuto in uggia per la severità dei suoi costumi. Non bisogna, dunque, dimenticare che il discorso di Giuliano è ironico dalla prima all'ultima parola. «A me — dice Giuliano agli Antiochesi, deplorando ironicamente l'educazione avuta — l'abitudine non permette di lanciare d'ogni parte tenere occhiate, onde parervi bello, non nell'anima, ma nel volto. Eppure, voi avete ragione! I molli costumi sono la vera bellezza dell'anima. Ma il mio pedagogo mi insegnò a tenere gli occhi a terra, quando andavo a scuola. Io non vidi mai teatro prima che avessi il mento chiomato più del capo. E mai, per fatto mio, ma, tre o quattro volte, per ordine dell'imperatore mio parente. Perdonatemi dunque. Io offro al vostro odio chi lo merita più di me, il mio uggioso pedagogo, il quale, anche allora, già mi contristava, insegnandomi a battere una sola strada. Egli è il vero colpevole del contrasto in cui mi trovo con voi, perchè egli elaborava e quasi scolpiva, nell'anima mia, ciò che allora non era affatto di mio gusto, ma che, a forza d'insistere, finì per farmi parer gradito, abituandomi a chiamare serietà l'essere rozzo, saggezza l'essere insensibile, e forza d'animo il resistere alle passioni, e il non trovarvi piacere alcuno. Figuratevi che, spesso, per Giove e per le Muse, quel mio pedagogo, mi ammoniva, quando era ancor fanciulletto, dicendomi: — Non lasciarti trascinare dai tuoi coetanei, che frequentano i teatri, ad appassionarti per gli spettacoli. Ami le corse dei cavalli? Ve ne ha una bellissima in Omero. Prendi il libro e leggi. Ti parlano di mimi e di danzatori? Lascia dire. Danzano assai meglio i giovanetti Feaci. E là tu troverai il citarista Femio ed il cantore Demodoco. E il leggere, in Omero, certe descrizioni d'alberi è più dilettevole che il vederli nel vero. Io vidi a Delo, presso l'ara d'Apollo, un rampollo giovinetto di palma erigersi al cielo. E leggerai della selvosa isola di Calipso, dell'antro di Circe, e del giardino di Alcinoo. Tu ben sai che nulla di più bello potrai mai vedere.

«Forse, voi desiderate che io vi dica il nome e l'origine di quel mio pedagogo. Egli era barbaro, per gli dei e per le dee. Scita d'origine, ed aveva il nome di colui che persuase Serse a far guerra alla Grecia. Portava quella qualifica, tanto onorata e rispettata venti mesi or sono, ora adoperata per offesa e per disprezzo, voglio dire ch'egli era eunuco, allevato dal mio avo, onde spiegasse a mia madre i poemi di Omero e di Esiodo... Avevo sette anni quando fui dato a costui. Da quel giorno, egli mi educò, seguendo sempre un sol metodo d'insegnamento. E, non volendo, egli stesso, conoscerne altri, e non permettendolo a me, riuscì a rendermi odioso a voi tutti. Ma ora, finalmente, se vi pare, libiamo alla sua memoria e facciamo pace. Egli non sapeva che io sarei venuto a voi, nè, dato anche che io venissi, che avrei avuto un tanto impero, quale me lo diedero gli dei, facendo violenza, credetemelo, ed a chi doveva trasmetterlo, ed a chi doveva riceverlo... Ma si faccia la volontà degli dei. Forse se il pedagogo avesse previsto tutto ciò, avrebbe preso qualche provvedimento, affinchè io potessi sembrarvi aggraziato. Ma ora come mi sarebbe possibile deporre e dimenticare quelle rozze abitudini che furono coltivate in me? L'abitudine, si dice, è una seconda natura. Combattere la natura, è grave cosa, distruggere il lavoro di trent'anni è più grave ancora, sopratutto quando è stato compiuto con tanta fermezza. — E sia così — imagina Giuliano che gli rispondano gli Antiochesi — ma perchè mai ti viene in mente di ingerirti negli affari e di far da giudice? Certo anche questo non ti insegnò il pedagogo, il quale non sapeva che tu avresti regnato. — Mi ammaestrò — risponde Giuliano con acerba ironia — quel vecchio esecrabile, che voi, ben a ragione, vituperate, come il vero responsale della mia condotta19. Ma sappiate che lui pure era ingannato da altri. Certo, più volte, nella commedia, giunsero a voi questi nomi, Platone, Socrate, Aristotele, Teofrasto. Ebbene, quel vecchio stolido, persuaso da costoro, persuase me pure, quando era giovinetto ed amante dello studio, che, se io fossi diventato, in ogni cosa, loro imitatore, sarei, insieme, diventato migliore di ogni altro uomo»20. Da questo brano tanto interessante ed avvivato dalla più pungente ironia, risulta che il vecchio Mardonio educava il suo allievo imperiale in un'aura di puro ellenismo. Nessun precetto, nessun esempio cristiano era posto davanti al fanciullo, il quale si abituava a vedere l'origine di ogni virtù negli insegnamenti degli antichi poeti e pensatori del Politeismo, e la causa della decadenza, della corruzione e del vizio nel prevalere del Cristianesimo, quale a lui si rivelava nel mondo ecclesiastico e cortigiano di Costantinopoli. Questa educazione spiega il nascere delle prime tendenze del fanciullo, ed è la chiave della frase di Ammiano che ci dice come: a rudimentis pueritiæ primis inclinatior erat erga numinum cultum, paulatimque adulescens desiderio rei flagrabat21.

Questa educazione, che doveva lasciar tracce profonde nell'animo impressionabile del fanciullo, fu presto interrotta. Morto, nel 342, il vescovo Eusebio che aveva l'ufficiale sorveglianza del piccolo principe, sorveglianza, del resto, da lui esercitata in modo affatto superficiale, così da non accorgersi che il pedagogo segretamente piegava l'animo dell'allievo all'antipatia pel Cristianesimo, l'imperatore, pauroso, fors'anche, di veder sorgere un rivale nel fanciullo che cresceva sotto gli occhi di tutti, nella capitale dell'impero, lo mandava insieme al fratello Gallo, salvato, lui pure, dall'eccidio dei Costantiniani, in una specie di reclusione, in un solitario castello della Cappadocia, chiamato Macello, descritto dallo storico ecclesiastico Sozomene come un luogo di delizie22. I due giovanetti vissero sei anni in quel ritiro, circondati da schiere di servi, ma fuori affatto del movimento intellettuale e politico del mondo. Giuliano ricorda quegli anni con grande amarezza nel suo discorso agli Ateniesi. «Che dirò io di quei sei anni, passati in un podere altrui, senza che nessun estraneo potesse avvicinarsi a noi, o che potesse avvicinarci alcuno dei nostri antichi conoscenti? Vivevamo esclusi da ogni efficace insegnamento, da ogni libera conversazione, nutriti fra lo splendore dei servizi domestici, ma costretti ad esercitarci coi nostri servi, come se fossero nostri compagni, poichè nessun nostro coetaneo era ammesso vicino a noi»23. Giuliano osserva che, mentre suo fratello Gallo, in conseguenza delle abitudini, prese in quel soggiorno, divenne rozzo e violento, egli fu salvato dal germe di filosofia, e vuol dire di dottrina ellenica, che già esisteva in lui. Ma non dobbiamo prendere letteralmente le parole di Giuliano. Se era vero che la splendida prigione dei due giovani era chiusa ad ogni soffio di influenza filosofica e politeista, pare, invece, che, intorno ad essi, energicamente si esercitasse l'insegnamento dottrinale del Cristianesimo.

È assai interessante il leggere ciò che dice della reclusione dei due principi Gregorio di Nazianzo. Non è possibile una più recisa contraddizione con le affermazioni di Giuliano, non è possibile un più radicale travisamento della verità, per intento polemico. Gregorio rappresenta il perfido Costanzo come un modello di bontà, e Giuliano come un mostro d'ingratitudine. Ora, quando si ricorda che Costanzo, oltre ai suoi delitti domestici, alla sua condotta crudele, determinata dall'influenza dei cortigiani e degli eunuchi, era stato il più forte sostenitore dell'Arianesimo, per lui trionfante, possiamo misurare dalle lodi che Gregorio gli profonde, mentre avrebbe meritato i più acerbi rimproveri da parte di un Cristiano, e Cristiano ortodosso, tutta l'ira feroce che il tentativo di Giuliano aveva sollevata nei dominatori della Chiesa, i quali hanno, per un istante, paventato di perdere la vittoria, a sì caro prezzo acquistata.

Narra dunque Gregorio24 che Costanzo aveva voluto salvare Gallo e Giuliano dall'eccidio di tutti gli altri Costantiniani, avvenuto senza che egli ne avesse colpa, onde farsene compagni ed aiuto nell'esercizio dell'impero. Pertanto l'umanissimo imperatore li fece educare, con tutto lo splendore di un trattamento regale, in una delle sue ville — così descrive Gregorio il domicilio coatto di Macello — circondandoli con uomini sapienti e religiosi. E i due giovanetti erano tanto infervorati nel culto divino da assumere gli uffici del clero, così che leggevano al popolo congregato i libri sacri, e dimostravano uno zelo speciale nel culto dei martiri. Se non che Gallo — dice Gregorio — violento nell'indole, era sincero nella sua pietà. Giuliano, invece, nascondeva, sotto l'apparente devozione, le perfide tendenze dell'animo25. E Gregorio racconta una storia miracolosa. I due fanciulli, Gallo e Giuliano, si erano accinti a costrurre due santuari ai martiri, gareggiando nel dispendio e nel lavoro. L'opera di Gallo fu presto condotta a compimento, ma quella di Giuliano veniva sempre interrotta, perchè sconquassata dai movimenti del suolo, indizio che i martiri rifiutavano l'omaggio di chi doveva più tardi rinnegarli. I due fratelli si esercitavano anche in dispute retoriche e filosofiche, e Giuliano prendeva sempre, e con calore più vivo del conveniente, la parte dell'Ellenismo, col pretesto di esercitarsi a trovare argomenti per la tesi più debole, ma, in realtà, per esercitarsi a combattere la verità26. In mezzo alle esagerazioni ed alle leggende, si riscontra anche qui, come in quasi tutte le notizie di Gregorio, un fondo di verità; vi sono, nei suoi discorsi, dei lampi che danno alla figura di Giuliano un rilievo vivente.

Che, del resto, l'alto clero cristiano non perdesse di vista quei rampolli imperiali, lo rileviamo da Giuliano stesso, il quale, in una lettera scritta quando già era imperatore, ricorda che il vescovo Giorgio d'Alessandria gli mandava a Macello, ond'egli li ricopiasse, alcuni dei volumi della sua ricca biblioteca27. È strano, assai strano che questa educazione, esclusivamente cristiana, continuata per un quinquennio, abbia, bensì, servito a dare a Giuliano una conoscenza singolarmente profonda dei libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, ma, insieme, non sia riuscita che ad acuire, nell'animo del giovanetto, l'antipatia per la religione in cui veniva allevato. Ciò non può spiegarsi che, per la spaventosa corruzione in cui era caduto, in Oriente, il Cristianesimo ariano. Ariano era Costanzo, ariani i prelati che frequentavano la corte e che occupavano le sedi più cospicue. E si comprende come l'animo di Giuliano, già imbevuto degli austeri insegnamenti del suo pedagogo Mardonio, e già inclinato a veder nell'Ellenismo la fonte di una pura, perfetta moralità, si sollevasse indignato contro lo spettacolo a cui assisteva e coltivasse, nel segreto dell'anima, mentre prendeva parte ai servizii del culto cristiano, propositi di rivolta. Se, invece di un Eusebio, di un Giorgio e degli altri ecclesiastici ariani che lo circondavano, egli fosse venuto a contatto con un Atanasio, con un Ambrogio, con un uomo, infine, che sapesse tener immune il Cristianesimo dai veleni inquinatori del tempo, forse si sarebbe volto da tutt'altra parte di quella che ha preferita. Lo stesso odio che, giunto al fastigio della potenza, e quando già era irremissibilmente compromesso, sentì per Atanasio, il solo personaggio cristiano, contro il quale, come vedremo più tardi, iniziasse un procedimento di persecuzione, ci prova come egli sentisse tutta la differenza che esisteva fra il Cristianesimo ariano e l'ortodossia atanasiana e vedesse che quest'ultima costituiva lo scoglio contro cui avrebbe urtato la nave dell'Ellenismo.

Federico Rode, in un libriccino, tenue di mole, ma denso di pensiero e di erudizione28, non è di questo parere. Egli dice: «Anche fatta astrazione della circostanza che non già il vero Arianesimo, ma, bensì, l'Arianesimo temperato di Eusebio dominava alla Corte e quindi anche nell'educazione di Giuliano, dobbiamo insistere sulla circostanza che Giuliano, nella sua polemica, attacca non già l'Arianesimo, ma tutto il Cristianesimo ed anzi specialmente gli Atanasiani. È cosa affatto vana il discutere se Giuliano avrebbe potuto diventare proclive al vero insegnamento di Gesù, poichè dove, al suo tempo, avrebbe egli potuto trovare quell'insegnamento? Presso Atanasio, no di certo. Prevenendo la teologia critica del secolo decimonono, già Giuliano aveva constatata la grande differenza che correva fra il Cristo degli scritti primitivi del Nuovo Testamento e il Dio del Simbolo niceno».

Tutto ciò sarebbe vero se Giuliano avesse abbandonato il Cristianesimo, perchè si fosse urtato contro le difficoltà razionali che gli offriva la metafisica cristiana paragonata alla dottrina originaria di Gesù. Certo, in questo caso, l'ortodossia atanasiana non avrebbe giovato meglio dell'Arianesimo a tener in carreggiata lo spirito indagatore di Giuliano, anzi, gli sarebbe, forse, stata più aspra ad ingoiare. Ma Giuliano ritornò all'Ellenismo, non già per effetto di riflessioni filosofiche, ma per ragioni di sentimento, e, certo, una delle prime, fra queste, era il disgusto che gli metteva lo spettacolo della corruzione di cui il Cristianesimo era contaminato, corruzione riconosciuta eloquentemente dallo stesso Gregorio, il quale non esita ad affermare che i Cristiani perdettero nella prosperità la gloria acquistata nelle persecuzioni e nelle sciagure29.

Ora, è innegabile che tale corruzione era assai più avanzata nell'Arianesimo, la religione della corte di Costanzo, che nell'ortodossia la quale si stringeva intorno alla grande figura di Atanasio. Nell'ortodossia il Cristianesimo aveva conservato una parte almeno della sua efficacia moralizzatrice, e, se questa efficacia si fosse esercitata, fin dai primordi dell'educazione, sullo spirito del giovanetto Giuliano, lo avrebbe forse guadagnato ad una religione che sarebbe stato costretto a rispettare.

Erano passati cinque anni dal principio della reclusione a Macello, quando l'imperatore Costanzo, mosso dalla difficoltà di tenere, nelle sole sue mani, tutto l'impero, cambiava, d'un tratto, di condotta verso i cugini, e chiamava il maggiore, Gallo, all'altissimo ufficio di Cesare, che, secondo la gerarchia stabilita da Diocleziano, voleva dire vice-imperatore, la prima figura nell'impero dopo quella dell'Augusto, del capo supremo. Giuliano, nello stesso tempo, era richiamato a Costantinopoli. Qui, a quel che ci narrano Socrate e Sozomene d'accordo con Libanio, gli si pose al fianco il sofista cristiano Ecebolio, un curioso personaggio, il quale passava, con tutta disinvoltura, dal Cristianesimo all'Ellenismo, a seconda degli umori dell'imperatore regnante30. Ecebolio seguiva gli ordini di Costanzo, ed, insieme agli eunuchi di corte, cercava di disciplinare l'ingegno inquieto dell'allievo, e ciò con grande dispiacere di Libanio, il quale avrebbe voluto spargere, lui, il buon seme in quell'anima generosa, e doveva, invece, constatare che un malvagio sofista era stato prezzolato ad infondere nel giovanetto il disprezzo degli dei31.

Se non che, i progressi di Giuliano negli studi e la simpatia ch'egli destava cominciarono ad insospettire Costanzo. «Temendo, dice Libanio, che una città grande, e che esercitava una grande influenza, non fosse sedotta dalle virtù del giovane, e ne venisse a lui qualche pericolo, si risolve di mandarlo a Nicomedia, che non presentava eguali pericoli, e gli diede facoltà di istruirsi». La paura è cattiva consigliera. Risoluzione più imprudente non poteva esser presa da Costanzo, perchè Nicomedia era allora il focolare principale dell'Ellenismo, e vi dimorava appunto Libanio, il principe dei retori del tempo, il leader, come or si direbbe, del partito ellenista, Libanio che, com'egli stesso dice, aveva preferita la pace serena di Nicomedia alla perigliosa tempesta di Costantinopoli. È vero che Costanzo, nel mandare Giuliano a Nicomedia, gli aveva imposto, dietro i consigli di Ecebolio, di non esser mai presente ai discorsi di Libanio. Ma il giovane entusiasta se li comperava scritti e li leggeva avidamente. Ed il retore, con una scusabile vanità, ci narra che era tanta la prontezza d'ingegno di Giuliano che, malgrado l'imposta separazione del maestro e del discepolo, questi riusciva ad imitarne lo stile, meglio degli scolari che gli stavano d'intorno, così che, anche negli scritti posteriori, si risente la parentela coi suoi32.

All'influenza di Libanio un'altra si aggiungeva ancor più efficace, ed era quella dei filosofi neoplatonici, Edesio, Crisanzio, Eusebio, Massimo, il più importante di tutti, i quali vivevano in Nicomedia o in altre non lontane città dell'Asia. Qui è propriamente il momento psicologico della carriera di Giuliano. Presso quei filosofi, che lo iniziavano ad un sistema in cui la conservazione dell'antico si univa alla soddisfazione di quelle esigenze di pensiero che avevano promossa l'apparizione del Cristianesimo, e che poi il Cristianesimo stesso aveva rese più forti, il ventenne Giuliano sentì chiara ed irresistibile la sua vocazione, e si convertì con profondo entusiasmo al culto degli dei. Per quanto la cosa fosse tenuta segreta, pur qualche indizio ne trapelava. «Dalla bocca d'ogni ben pensante, esclama Libanio, s'innalzava la preghiera che quel giovanetto diventasse il signore dell'universo, e fermasse la rovina del mondo e soccorresse gli infermi, lui che sapeva risanarne i mali»33.

Libanio e Socrate si accordano nell'attribuire al filosofo Massimo il merito, secondo il primo, la colpa, secondo l'altro, della conversione di Giuliano. Massimo era ritenuto come un santo dal politeismo. Eunapio34 narra che, entrando egli una volta nel tempio di Diana, in Efeso, la statua della dea sorrise di compiacenza, e si accese la lampada ch'essa teneva in mano. Giuliano si esaltava in questa atmosfera di misticismo; ma doveva nascondere i suoi entusiasmi, perchè la notizia di ciò che faceva era giunta a Costanzo, il quale subito se ne insospettiva, e Giuliano, per non cadere in disgrazia, ciò che, sotto Costanzo, voleva dire essere trucidato, dovette riprendere nell'apparenza la vita e gli esercizi del cristiano. Ma il suo spirito era irremissibilmente compromesso nell'Ellenismo. Il seme che il vecchio Mardonio aveva deposto in lui, maturato dall'odio contro il persecutore della sua famiglia, dalla reazione contro il sistema di uggiosa compressione in cui era stato allevato, dal rimpianto delle glorie antiche che andavano svanendo, da un'aspirazione ad un'alta moralità che dal Cristianesimo cortigiano non poteva essere soddisfatta, aveva trovato nel Neoplatonismo dei suoi maestri, mescolanza curiosa, come vedremo a suo tempo, di razionalismo platonico e di misticismo superstizioso, l'ambiente opportuno per svolgersi e crescere, così da soffocare ogni altro rampollo intellettuale che in lui fosse stato trapiantato. Dal soggiorno in Nicomedia, nel 351, al giorno in cui partendo dalla Gallia, ribelle contro Costanzo, apertamente invocava gli dei dell'antico Olimpo, dovevano passare ben dieci anni. Ma, in questi dieci anni, il politeista ellenico, che rimase nascosto in Giuliano, attingeva, dal segreto, un crescente fervore, e non cessava un istante dal corroborarsi con maggiore fermezza nella presa risoluzione.

Giuliano rimase, per tre anni, tranquillo, assorto negli studi, quando nel 354, improvvisamente, si vide di nuovo travolto nei pericoli e nelle agitazioni. Costanzo, riprendendo le antiche abitudini, e prestando orecchio alle insinuazioni dei cortigiani che lo circondavano, faceva assassinare, a Pola, Gallo, il fratellastro di Giuliano, da lui, tre anni prima, chiamato alla dignità di Cesare. Nel suo manifesto agli Ateniesi, Giuliano parla, con ardente indignazione, di questo delitto di Costanzo. Egli ammette che Gallo fosse uomo rozzo e violento, ma ne attribuisce, come vedemmo, la causa all'educazione che aveva ricevuto. In ogni modo ciò non scusa la scelleraggine di Costanzo, il quale «per le istigazioni di un eunuco, di un ciambellano, e più ancora per quella del capo dei cuochi, consegnò ai suoi più feroci nemici, perchè lo uccidessero, il cugino, il Cesare, il marito di una sua sorella, il padre della nipotina, del quale egli stesso aveva prima sposata la sorella, al quale era legato da tanti doveri di parentela!»35. Lo sdegno di Giuliano è naturale e spiegabile. Però, per essere completamente nel vero, bisogna aggiungere, ciò che Giuliano tace od, in parte, attenua, onde colorire a suo modo il quadro, che Gallo era un vero Costantiniano, un uomo di una crudeltà stolta e sfrenata, il quale, nei pochi anni in cui ha governato l'Oriente, avendo al fianco la moglie Costantina, un vero demonio, degna figlia di Costantino e degna sorella di Costanzo, aveva sparso a torrenti il sangue. Ammiano dice che fra i due fratelli, Gallo e Giuliano, correva la medesima differenza che era corsa fra i figli di Vespasiano, di cui Tito era un esempio mirabile di temperanza e di saggezza, Domiziano un mostro di ferocia36.

Era naturale che Costanzo, avendo ucciso Gallo, non volesse lasciar libero Giuliano, e ne temesse le possibili vendette. Infatti, lo chiamava a Milano e lo teneva sette mesi sotto rigorosa custodia, e non sarebbe, certo, sfuggito alla morte, sebbene da gran tempo non avesse avuto relazioni col fratello, se, come egli ci dice «qualche dio, volendo salvarlo, non gli avesse procurata la benevolenza della bella e gentile Eusebia»37. L'intervento di Eusebia, la moglie dell'imperatore, dà un'aria romanzesca a questa parte della vita di Giuliano. L'entusiasmo con cui il perseguitato principe parla della sua protettrice, e il coraggio con cui essa seppe difenderlo dai numerosi nemici che Giuliano aveva fra i cortigiani di Costanzo, fanno credere che non solo la causa della giustizia e della pietà, virtù sconosciute alla corte dell'imperatore, ma un affetto più profondo e personale muovesse Eusebia nella sua provvidenziale iniziativa. Ammiano ci narra, lui pure38, che Giuliano sarebbe certamente perito, per le nefande istigazioni dei cortigiani — nefando adsentatorum cœtu perisset urgenter — se, per un'ispirazione divina, non fosse intervenuta Eusebia. Costei primieramente ottiene che Giuliano sia allontanato da Milano e mandato, per qualche tempo, a Como, poi finalmente riesce a persuadere Costanzo a concedergli un'udienza. La cosa non era facile perchè Costanzo stesso non pareva inchinevole al colloquio col cugino, e poi perchè il maestro del palazzo, eunuco potentissimo presso l'imperatore e nemico acerrimo di Giuliano, cercava di tirar le cose in lungo, pel timore che i due cugini nel vedersi, si riconciliassero39. Pare che, nell'udienza, Giuliano, certo, con l'aiuto di Eusebia che aveva preparato il terreno, riuscisse a scolparsi40. Il fatto è che fu rimandato libero, e che gli si permise di andare a ritirarsi in un piccolo podere di Bitinia, ereditato dalla madre, il solo possesso che gli fosse rimasto, perchè l'onesto Costanzo — ὁ καλὸς Κωνστάντιος — dopo avergli ucciso il padre, gli aveva portati via tutti i beni paterni41. Ma qui non finiscono i benefici di Eusebia che teneva, sul suo protetto, gli occhi aperti. Giuliano era in viaggio per la Bitinia, quando, egli non sa precisamente il come, ma crede per le calunnie del suo nemico, si riaccendono i sospetti nell'animo di Costanzo. Eusebia ne prende occasione per rendere a Giuliano un nuovo servizio e, per lui, il più gradito. Ottiene dal marito che muti la destinazione del possibile pretendente, ed invece di mandarlo nel lontano Oriente dove potrebbe preparare la vendetta di Gallo, lo condanni a domicilio coatto ad Atene. Era davvero un correre incontro al desiderio di Giuliano. Il giovane entusiasta punto non si incaricava di politica imperiale, non aveva nè ambizioni di regno, nè desiderio di ricchezze e di vendette. Egli non chiedeva che di poter sprofondarsi ne' suoi studi, non aveva che una passione, quella dei libri, non aveva che un'intensa aspirazione, vedere la Grecia, la sua vera patria, ch'egli amava di intenso affetto42; la sede ancora brillante di quella coltura ellenica a cui egli aveva dedicata la sua vita.

Giuliano non fu lasciato che pochi mesi ad Atene, ma questi pochi mesi hanno avuto, come lo affermano i suoi contemporanei, una grande influenza sull'animo suo. Egli teneva ancora celate le sue convinzioni religiose, ma ciò non gli impediva di infervorarsi negli studi ed anche nella conoscenza dei Misteri, che costituivano il principale atto di culto di quel simbolismo politeista di cui Giuliano voleva fare la religione del mondo. Eunapio, Socrate e Sozomene insistono tutti sull'importanza che ebbe, nella vita di Giuliano, la sua dimora in Atene. Ma i due narratori più autorevoli ed interessanti sono, come sempre, Libanio e Gregorio. Libanio dice che, presentatosi Giuliano ai professori di Atene, e offertosi ad un esperimento, si trovò che ne sapeva più dei maestri, così che «solo di tutti i giovani che accorrevano ad Atene, ne ripartiva, avendo insegnato più che imparato. Pertanto si vedevano continuamente intorno a lui degli sciami di giovani, di vecchi, di filosofi, di retori. A lui guardavano anche gli dei, ben sapendo ch'egli avrebbe risollevato il patrio culto. Quando parlava era, insieme, ammirabile e modesto, poichè, checchè dicesse, subito arrossiva. Di questa sua mansuetudine tutti godevano, e i migliori traevano profitto dai suoi insegnamenti. E il giovinetto aveva intenzione di vivere e di morire in Atene, e ciò gli pareva il colmo della felicità»43.

Nulla di più curioso che il contrapporre a questo ritratto disegnato da Libanio il ritratto disegnato da Gregorio. Costui, che, come sappiamo, era coetaneo di Giuliano, si trovava pure ad Atene, per addestrarsi, nell'università letteraria di quella città, in quell'arte oratoria ch'egli doveva, più tardi, adoperare, con tanta genialità, a difesa dell'ortodossia nicena. Gregorio e Giuliano erano condiscepoli; il futuro teologo, vivendo al fianco del futuro apostata, aveva agevole occasione di scrutarne l'animo e di studiarlo in ogni sua mossa, per quanto Giuliano cercasse ancora di tener celate le tendenze e le convinzioni già in lui radicate. Nel ritratto disegnato da Gregorio è evidente l'intenzione ostile del pittore che vuol darci un'imagine odiosa. Ma, con tutto questo, a me non pare che il ritratto possa dirsi una caricatura. C'è un'espressione di verità nella figura che balza fuori dalle pagine del polemista. La vita così singolare ed agitata di Giuliano, le contraddizioni di cui è piena, la subitaneità delle sue risoluzioni, il suo eroismo disperato, la versatilità inquieta del suo ingegno, si accordano, forse, assai meglio coll'imagine turbata, enigmatica, un po' convulsa che ci presenta Gregorio che coll'imagine serena e sorridente tratteggiata da Libanio. «Io — dice Gregorio, scrivendo dopo la morte di Giuliano — aveva, già da tempo, sospettato di lui, fin da quando mi trovavo in Atene. Era egli venuto colà, poco dopo la catastrofe di suo fratello, avendone ottenuta licenza dall'imperatore. Due erano i motivi che gli facevano desiderare quel soggiorno; il primo, il lodevole, era di conoscere la Grecia e le sue scuole, l'altro, che non si diceva e che solo a pochi era noto, era di conferire segretamente coi sacerdoti e con gli impostori, poichè l'empietà non si sentiva ancor sicura del fatto suo. Fu allora appunto che io divenni un sagace indovino del carattere di lui, quantunque io non sia di coloro che hanno a ciò una naturale disposizione. Ma mi aveva fatto indovino l'anomalia del suo contegno e la singolarità delle sue distrazioni. A me parevano indicare nulla di buono il collo dondolante, le spalle agitate, l'occhio vagabondo, che intorno intorno guardava, e che aveva in sè qualche cosa del maniaco, il piede vacillante e che sembrava mal lo reggesse, le narici spiranti orgoglio e disprezzo, i lineamenti del volto ridicoli ed altezzosi, il riso immoderato e scoppiettante, i cenni di assenso e di diniego senza ragione, la parola che s'interrompeva ed a cui sembrava mancasse il fiato, le domande disordinate e irragionevoli, non migliori le risposte, intralciantisi le une le altre, senz'ordine di ragionamento. Ma perchè discendere a tanti particolari? Io lo vidi prima che agisse quale poi lo conobbi nell'azione. E, se fossero presenti alcuni di coloro che allora mi ascoltavano, attesterebbero senza esitanza la verità di ciò che dico. E ricorderebbero che, alla vista di quegli indizii, io esclamai: Quale mostro l'impero romano nutre nel suo seno! — Ma allora io fui chiamato ed imprecato falso profeta!»44. Che vi sia, in questa descrizione, una buona dose di esagerazione, non è dubbio. Essa contrasta troppo recisamente, non solo con quanto dice Libanio, ma, ciò che più importa, con la descrizione dell'onesto ed imparziale Ammiano. Ma, lo ripeto, vi deve essere anche qualche cosa di vero. La figura di Giuliano qui è vivente. Se non che, Gregorio vuol vedere le manifestazioni di un mattoide in ciò che altro non era se non il contegno sospettoso di un uomo che doveva gelosamente celare i suoi sentimenti, di un uomo che si sapeva circondato da nemici, di un uomo in cui la prudenza, consigliata dalla ragione, si trovava in lotta costante con l'audacia naturale dell'anima. Ma come è drammatico ed interessante l'incontro, nella scuola di Atene, di questi due giovani, destinati a diventare terribilmente nemici l'uno dell'altro, e che già si spiavano a vicenda con quell'acume che dà l'odio istintivo. Se Gregorio fu singolarmente sagace, Giuliano, al quale la già lunga esperienza della sua vita tribolata acuiva la prontezza dell'ingegno, non lo sarà stato meno del suo condiscepolo, e, certo, avrà presentito in Gregorio uno dei futuri difensori del Cristianesimo. Il suo contegno inquieto, tutto a scatti ed a mosse incoerenti, era probabilmente, almeno in parte, un artifizio per nascondere agli occhi scrutatori del compagno il segreto della sua anima di ellenista fervente, i suoi propositi e le sue speranze.

Mentre Giuliano studiava ad Atene, maturavano per lui inaspettati destini. Una congiura militare, supposta, più che scoperta, a Sirmio, in Pannonia45, la rivolta di Silvano nella Gallia, domata con la proditoria uccisione di Silvano stesso46, e le continue devastazioni perpetrate dai Germani nella Gallia indifesa, avevano spaventato Costanzo. Ondeggiante fra il sospetto e la fiducia, stiracchiato fra diversi consigli, spinto finalmente dalla grandezza del pericolo, e, certamente, premuto da Eusebia, l'imperatore chiamò a Milano il cugino Giuliano47. Con quanto dolore lo studente abbandonasse Atene, ce lo narra egli stesso nel suo manifesto agli Ateniesi. «Quale torrente di lagrime io versassi e quanti gemiti, tendendo le mani verso l'Acropoli vostra, e pregando Minerva di salvare il supplice e di non abbandonarlo, lo possono attestare molti di voi che l'hanno veduto, e più di tutti la stessa dea a cui io chiedeva di farmi morire in Atene, prima che partissi. Ma la dea mostrò col fatto di non voler tradire il suo devoto, poichè mi fu sempre guida e mi circondò di custodi, chiamando degli angeli dal Sole e dalla Luna»48.

Giunto a Milano, si ferma in un sobborgo, e non vuole entrare nella Corte imperiale, malgrado le insistenze dei cortigiani che, presaghi della sua prossima fortuna, gli stavano al fianco, e lo costringevano a meglio curare le vesti ed il contegno, così da trasformare lo studente di filosofia in un soldato ed in uomo di corte49. Eusebia, intanto, cercava, con mezzi ripetuti, di infondergli coraggio e confidenza in lei. Egli vorrebbe, invece, persuaderla a rimandarlo da Milano, e le scrive una lettera, anzi una supplica, che finiva così: «Possa tu aver figli, eredi dell'impero, possa dio concederti tutto quanto desideri, ma rimandami a casa più presto che puoi»50. Poi riflette a ciò che sta per fare, teme di compromettersi, inviando a Corte una lettera per la moglie dell'imperatore. Nel silenzio della notte prega gli dei di rivelargli ciò che deve fare, e gli dei gli annunciano che, se manda quella lettera, è un uomo morto. Allora Giuliano fa a sè stesso un ragionamento che a lui pare tanto persuasivo, da riprodurlo intieramente nel manifesto agli Ateniesi. «Io penso di oppormi agli dei, e pretendo di giudicare di ciò che devo fare meglio di coloro che sanno tutto. Eppure, la saggezza umana, applicata alle cose presenti, non riesce che a stento ad evitar gli errori... ma la saggezza divina va all'infinito e, tutto vedendo, insegna la via diretta e agisce pel meglio. Gli dei sono gli autori di ogni cosa ed attuale e futura. È, dunque, naturale che essi conoscano il presente. E tosto mi avvidi che ragionavo meglio di prima. E pensando ai nostri doveri, soggiunsi: Tu ti sdegneresti, se qualcuno degli esseri che tu possiedi ti privasse del suo servizio, o chiamato se ne fuggisse via, fosse anche un cavallo, una pecora, un bue. E tu che sei uomo, e non degli ultimi e dei più vili, vuoi privare di te stesso gli dei e ti rifiuti a ciò per cui essi vogliono usarti? Guarda di non agire stoltamente e di non offendere la giustizia divina. Invece di strisciare e di adulare per timore della morte, gittati nelle mani degli dei; fa ciò che vogliono e lascia loro la cura di te stesso, come faceva anche Socrate. Prendi le cose come vengono; riferisci tutto a loro, nulla acquista o afferra per te stesso, ma ricevi, senza esitanza, ciò che essi ti danno. Io mi convinsi che questo ragionamento, ispiratomi dagli dei, era il più sicuro ed il più conveniente ad un uomo equilibrato, poichè il correre ad un pericolo manifesto, per timore delle future insidie, mi sembrava cosa davvero avventata. Cedetti dunque ed obbedii, e così, in breve, mi si gettò intorno il nome e la clamide di Cesare»51.

Che era avvenuto per porre Giuliano in una tensione d'animo così grande e penosa? Ce lo narra Ammiano Marcellino52. Giuliano, come dicemmo, era stato chiamato a Milano, perchè il complotto di Sirmio e la ribellione di Silvano avevano ridestati i sospetti di Costanzo. Quando Giuliano fu a Milano, ogni timore di congiura era sventato, e Silvano era caduto ed ucciso. Ma le inquietitudini dell'imperatore risorgevano e, questa volta, per ben più gravi ragioni. L'uragano barbarico, che, circa un secolo dopo, doveva rovesciarsi sull'impero, faceva sentire sempre più vicini i suoi fragori minacciosi. I Germani passavano il Reno, devastavano le terre orientali della Gallia, ed apparivano come un pericolo, come una forza che l'impero non era più capace di fronteggiare. Costanzo non era uomo da prendere in mano la somma delle cose e di porsi alla testa dell'esercito. Ma pur sentiva che le circostanze richiedevano uno sforzo supremo e il prestigio della suprema autorità.

Eusebia, la protettrice fervida di Giuliano, sa cogliere l'occasione e consiglia al marito di chiamare il giovane cugino a partecipare al governo dell'impero, nominandolo Cesare, ed investendolo di pieni poteri per l'amministrazione e per la guerra nelle Gallie. I cortigiani tentano di opporsi alla nascente fortuna del giovane Costantiniano, facendo balenare agli occhi di Costanzo i pericoli che possono venire dall'avere al fianco un collega d'impero, e gli ricordano la recente esperienza del cesarato di Gallo. Ma Eusebia insiste e vince ogni resistenza, e Giuliano è dall'imperatore nominato Cesare. Dalle parole che abbiamo riportato di Giuliano stesso parrebbe ch'egli avesse grandi esitanze ad accettare l'altissimo ufficio, perchè in lui rimaneva vivissima la diffidenza verso l'imperatore. Ma, come vedemmo, la fede nella saggezza della provvidenza, che vuol dire la fede in sè stesso, lo risolve a non resistere al suo destino, ed a lasciarsi avvolgere dalla clamide di Cesare.

Questo così radicale mutamento nella fortuna di Giuliano che, da principe perseguitato, passa, d'un colpo, ad essere collega dell'impero, in condizioni estremamente difficili, ispira qualche sospetto sulle intenzioni di Costanzo. Libanio addirittura le dichiara perverse. «Ed onde alcuno non si meravigli — egli scrive — che io chiami nemico di Giuliano chi se lo univa nell'impero, dirò quale fosse la ragione di tale unione. Non è già che colui vedesse con piacere un altro sul trono imperiale, e con le vesti purpuree; chè anzi, nemmeno in sogno, avrebbe sopportato quella vista. E perchè dunque fece un altro partecipe del suo potere? Da ogni parte egli era premuto dai barbari, ma sopratutto verso occidente. Un generale non bastava a rimettere le cose a posto, si sentiva il bisogno di un imperatore che fermasse la corrente. Ora, non volendo l'imperatore accorrere lui, e, d'altra parte, essendo necessario che si prendesse un collega, egli elegge, lasciando in un canto tutti gli altri, colui che aveva tanto offeso, certo, non dimentico di tutto il sangue versato, ma pure più fiducioso di chi poteva accusarlo che di quelli che dovevano essergli grati. Nè si ingannò.... Ma tosto egli sentì un pentimento irragionevole di quanto aveva fatto, e, in conseguenza di ciò, gli pose al fianco, coll'ufficio di consiglieri, non già esortatori, ma intralciatori di ogni bella azione»53. Ammiano che, probabilmente, era testimonio oculare, descrive la cerimonia solenne con cui, in Milano, fu data a Giuliano l'investitura dell'ufficio di Cesare. L'imperatore Costanzo, in presenza dell'esercito, tenne un discorso lusinghiero e incoraggiante per Giuliano. I soldati accolsero, con immenso entusiasmo, il nuovo Cesare, e battevano, in segno di gioia, lo scudo sul ginocchio. Fiammeggiante della porpora imperiale, egli rientrò nella reggia, seduto nel medesimo cocchio dell'imperatore. Ma, durante la via, sussurrava il verso omerico

Mi ha colto la morte purpurea e il destino onnipotente.

Per confermargli sempre più il suo favore, Costanzo gli dava in moglie la sorella Elena. Dopo un mese di festeggiamenti, ai primi di Dicembre del 355, Giuliano partì per la Gallia. Costanzo lo accompagnava fin oltre il Ticino, a mezza strada fra Lomello e Pavia54.

Così narra Ammiano, e da lui non discorda Giuliano stesso nell'elogio dell'imperatrice Eusebia ch'egli scrisse per attestarle la sua riconoscenza, elogio nel quale il nuovo Cesare, come negli altri due discorsi diretti all'imperatore Costanzo, cela, sotto la maschera della devozione, i suoi veri sentimenti. Egli pure narra le pompe solenni e i donativi ricevuti, specialmente da Eusebia. Ed insiste su di un pensiero tanto gentile dell'imperatrice che basta a dimostrarci come, fra lei e Giuliano, dovessero correre relazioni confidenziali ben più strette di quanto appare dai discorsi ufficiali. «Io voglio, egli scrive, rammentare uno dei suoi doni, perchè ne ho avuto un singolare godimento. Siccome essa sapeva che io avevo portati con me pochissimi libri, nella speranza e nel desiderio di ritornarmene a casa il più presto possibile, così me ne diede tanti e di filosofia e di storia e di retorica e di poesia da soddisfare largamente il non mai saziato mio desiderio dei loro colloqui, e da trasformare la Gallia in un Museo di libri greci. Non staccandomi mai da quel dono, non è possibile che mi dimentichi della donatrice. E, quando io parto per una spedizione di guerra, ho meco uno di quei libri come un viatico della marcia»55. Giuliano si esalta nell'esprimere l'ammirazione per la sua protettrice. «Quando io giunsi al suo cospetto, mi parve di vedere, in un tempio, ritta la statua della saggezza. La riverenza empì l'anima mia, ed inchiodò, per qualche tempo, i miei occhi al suolo, finchè essa mi esortò ad aver coraggio. — Le presenti cose, — disse — le hai da noi. Il resto lo avrai da Dio, pur che tu sia fedele e giusto con noi. — E non disse di più, sebbene sappia fare discorsi al pari dei più insigni oratori. Licenziatomi dall'udienza, io rimasi pieno di stupore e di commozione, parendomi di aver udita la voce stessa della saggezza, tanto dolce e mellifluo era alle mie orecchie il suono della sua loquela»56.

Ma, se cordiali e delicati erano i favori di Eusebia pel giovane principe, non pare davvero che fossero tutte sincere le dimostrazioni di fiducia di cui lo circondava l'imperatore. Nel manifesto agli Ateniesi, Giuliano afferma che la sua prigionia, diventando Cesare, si fece più grave, tale e tanto era lo spionaggio con cui lo seguiva, ad ogni passo, il sospettoso Costanzo. «Quale schiavitù — egli esclama — era la mia, quali e quante, per Ercole, le minacce sospese, ogni giorno, sulla mia vita! Vegliate le porte, vegliati i portieri, esaminate le mani dei famigliari, caso mai taluno mi recasse un bigliettino degli amici, servi stranieri. Appena potei condurre meco quattro famigliari, pel mio servizio più intimo, di cui due ancora giovinetti, due già adulti. Di questi, uno che conosceva la mia devozione per gli dei, seguiva con me, in segreto, le pratiche del culto, ed io gli aveva affidata la custodia dei miei libri; l'altro era un medico, il quale, solo dei miei molti amici e compagni fedeli, aveva potuto seguirmi, perchè non si sapeva che mi fosse amico57. Era tanto il mio timore che io credetti di dover proibire, con mio dolore, a molti miei amici, di venirmi a vedere, trepidando di diventar causa di sciagura per loro e per me. Del resto, Costanzo mi mandò con soli 360 soldati, nel paese dei Celti, a mezzo inverno, non tanto per comandare gli eserciti che là si trovavano quanto per obbedire ai loro generali, perchè aveva scritto loro e raccomandato di guardarsi da me più che dai nemici, caso mai io tentassi qualche novità»58.

I difensori che Costanzo ha trovato fra gli storici moderni59 mettono in dubbio la verità delle notizie date da Giuliano stesso. Ora, io voglio ammettere che ci possa essere qualche esagerazione e qualche tinta troppo caricata. Così non sembra giusto il trovare una ragione di lamento nell'esiguità della scorta militare che accompagnava Giuliano. Questi non doveva condurre in Gallia un nuovo esercito, doveva andarvi a prendere il comando degli eserciti che già vi erano. Ora, ciò posto e posto anche che il viaggio di Giuliano si faceva tutto in paese amico e tranquillo, una schiera di 360 uomini bastava all'uopo. Ma, quando Giuliano si lamenta di avere intorno a sè nemici e spie, deve esser nel vero, e gli avvenimenti che seguirono il suo arrivo in Gallia, l'ostilità latente, ma efficace, ch'egli trovò presso i suoi generali dimostrano chiaramente le intenzioni non schiette di Costanzo. Certo, costui aveva paura dei Germani, ma aveva paura anche del cugino imperiale. Avrebbe voluto salvare la Gallia, ma avrebbe voluto, insieme, che Giuliano non uscisse dall'impresa con troppo onore. In fondo, se Giuliano fosse stato sconfitto, così da liberarlo d'un possibile e temuto rivale, la sconfitta sarebbe parsa a lui una sciagura non priva di qualche conforto. E che l'impresa dovesse finire così, c'erano buone ragioni per crederlo. Chi mai poteva imaginare che quel principe di venticinque anni, che aveva passata tutta la sua vita fra sacerdoti e filosofi, che non si era mai occupato di cose militari, che, per la sua completa mancanza di contegno soldatesco, aveva destata l'ilarità e mosso gli scherni della corte di Costanzo, sarebbe stato capace di guidare un esercito? E la spedizione si presentava sotto tristi auspici. A Torino, giungeva a Giuliano la notizia che Colonia era stata presa e distrutta dai Germani, ed egli, comprendendo la gravità del pericolo, esclamava che a lui non rimaneva che di ben morire.

Ma la popolazione della Gallia lo accoglie col più vivo entusiasmo. Egli entra a Vienna, presso Lione, allora la sede del governo della Gallia, fra turbe festanti e rinfrancate dalla presenza di un principe della famiglia regnante. E qui Ammiano ci trasmette un curioso episodio. In mezzo alla folla acclamante, una vecchia cieca chiede chi fosse colui che così si salutava, — Il Cesare Giuliano — le si risponde. — Ecco colui, essa esclama, che restaurerà i templi degli dei! —60. Era una voce che già era corsa, era presentimento, era l'espressione di un desiderio, nutrito da una parte del popolo? Il vero è che, in Giuliano, si sentiva l'eroe che avrebbe agitato il mondo delle cose e il mondo delle idee.

Il governo che Giuliano ha fatto della Gallia per un quinquennio è un episodio glorioso in mezzo alla decadenza dell'impero, ha segnato un momento in cui quella decadenza, di cui era imminente il vorticoso precipitare, è stata, per un attimo, fermata. Giuliano vi è apparso addirittura meraviglioso. La saggezza ed il valore con cui ha saputo condurre le lunghe ed ardue imprese contro i Germani, e rigettarli al di là del Reno, lo rende degno di essere eguagliato ai più grandi capitani dell'antichità. Qui si rivela tutta la genialità di un uomo che era nato con l'attitudine del comando e col talento delle grandi combinazioni militari. Ah, se Giuliano non si fosse esaltato e traviato nelle follie del neoplatonismo, e s'egli avesse avuto più preciso e sicuro il sentimento della realtà, che ammirabile imperatore sarebbe mai stato! Non fu che una meteora brillante, passeggera ed evanescente, quando avrebbe potuto essere uno dei fattori efficaci della storia umana, un vero e grande reggitore di popoli! Ma, dal punto di vista psicologico e drammatico, è appunto questa strana unione di un idealista esaltato, pieno il capo di ubbie mistiche e di idee fisse, e di un capitano geniale, di un soldato eroico, di un amministratore provetto che costituisce l'interesse della figura di Giuliano. C'è del Marco Aurelio in lui. Ma un Marco Aurelio eccessivo, squilibrato, intemperante. La genialità in Giuliano è assai più viva, in Marco Aurelio è più profondo il sentimento. L'imaginazione, che in Marco Aurelio era fredda e frenata, ed in Giuliano ardente e mobile, ha giocato a quest'ultimo un brutto tiro, facendogli credere vive ancora idee e cose, morte per sempre. E, siccome Giuliano, all'opposto di Marco Aurelio, sentiva assai più la forma che la sostanza delle cose, egli è corso dietro ai fantasmi della sua mente, sciupando miseramente la sua meravigliosa fortuna e le doti stupende che la natura gli aveva largite.

Ed ora diamo una rapida occhiata a ciò ch'egli fece in Gallia, prima di toccare il punto che più ci attrae nella sua vita, la tentata restaurazione del Paganesimo. Non potremmo formarci un concetto preciso ed un'imagine vivente dell'uomo, se non guardassimo, per un istante, al guerriero ed al duce che, uscendo dai santuari neoplatonici di Nicomedia e d'Efeso e dalla scuola d'Atene, prese in mano le redini di un'aspra guerra, ed ha condotto le sue schiere da vittoria in vittoria. Il misurato Ammiano Marcellino, che esprime l'impressione dei suoi contemporanei e che fu testimonio oculare delle gesta di Giuliano, si abbandona all'iperbole ed alla retorica, quando parla del giovane principe, e vede in lui un miracolo voluto da una legge divina. «In un batter d'occhio — egli dice — Giuliano tanto splendette da esser giudicato, per la prudenza, un nuovo Tito, eguale a Traiano pei successi guerreschi, clemente come Antonino, e, nelle indagini astruse della mente, paragonabile a Marco Aurelio, ad emulare il quale egli intendeva i suoi atti ed i suoi costumi». Ed Ammiano ben a ragione stupisce quando ricorda che quel giovane «dalle tranquille ombrie delle accademie, non già dalla tenda militare, tratto fuori fra la polvere di Marte, atterrava la Germania e, pacificate le regioni del gelido Reno, uccideva e incatenava i re barbari anelanti alla strage»61.

Giuliano passò l'inverno del 356 ad orientarsi nella sua nuova posizione, ad acquistare le necessarie nozioni di amministrazione e di pratica militare. Egli non sdegnava di addestrarsi nei più umili esercizi, ripetendo, di quando in quando, come consolazione ed incoraggiamento, il nome di Platone. Egli dava un mirabile e nuovo esempio di temperanza e di operosità. Sistematico ordinatore del suo tempo, e ciò spiega la mole immensa di lavoro da lui compiuto, si alzava, di notte, dal rozzo giaciglio su cui riposava, e divideva in due parti le ore che lo separavano dal mattino. Prima di tutto, segretamente innalzava una prece a Mercurio, eccitatore del pensiero, poi curava gli affari di Stato, il governo della provincia, i preparativi di difesa e di offesa. Esauriti gli affari, Giuliano si sprofondava nei suoi studi prediletti di filosofia, che, a nessun prezzo, voleva dimenticare, poichè per lui costituivano l'oggetto più interessante della vita. Ed, insieme alla filosofia, si occupava di poesia, di storia e si esercitava nella lingua latina. Giuliano era nutrito di poesia. Coi grandi antichi, Bacchilide era il suo autore favorito. E, pur troppo, alle scuole elleniche del tempo, s'era anche imbevuto di quella retorica formale e pedantesca che era la nota caratteristica della letteratura del tempo62.

Nell'estate del 356, Giuliano apre la sua prima campagna. Udendo che Autun era minacciata dagli invasori, vi accorre, la libera, poi con marcia fulminea, raggiunge la valle del Reno, la percorre da Strasburgo a Colonia, dove entra trionfatore, e dove stringe la pace coi re dei Franchi, atterriti da sì subitaneo e fortunato attacco63. In questa prima campagna parrebbe che Giuliano operasse d'accordo con un altro corpo d'armata, il quale, guidato dall'imperatore stesso, sarebbe disceso dalla Rezia e dall'alto Reno verso l'Alsazia. Ciò si dovrebbe dedurre da una notizia che Ammiano ci dà in modo affatto incidentale64. È strano che di questa mossa dell'imperatore nè Ammiano nè Giuliano parlino nell'esposizione delle gesta compiute durante l'estate del 356. In ogni modo, la mossa dell'imperatore, se anche avvenuta, non ebbe conseguenze importanti, e Giuliano, all'aprirsi dell'anno seguente, si trovò sulle braccia, in tutta la sua grandezza, l'impresa di liberare la Gallia dalle invasioni germaniche.

Giuliano va a prendere i quartieri d'inverno a Sens, dove, come dice Ammiano, portando sulle sue spalle la mole delle guerre che d'ogni parte dilagavano, si divide in molteplici cure per fronteggiare l'offesa, e per assicurare il vitto ai suoi soldati. Qui egli corre un ben grave pericolo, perchè i barbari, conoscendo la scarsità delle sue forze, lo assediano strettamente. Avrebbe potuto essere aiutato da Marcello, un luogotenente, che, con la cavalleria, trovavasi poco discosto. Ma Marcello era uno di quei generali che avevano avuto da Costanzo l'incarico non di soccorrere, bensì di sorvegliare Giuliano. Obbediente alla consegna, lo lasciò solo alle prese con le difficoltà della situazione. Ma la fiera resistenza di Giuliano scoraggia gli assedianti che, dopo un mese, si ritirano vergognosi e tristi pel loro completo insuccesso. Giuliano depone dal comando l'indegno Marcello, e costui corre a Milano ad accusarlo, confidando nella disposizione di Costanzo, il cui orecchio era sempre aperto alle accuse dei delatori. Ma Giuliano lo seppe prevenire, mandando a Milano il suo fidato Euterio, il quale prese con tanta efficacia le sue difese davanti all'imperatore, che, almeno per questa volta, le calunnie dei cortigiani e dei delatori rimasero inascoltate. Ed, anzi, a Giuliano venne affidato, senza restrizione e senza imposizioni d'altri generali, il comando supremo dell'esercito65. Se non che la campagna del 357 minacciò di condurre ad un disastro, per la slealtà di un altro luogotenente, Barbazio, che si lasciò sconfiggere dai Germani, per accorrere lui pure ad accusare Giuliano66. Ma le sue arti vennero a smarrirsi davanti alla grande battaglia che Giuliano guadagnava, presso Strasburgo, sulla coalizione dei principali re delle tribù germaniche, condotta dal più potente di essi, il re Conodomario.

Ammiano e Libanio sono concordi nel giudizio sulla condotta di Barbazio, debole ed insieme ispirato dall'odio contro Giuliano. Ma, nel racconto dei fatti, il retore e lo storico molte volte dissentono, perchè evidentemente attingono a fonti diverse, e, per verità, la fonte di Libanio pare, questa volta, preferibile a quella di Ammiano. Ammiano narra67 che Barbazio, piuttosto che prestare a Giuliano alcune delle navi da lui preparate per costrurre i ponti sul Reno, le abbrucciò tutte. Libanio, invece, ci dice che Barbazio, volendo agire indipendentemente da Giuliano, aveva costrutto un ponte di barche, onde invadere le terre dei Germani. Ma i barbari, anticipando di quindici secoli la trovata degli Austriaci alla battaglia di Essling, gittarono nella corrente del fiume, a monte del ponte, grandi ammassi di legnami, che, venendo ad urtare contro le barche, le sconquassarono, le affondarono, e le distrussero. Barbazio, che non era un Napoleone, fuggì spaventato coi suoi 30,000 uomini, inseguito dai barbari68.

La ritirata di Barbazio aveva sollevati gli animi dei Germani, e fattili sicuri di una completa vittoria sull'esercito di Giuliano. Da un disertore eran venuti a sapere che il Cesare non poteva opporre alla coalizione dei sette re barbari che 13,000 uomini69. Pertanto Conodomario, che guidava l'armata barbarica, risolvette di dare un gran colpo e di stabilirsi sulla sinistra del Reno, impadronendosi, con la distruzione del piccolo esercito romano, di tutta la Gallia orientale. Ma le speranze di Conodomario, pur giustificate dalla difficile condizione in cui la defezione di Barbazio aveva lasciato Giuliano, furono mirabilmente sventate dal geniale eroismo del Cesare. Bisogna leggere in Ammiano la lunga descrizione di questa battaglia, per ammirare la genialità soldatesca, la presenza di spirito, l'eroismo del giovane condottiero. L'esercito romano non era che la metà dell'esercito barbarico. Conodomario, «il nefando incendiatore della guerra — dice Ammiano — portante sul capo un elmo fiammante, guidava l'ala sinistra, audace e fidente nella gran forza delle sue membra, sublime sul cavallo spumeggiante, brandendo un giavellotto di spaventosa grandezza, cospicuo pel luccicare dell'armatura»70. I barbari avevano la certezza della vittoria. Tentare la battaglia era, da parte dei Romani, prova di singolare audacia. Ma Giuliano, questo filosofo, questo teologo, questo mistico e fantastico pensatore era, per un miracolo che non so quando mai siasi altre volte verificato, un uomo d'azione di strana potenza. Sul campo di battaglia, insieme alla prontezza del colpo d'occhio, aveva, in sommo grado, la facoltà di infondere nei soldati la fiducia, l'ardore della pugna, l'entusiasmo e la gioia del pericolo. Queste doti che rifulgono di singolar luce nella campagna di Gallia, ricomparvero non meno brillanti nella guerra contro i Persiani e sono uno dei lineamenti principali del carattere di Giuliano. Così avvenne che la battaglia di Strasburgo, voluta da lui e condotta con la più abile audacia, finì con una spettacolosa vittoria. L'esercito barbarico fu in parte ucciso nel combattimento, in parte gittato nel Reno. Il terribile re Conodomario, che tentava di fuggire e di nascondersi, fu fatto prigioniero, e, mandato da Giuliano a Costanzo, fu rinchiuso, a Roma, in un carcere sul Monte Celio, dove moriva71.

Di questa vittoria memorabile Costanzo ebbe più dispetto che piacere. Alla corte di Milano si chiamava Giuliano, per ischerno, Vittorino. I cortigiani finsero di dare tutto il merito alle sapienti disposizioni dell'imperatore, e costui si prestò alla stolta adulazione, per modo da lasciare, negli atti imperiali, una relazione della battaglia di Strasburgo, nella quale egli figurava come il tattico glorioso della giornata, dimenticandovi affatto il nome e le gesta di Giuliano «che, dice Ammiano, egli avrebbe profondamente nascosto, se la fama non sapesse tacere le cose gloriose, sian pur molti coloro che le vogliono oscurare — ni fama res maximas vel obumbrantibus plurimis silere nesciret»72.

Giuliano, per raccogliere i frutti della sua vittoria, passa il Reno, e si spinge nel cuore della Germania, cacciando davanti a sè i barbari atterriti da tanta audacia. E, finalmente, ricostrutto e munito un castello, innalzato da Traiano e poi abbandonato, e stabilita una tregua di dieci mesi con quegli stessi re che avevano combattuto a Strasburgo, ritorna nella Gallia e va a svernare a Parigi. In tutta questa campagna fu così meraviglioso il valore di Giuliano che, dice Ammiano, quasi si può credere a coloro i quali pretendevano che egli cercasse la morte, perchè preferiva cadere combattendo piuttosto che condannato, come il fratello Gallo. Ma una tale spiegazione non vale, continua Ammiano, perchè Giuliano, diventato imperatore, si illustrava con atti che non furono meno meravigliosi ed eroici73.

Nei quartieri invernali di Parigi, nella breve sosta che gli è concessa dalla guerra, a che pensa Giuliano? A rivedere i conti finanziari della Gallia, a discutere con Florenzio, il prefetto del pretorio, come sarebbe a dire il ministro delle finanze, per dimostrargli che la Gallia non può tollerare nessun aumento di imposte, e che, del resto, non ve n'era bisogno, perchè il bilancio bastava a tutte le spese necessarie. Il ministro rivolge i suoi reclami all'imperatore e questi esorta Giuliano ad aver fiducia in Florenzio. Ma Giuliano è irremovibile; non vuole neppur leggere lo scritto contenente le proposte di Florenzio, ed, in un momento di sdegno, lo scaglia a terra. Così, per la sua fermezza, la Gallia è salvata dalla rovina74. A ragione i popoli della Gallia eguagliavano l'amministrazione di Giuliano ad un sole sereno che risplendeva dopo squallide tenebre.

Il dissenso fra Giuliano e Florenzio, che fu certo una delle cause principali della sfiducia e dei rinascenti sospetti di Costanzo, aveva la sua origine in una ragione più personale di quella che fosse la pubblica amministrazione. Florenzio, seguendo le abitudini del tempo e del governo imperiale, rubava. L'intemerato Giuliano non poteva tollerare la cosa; da qui il proposito, in Florenzio e nei suoi colleghi, di liberarsi dell'incomodo principe. Un episodio, narrato da Libanio, illustra la situazione. «Avvenne — narra maliziosamente Libanio — che un cittadino accusasse di furto un magistrato. Florenzio, come prefetto, faceva da giudice, e, pratico com'era del rubare, ed essendo già stato comperato, espresse il suo sdegno contro l'accusatore, sentendosi compromesso col suo compagno d'arte. Ma, siccome l'ingiustizia era palese, e se ne parlava in pubblico, e ne prurivano le orecchie dell'autore, egli chiamò giudice il principe stesso. Questi, sulle prime, si rifiutò, dicendo che non era cosa di sua competenza. Ma Florenzio insistette, non già perchè volesse una sentenza giusta, ma perchè credeva che Giuliano l'avrebbe pronunciata d'accordo con lui, anche se si trattasse di un'ingiustizia. Ma, quando vide che la verità gli stava più a cuore dei riguardi per lui, ne ebbe gran dispiacere, e calunniando, con lettere, quel personaggio che aveva la massima fiducia di Giuliano75, lo fece espellere dalla reggia, come se traviasse il giovane principe al quale, invece, faceva da padre»76.

Noi dobbiamo tener conto di questi fatti singolari che ci rappresentano Giuliano come uno degli uomini più illuminati, più coscienziosi, più giusti che abbia avuto l'antichità. Da questi fatti noi dovremo poi trarre le naturali conseguenze, quando vorremo giudicare, nella sua reale consistenza, l'azione per cui egli è stato come infamato davanti alla posterità, voglio dire il tentativo di restaurazione del Paganesimo.

Le due campagne susseguenti del 358 e del 359 furono, per Giuliano, una serie di successi, pei quali l'audace e fortunato generale, non pago di liberare la Gallia, penetrava nel cuore della Germania, e sottometteva, ad una ad una, le più bellicose tribù. La slealtà dei nemici, che non tenevano i patti, se non atterriti dai castighi, e la difficoltà degli approvvigionamenti, la cui mancanza una volta rivoltava a Giuliano i suoi fidi soldati77, gli creavano, ad ogni passo, ostacoli ed impacci da scoraggiare ed abbattere qualsiasi abile condottiero. Ma egli non perdeva mai la presenza di spirito, la sicurezza del colpo d'occhio, l'opportunità dell'audacia, e così riesciva a portare la pace, l'ordine, la prosperità in regioni, ormai da lunghi anni sconvolte e che vivevano sotto la minaccia perpetua di invasioni disastrose. È bello udire con che legittima alterezza, ma, insieme, con quanta dignità, Giuliano parla dei suoi successi militari. «Nei due anni seguenti (la battaglia di Strasburgo) — egli scrive agli Ateniesi — i barbari furono del tutto espulsi dalla Gallia, moltissime città furono risollevate, e navi, in quantità, giunsero dalla Brettagna. Io riunii una flotta di seicento navi, di cui quattrocento da me costrutte in meno di dieci mesi, e con esse risalii il Reno, impresa non lieve, a cagione dei barbari che abitavano le sponde. Florenzio, anzi, credeva la cosa tanto impossibile ch'egli prometteva a quei barbari una mercede di due mila libbre d'argento, pur di aver libero il passo. Costanzo, avendo avuta notizia dell'offerta, mi scrive di darvi esecuzione, a meno che a me paresse troppo vergognosa. E come non lo sarebbe stata, se tale pareva anche a Costanzo, pur avvezzo a patteggiare coi barbari? Ma io non diedi nulla, e marciando contro di essi, con la difesa e l'assistenza degli dei, occupai il paese dei Salii, e scacciai i Camavi, avendo predati molti buoi e donne e fanciulli78. Così li atterrii tanto coi preparativi delle mie invasioni, che tosto mi mandano ostaggi, e assicurano il libero passaggio dei viveri. Sarebbe troppo lungo l'enumerare, e lo scrivere, ad una ad una, tutte le cose che io feci in quattro anni. Le riassumo. Tre volte passai il Reno: ricuperai dai barbari venti mila nostri prigionieri che si trovavano oltre il Reno; in due battaglie ed in un assedio presi migliaia di uomini, nel fiore dell'età; mandai a Costanzo quattro schiere di fortissima fanteria, tre un po' più deboli, due coorti di cavalieri valorosissimi; ora, per la grazia degli dei, io posseggo tutte le città, avendone riprese poco meno di quaranta»79.

Or siamo giunti al momento fatale della vita di Giuliano. Sta per maturare l'evento che deve portarlo al vertice della potenza. Mentre il Cesare, nella Gallia e nella Germania, correva di vittoria in vittoria, Costanzo, in Oriente, si dibatteva fra le più gravi ed ingloriose difficoltà, in conseguenza della guerra che, da tanti anni, ferveva contro i Persiani e che minacciava di diventar un disastro per l'impero. L'animo meschino e perverso di Costanzo s'ingelosiva del cugino. Temendo che la continuazione dei suoi trionfi potesse sollevarlo ad aspirazioni d'impero, Costanzo, istigato da Florenzio, a quel che narra Ammiano80, pensa di troncargli le ali. A tale intento, manda a Parigi il tribuno Decenzio, coll'ordine a Giuliano di spedirgli, in Oriente, la parte migliore delle sue truppe, le legioni degli Eruli, dei Batavi, dei Petulanti e dei Celti, raccomandando di non frapporre indugi, così che quei soldati possano giungere in tempo di prender parte alla campagna della prossima primavera contro i Parti alleati dei Persiani. Il generale Lupicino doveva condurre quelle truppe. Giuliano prevede che l'ordine dell'imperatore non può eseguirsi senza contrasto e senza pericoli. Quei soldati barbari avevano preso volontario servizio, a condizione di non abbandonare i loro paesi. Era certo che si sarebbero rifiutati a lasciarsi portare nel lontanissimo Oriente, a morire lungi dalle loro famiglie. Lupicino, intanto, era assente, mandato, molto prima, da Giuliano, in Inghilterra, e Florenzio, prevedendo il temporale, si era ritirato a Vienna, e indugiava ad accorrere alla chiamata di Giuliano. Questi si trovava senza consiglieri, solo ad assumere la responsabilità, pressato da Decenzio, che sentiva il pericolo dell'indugio. Infatti, nelle legioni, correva un libello anonimo in cui fra le altre cose si diceva: « — Noi, come colpevoli e condannati, siamo cacciati agli estremi confini della terra, e le nostre famiglie, che, dopo tante sanguinose battaglie, liberammo dalla prigionia, saranno serve per sempre ai Germani»81. Letto questo libello, Giuliano, onde togliere ciò che pareva fosse pei soldati il maggior sacrifizio, dispone che le famiglie possano seguirli e fornisce i mezzi di trasporto. Decenzio insiste affinchè, dai luoghi circostanti, in cui erano alloggiate, le legioni siano concentrate a Parigi, donde prendere le mosse. Così si fa, e, raccolte le truppe nei sobborghi di Parigi, Giuliano le visita, le esorta, parla ad uno ad uno a quei soldati che personalmente conosce, e cerca di animarli con la previsione della liberalità dell'imperatore e dei premi che li aspettano. Poi raccoglie i capi ad un solenne banchetto, da cui questi si ritirano tristi e commossi, perchè la fortuna inclemente li privava, insieme, di sì giusto condottiero e della loro terra natia82.

Tutto pareva ormai tranquillo, ed ogni pericolo di resistenza sventato, quando, nel cuore della notte, le legioni prendono le armi ed, accorrendo al palazzo, lo circondano in modo che nessuno possa fuggire. Con grida immense, proclamano Giuliano Augusto, cioè, Imperatore, e, al primo albeggiare, lo costringono a presentarsi e raddoppiano, alla sua vista, il festoso clamore. Invano Giuliano tenta di calmarli, promettendo loro che non avrebbero passate le Alpi, ed assicurandoli del perdono di Costanzo. I soldati s'infuriano di più, e, alzatolo sugli scudi, vogliono che si ponga in capo il diadema imperiale. Egli non ne ha. Ebbene, s'incoroni con una collana di sua moglie. Ma un ornamento femminile non conviene come emblema d'impero. Si prenda il pettorale dorato di un cavallo. Peggio ancora. E, allora, un vessillifero dei Petulanti, strappandosi una collana che portava come segno del suo grado, ne circonda il capo di Giuliano. Questi, che non ha potuto resistere alla pressione dei soldati, si ritira incerto, stupefatto, esitante nella reggia. Ma ecco che, il giorno seguente, fra i soldati, si diffonde la voce che Giuliano è stato segretamente trucidato. E tosto riprendono le armi e furiosi corrono alla reggia, e non si acquetano finchè il nuovo imperatore non viene al loro cospetto, rifulgente delle insegne del potere. Da quel momento, Giuliano assume apertamente la sua posizione, parla ai soldati come imperatore, loro ricorda le imprese insieme compiute, dichiara di confidare intieramente nella loro lealtà, e promette ricompense e promozioni. Egli spera ancora di evitare la guerra civile e di trovare un accordo con Costanzo, ma è risoluto a non indietreggiare, e si dice sicuro di sè stesso e della sua sorte. Anzi, ai più intimi racconta che, nella notte antecedente alla sua proclamazione, gli era apparso il genio dell'impero, e gli aveva detto: «Più di una volta, o Giuliano, io occupai il vestibolo del tuo palazzo, nell'intento di accrescere la tua dignità, ma sempre mi ritirai quasi respinto. Se anche ora non mi accogli, malgrado il parere concorde di tanti, io me ne partirò mortificato e mesto. Ma, tientelo bene in mente, io teco non sarò mai più!»83.

Di questi avvenimenti interessanti noi abbiamo il racconto, scritto da Giuliano stesso. Nel manifesto, da lui mandato al Senato ed al popolo d'Atene, nel momento in cui, rotto ogni indugio, egli moveva contro Costanzo, il nuovo imperatore narra come sia avvenuta la sua proclamazione. Quel racconto, che ci fa rivivere nella realtà, è, nelle sue linee principali, in completo accordo con quello che ci lasciava Ammiano. Dice Giuliano come egli fosse circondato da spie e da calunniatori, di cui nomina i principali, Pentadio, Paolo, Gaudenzio, Luciniano. A costoro si aggiunge anche Florenzio, in causa dei disaccordi finanziari di cui già trovammo notizia in Ammiano ed in Libanio. Costoro, primieramente, ottengono da Costanzo che sia allontanato il più fidato amico di Giuliano, Sallustio, che conosceva tutti i segreti di lui, e poi istigano l'imperatore a portargli via l'esercito. «Costanzo, forse solleticato dall'invidia delle mie imprese, mi scrive una lettera piena di offese per me, e di minacce pei Celti. E comanda che, senza distinzione, quasi tutte le truppe migliori, siano condotte via dalla Gallia, e affida l'esecuzione dell'ordine a Lupicino ed a Gentonio, e mi ammonisce di guardarmi bene dall'oppormi ad essi. Ma come dirvi ora ciò che gli dei hanno fatto per me? Io aveva in animo — gli dei stessi mi sian testimoni — di gittar via tutti gli splendori e le cure del regno, e di vivere in riposo, lontano dagli affari. Ma aspettava che giungessero Florenzio e Lupicino, il primo dei quali era a Vienna, l'altro in Brettagna. Intanto, cominciava una grande agitazione nei cittadini e nei soldati, e, in una città vicina, si spargeva, nelle legioni dei Petulanti e dei Celti, un libello anonimo, in cui si diceva assai male dell'imperatore; si lamentava l'abbandono della Gallia; e lo scrittore deplorava, insieme, le offese che mi erano fatte. Quel libello produsse in tutti una viva impressione, e i partigiani di Costanzo insistettero, presso di me, con tutte le loro forze, onde facessi partire i soldati, prima che simili scritti si spargessero nelle altre legioni. Non aveva intorno a me nessuno che mi fosse benevolo, ma solo Nebridio, Pentadio, e Decenzio che era venuto a comunicarmi gli ordini di Costanzo. Diceva io che conveniva aspettare Lupicino e Florenzio, ma essi non approvano e affermano che bisogna agire subito, se non voglio agli antichi sospetti aggiungere, come dimostrazione, questo nuovo esempio. E continuavano: — Se tu ora spedisci i soldati, il merito sarà tuo. Venuti quei due, Costanzo non darà il merito a te, ma a loro, e tu sarai accusato... — Si aprivano a me due strade. Io voleva andare per l'una, essi mi costringono a prendere l'altra, nel timore che quanto era avvenuto potesse essere pei soldati un principio di rivolta, e diventare causa di un completo disordine. E, per verità, quel timore non era del tutto irragionevole. Infatti, vennero le legioni, ed io, secondo i presi accordi, andai incontro, e loro annunciai l'imminente partenza. Passò un giorno, durante il quale io nulla conobbi delle loro risoluzioni. Lo sanno Giove, il Sole, Marte, Minerva e tutti gli dei, che, fino alla sera, non mi venne neppur l'ombra di un sospetto. Non fu che tardi, dopo il tramonto, che mi giunse qualche notizia, ed ecco, d'un tratto, la reggia, è circondata, e tutti gridano, mentre io penso a ciò che si dovesse fare, e non credo a me stesso. Io mi trovava solo in una camera vicina a quella di mia moglie, allora ancor vivente. Di là, guardando il cielo, da un'apertura nella parete, mi prosternai a Giove. Diventando sempre più forte il rumore, e gridando tutti, giù nelle sale della reggia, io supplicai il dio di darmi un segno, ed egli me lo diede, e mi rivelò che doveva cedere e non oppormi alla volontà dell'esercito. Malgrado questo segno, io non fui pronto ad arrendermi, ma resistetti finchè mi fu possibile, e non accettai nè il titolo nè la corona. Se non che, mentre a me non riusciva di acquietare nessuno, gli dei, i quali volevano che tutto ciò avvenisse, eccitavano i soldati sempre di più, e ammollivano, invece, la mia risoluzione, così che, verso l'ora terza, non so qual soldato, strappandosi una collana, me ne circondò il capo, ed io entrai nella reggia, sospirando, come lo sanno gli dei, dal profondo del cuore. Io ben sapeva che doveva affidarmi al segnale divino, ma mi doleva assai il parere di non serbarmi, sino alla fine, fedele a Costanzo.

«V'era, intorno alla reggia, molto turbamento. Gli amici di Costanzo, pensando di cogliere una buona occasione, mi tendono un'insidia, e distribuiscono del danaro ai soldati, nell'aspettazione di una di queste due cose, o di vederli dividersi gli uni dagli altri, o gittarsi tutti quanti apertamente contro di me. Essendosi accorto di questo segreto maneggio uno degli ufficiali di servizio di mia moglie, me ne dà tosto notizia, e, quando vede che io punto non me ne incarico, infuriato come un epilettico, si pone a gridare sulla piazza: — Soldati, stranieri, cittadini, non tradite l'imperatore! — Ed ecco che i soldati si esaltano, e tutti, con le armi, corrono alla reggia. Vedendomi vivo, lieti come chi, contro ogni speranza, ritrova un amico, mi circondano, mi abbracciano, mi portano sulle spalle, ed era cosa degna di vedersi, tanto parevano pieni di entusiasmo. Quando mi ebbero in mezzo, mi chiesero di consegnar loro gli amici di Costanzo, onde punirli. Quale lotta io dovetti sostenere per salvarli, lo sanno gli dei!»84.

Era proprio completamente sincero Giuliano in queste sue dichiarazioni di innocenza, in queste sue affermazioni di sorpresa e di meraviglia? Si può dubitarne, senza fargli gran torto. La condotta di Costanzo verso di lui era tale da non lasciargli alcun dubbio sulla sorte finale che lo aspettava. Se avesse fatto partire i suoi soldati, egli era un uomo perduto. A lui non restava altra difesa che la ribellione agli ordini ricevuti. Onde salvarsi, doveva dimostrare a Costanzo di avere a sua disposizione una forza maggiore della sua. Che, in tutte quelle esitazioni, in quelle suppliche agli dei, in quelle ripetute proteste, ci sia un po' di commedia, è naturale il supporlo. Ammiano ci racconta, e Giuliano ci conferma con gran calore, che gli dei gli avevano chiaramente manifestato il loro volere con un miracolo. Ma questi miracoli così opportuni non si verificano se non per coloro che li aspettano, onde sanzionare ciò che già hanno risoluto di fare. I soldati adoravano questo mistico filosofo al quale i gravi studi non impedivano di essere sempre il primo nei pericoli e negli stenti, e che li aveva condotti di vittoria in vittoria. Già, sul campo di battaglia di Strasburgo, avevan voluto proclamarlo imperatore85. Allora recisamente rifiutava perchè le circostanze non erano tali da costringerlo all'alternativa di ribellarsi o di perire. Ma i suoi continui successi, in guerra ed in pace, anzichè attenuare, avevano inviperiti i sospetti e la gelosia di Costanzo, così che, per salvarsi, l'eroico Cesare si trovò trascinato ad incoraggiare, se non a provocare, quella proclamazione ad Augusto, a cui, due anni prima, si era risolutamente opposto.

Che Giuliano nutrisse il presentimento ed il desiderio del suo alto destino, e che, pertanto, non sia stato del tutto estraneo al movimento soldatesco che lo ha portato al trono, si vede anche dalla lettera, diretta al fidato suo medico Oribasio, datata dagli ultimi tempi del suo cesarato86. Il sogno che vi è narrato è troppo chiaro per non essere l'espressione di un pensiero che già covava nella mente del sognatore. «Il divino Omero dice che due sono le porte dei sogni, e che, quindi, diversa è la fede che meritano le loro predizioni. Ma io credo, che tu, questa volta più che altra mai, hai veduto bene nel futuro. Poichè io stesso oggi ho avuto una visione simile alla tua. Mi pareva di vedere un alto albero, piantato in una vastissima sala, piegarsi a terra, e, dalle sue radici, sorgere un altro piccino, tutto a fiori. Io era in gran pena pel piccino, temendo che lo si recidesse col grande. Mentre mi avvicino, ecco il grande albero è disteso al suolo, ma il piccino è ritto e guarda il cielo. A tale vista, ansioso esclamai: — Quell'albero è caduto! E c'è pericolo che neppure il rampollo possa salvarsi! — Allora, uno, che mi era del tutto sconosciuto, disse: — Guarda bene, e fatti coraggio. La radice è rimasta nella terra, e il piccino è salvo e si consoliderà sicuramente».

Che questo medico Oribasio abbia avuto una parte importante nei maneggi che precedettero l'elezione di Giuliano, e che egli abbia adoperata la sua influenza ad accendere nel principe l'aspirazione alla dignità imperiale, non è improbabile, ed è affermato esplicitamente da Eunapio nella vita di Oribasio stesso87. Parrebbe, anzi, che Oribasio, nelle memorie da lui lasciate, si vantasse della parte avuta nell'avventura, aumentando la responsabilità dell'iniziativa in Giuliano, più di quello che ammettono Giuliano stesso ed Ammiano, pei quali la ribellione non sarebbe stata che un atto di necessaria difesa. Un fatto curioso e che può essere sintomatico è che Giuliano, a quel che narra Eunapio88, fece venire dalla Grecia in Gallia il gran sacerdote dei Misteri, l'ierofante, come si chiamava, e non si risolvette alla ribellione se non dopo aver compiuto con lui, nel massimo segreto, i riti sacri. Oribasio e il fido Evemero erano soli nella confidenza. Conoscendo l'animo superstizioso di Giuliano, reso ancor più superstizioso dagli insegnamenti avuti da Massimo, ben si comprende come egli volesse consultare gli dei, prima di risolversi, e come, quindi, gli riuscisse preziosa l'opera dell'ierofante. Ma la circostanza d'averlo fatto venire dalla Grecia a Parigi non può a meno di far nascere il sospetto della premeditazione. In ogni modo, son troppo scarsi i dati per poter innalzare con essi un edificio sicuro. Il meglio per noi è di attenerci alle narrazioni così precise e vivaci che troviamo nel Manifesto agli Ateniesi e nella storia dell'onesto ed imparziale Ammiano.

Quei moderni difensori di Costanzo, di cui già parlammo, e primo fra questi il Koch, in quel suo studio che è scritto con critica acuta e con grande erudizione, voglion vedere, nella rivolta di Parigi, una commedia di Giuliano, il quale vi avrebbe trovato il pretesto per ribellarsi apertamente all'imperatore. Se non che, pur non badando a quell'accento di verità che risuona nella parola di Giuliano, l'analisi, dirò così, psicologica degli uomini e della situazione persuade ogni osservatore spregiudicato, e che non sia ispirato dal demone dell'ipercritica, che il torto, in questo storico dissidio fra i due cugini, è intieramente dalla parte di Costanzo. Prima di tutto ricordiamo come sia impossibile togliere a quest'ultimo la responsabilità di quello spaventoso delitto che fu la strage della famiglia costantiniana, da lui voluta o tollerata alla morte del padre Costantino, quel delitto per cui Giuliano poteva pubblicamente chiamarlo «l'assassino del padre mio, dei fratelli, dei cugini, potrei dire il carnefice di tutta la nostra comune famiglia e parentela»89. Contro un uomo siffatto sono giustificate le più nere prevenzioni. Sospettoso di tutto e di tutti, Costanzo era sempre pronto ad aprire l'orecchio ai calunniatori. Primo, fra questi, quell'eunuco Eusebio, che gli stava al fianco, come ispiratore d'ogni suo atto, che lo spingeva sempre più avanti nella crudeltà, a cui naturalmente tendeva, e che fu il suo cattivo genio90. Costui lo aizzava contro Giuliano, in cui vedeva un temibile successore all'impero. Provava per lui quell'odio che le anime basse hanno naturalmente per gli uomini generosi e forti. Eusebio rappresentava la corruzione e il vizio regnanti nella Corte; Giuliano l'onesta semplicità e la rettitudine dello studioso, vissuto, lungi dagli intrighi, nell'ambiente puro di aspirazioni ideali. Eusebio doveva guardare l'avvicinarsi di Giuliano come il principio della sua rovina. Egli, pertanto, non cessava dal versar veleno nell'animo del credulo e perverso Costanzo. Se non fosse stata la salutare azione dell'imperatrice, Giuliano non sarebbe scampato ai sospetti del cugino. Certo, quei sospetti tacquero, per un istante, sotto la minaccia crescente delle invasioni germaniche, e Costanzo si lasciò persuadere dalla moglie a mandare il cugino in Gallia. E vogliamo anche ammettere che, sulle prime, fosse in buona fede, poichè, dopo tutto, ciò che più importava pel momento era di metter freno all'irrompere dei nemici. Ma i sospetti dovevano riaccendersi pei successi ottenuti da Giuliano e per la gloria che a lui ne veniva. E ripresero forza le influenze malvage che attorniavano l'imperatore, influenze che, scomparsa per morte la bella Eusebia, non avevano più ritegno. A me non par dubbio che l'ordine improvviso e sconsigliato con cui Costanzo, d'un tratto, chiamava in Oriente la parte migliore dell'esercito di Gallia fosse ispirato dal desiderio di mandar Giuliano a perdizione. Certo, la posizione di Costanzo, in Oriente, dopo la caduta d'Amida era scabrosa91, e la Mesopotamia correva pericolo di essere interamente invasa dai Persiani. Ma non erano i soldati che mancavano a Costanzo, mancava una saggia direzione della guerra, direzione resa impossibile dalle insinuazioni calunniatrici degli eunuchi che circondavano l'imperatore, dei quali Ammiano ci fa una così curiosa pittura92. In ogni modo, se Giuliano era riuscito, col suo valore, a rigettare i Germani al di là del Reno ed a ridare la pace alla Gallia, la sua posizione rimaneva pur sempre pericolosa, e non era dubbio che, lasciata la Gallia non sufficientemente difesa, le invasioni sarebbero ricominciate93. Costanzo, lasciando il Cesare indebolito davanti al pericolo risorgente, voleva ch'egli pure avesse la sua parte della vergogna di cui la caduta di Amida lo aveva coperto in Oriente.

Ma la considerazione più forte è che Giuliano, se non fosse stata evidente l'intenzione ostile dell'imperatore contro di lui, non si sarebbe ribellato, perchè non avrebbe avuto nessun interesse a farlo. In posizione eminente, unico rampollo della famiglia di Costantino, giovanissimo, pieno di gloria, adorato dai soldati, Giuliano non aveva che da aspettare. Costanzo, più vecchio di lui di quindici anni, non aveva figli. L'impero gli sarebbe caduto nelle mani naturalmente, mentre la ribellione lo esponeva ai pericoli di una guerra civile, la quale assai probabilmente sarebbe finita con la sua catastrofe. Pare, pertanto, non possa esser dubbio che Giuliano sia stato trascinato alla ribellione dalla necessità della propria salvezza. Piuttosto che abbandonarsi alla sorte che gli pendeva sul capo, decise di affrontare il pericolo. Può darsi che, nei preparativi della ribellione, egli abbia avuto una parte maggiore di quella che vorrebbe far credere. Ma sarebbe ingiustizia il farne risalire a lui la responsabilità.

Di ciò io sono tanto convinto che non esito a credere nella sincerità dei tentativi di accordi e di transazione da lui fatti con Costanzo, onde evitare la guerra civile. Era troppo grande il rischio, troppo incerta la sorte di un urto fra i due rivali, perchè Giuliano, nella temperanza e nella chiarezza del suo giudizio, non dovesse cercare ogni mezzo per evitarlo. E che egli lo facesse, con accettabile larghezza di proposte, lo dimostra Ammiano e lo confermano le parole stesse di Giuliano.

Ammiano ci dà il testo della lettera che Giuliano scrisse a Costanzo per dargli notizia degli avvenimenti e proporgli condizioni accettabili. Le condizioni erano queste. — Costanzo doveva riconoscere e sanzionare quanto era avvenuto; Giuliano si obbligava a mandargli ogni anno degli aiuti d'uomini e di cavalli. Costanzo avrebbe nominato il Prefetto del pretorio, come a dire il primo ministro della Gallia, ma tutti gli altri impiegati militari e civili sarebbero stati nominati da Giuliano. Nel finire la sua lettera, Giuliano dimostra l'inopportunità ed il pericolo del disegno di portare in Oriente le truppe galliche, abituate ai loro paesi ed ancor necessarie alla difesa della Gallia stessa, ed esprime la speranza che la concordia dei due principi giovi alla loro gloria ed alla salute dell'impero94.

I due messi di Giuliano, Pentadio ed il fidato Euterio, raggiungono Costanzo a Mazaca, città della Cappadocia, occupato nei preparativi della guerra persiana. Avuta comunicazione, in udienza solenne, della lettera di Giuliano, Costanzo si accende di terribile sdegno, e scaccia gli ambasciatori non volendo nè chiedere nè udir nulla. E manda, come suo ambasciatore a Giuliano, il questore Leona con una lettera, in cui gli ingiunge di contenersi nei limiti della concessa autorità di Cesare, e, in prova della sua risoluzione di non cedere nulla dei suoi diritti, gli presenta un lungo elenco di nuove nomine ai diversi uffici del governo della Gallia95. Giuliano, che egregiamente sapeva rappresentare la sua parte di pretendente e di ribelle, riunisce, nel campo militare, i soldati e i cittadini e fa leggere l'editto di Costanzo. Giunta la lettura al punto in cui era detto che a Giuliano doveva bastare l'autorità di Cesare, un immenso e terribile clamore s'innalza d'ogni parte, e gridano tutti, soldati e cittadini: — Giuliano Augusto come lo vogliono la Provincia, l'esercito e la repubblica! — Leona se ne parte vedendo la posizione disperata. Giuliano, in relazione alle condizioni da lui stesso offerte, accetta Nebridio come prefetto del pretorio. Ma cancella tutte le altre nomine di Costanzo, e sceglie, di sua autorità, gli impiegati degli altri uffici96.

L'instancabile Giuliano non riposa nella nuova e suprema dignità di cui è rivestito. Prima che ricominci l'inverno, ripassa il Reno e conduce una rapidissima e fortunata campagna contro alcune tribù di Franchi, e poi, disposte le opportune difese, va a svernare a Vienna.

Nell'inverno dal 360 al 361, Giuliano è ancora incerto di prendere l'iniziativa della guerra contro Costanzo. Intanto egli celebra, con grande pompa, il quinto anniversario del suo governo nella Gallia, e si mostra al popolo ed ai soldati, cinto il capo di un diadema splendido di gemme. Se non che, in mezzo a questi festeggiamenti, lo coglie una grave sciagura, la morte della moglie Elena, avvenuta, per effetto di un lento veleno, propinatole, al dire di Ammiano97, tre anni prima, in Roma, dalla gelosa Eusebia, non tanto, narra lo storico, per ucciderla, quanto per impedirle di mai aver figli. Terribile accusa la quale rischiara di fosca luce il dramma d'amore che pare segretamente intessuto nella burrascosa esistenza del filosofo imperiale98.

A troncare l'incertezza e la preoccupazione di Giuliano, sorge un fatto nuovo, pel quale egli acquista la convinzione di trovarsi esposto al più grave pericolo. Scopre che Costanzo congiurava, a suo danno, coi re barbari, così che, se non pigliava pel primo le mosse, quando ancor gli accordi non erano maturi, avrebbe finito per trovarsi circondato da ogni parte, e costretto a combattere insieme gli eserciti germanici e l'esercito di Costanzo, coalizzati contro di lui. Egli aveva potuto impadronirsi della corrispondenza fra Costanzo ed il re Vadomario, e, con un tranello, era anche riuscito a far prigioniero quel re ed a sventare la trama99. «Costanzo — scrive Giuliano agli Ateniesi — istigava i barbari contro di me, mi chiamava suo nemico, e li pagava affinchè devastassero la Gallia. Scriveva ai suoi luogotenenti in Italia di guardarsi da coloro che venivano dalla Gallia, e comandava che si raccogliessero, nelle città vicine ai confini della Gallia, trecento miriadi di medimmi di grano, ed altrettanto ne faceva preparare nelle Alpi Cozie, come se volesse marciare contro di me. Queste non son parole, son fatti constatati. Io ebbi in mano, portate dai barbari stessi, le lettere ch'egli scriveva, e mi impadronii delle preparate provviste»100. È vero, continua Giuliano, che Costanzo mandava a lui il vescovo Epitteto a promettergli la vita salva e sicura. Ma non faceva parola di accordo e di riconoscimento dei fatti compiuti. E, quanto ai giuramenti di Costanzo, questi erano per Giuliano tanto labili come se scritti sulla cenere. D'altra parte, conclude Giuliano «se, per voler rimanere nella Gallia e per evitare il pericolo, io mi fossi trovato chiuso d'ogni parte, circondato dagli eserciti barbari e preso di fronte dai suoi, io era perduto, e perduto con vergogna, ciò che, pei saggi, è ancor peggio di qualsiasi sciagura»101.

Forse, nell'accusa che Giuliano muove a Costanzo di stringere segretamente accordi coi barbari a suo danno, c'è un po' d'esagerazione. Stando al racconto d'Ammiano, tutto si riduce all'episodio di Vadomario, e la corrispondenza fra Costanzo ed i re barbari che Giuliano dice d'aver avuto in sua mano sarebbe rappresentata dalla sola lettera di Vadomario, che pur parrebbe, a quanto ne riferisce Ammiano, di non grande importanza. È vero che anche Libanio102 dà molto peso all'episodio e vi vede l'indizio di una vasta congiura. Ma Libanio, sempre interessante come pittore d'ambiente, non merita gran fede come narratore di fatti, perchè la retorica, troppo spesso, gli prende la mano. Certo, è probabile che Costanzo non rifuggisse dall'idea di avere, in qualche barbaro, un alleato contro l'aborrito cugino, e più probabile ancora che l'astuto Vadomario corresse incontro al desiderio dell'imperatore. Ma è lecito credere, senza fare un gran torto al nostro eroe, che, nelle sue relazioni posteriori, ingrandisse di molto le cose, onde trovarvi la giustificazione della propria condotta. Se, del resto, Costanzo non aveva ancora compiuto quel delitto di lesa patria, egli aveva tutta la capacità del delinquere. E Giuliano ben lo sapeva.

Durante questi mesi di incertezza, passati a Vienna, Giuliano tenne una condotta religiosa che gli è attribuita a colpa grave, come un atto di pretta impostura. Egli era ancora esitante sul momento opportuno di accendere la guerra civile, ma la riteneva ormai inevitabile. Era, dunque, naturale che cercasse di avere, intorno a sè, il maggior numero di fautori, di non crearsi dei nemici che lo disturbassero nella preparazione dell'impresa. Ora, Giuliano, come noi sappiamo, era, già da tempo, convertito al Paganesimo. Per quanto, per ragioni di prudenza, tenesse celata la cosa, pure se ne buccinava intorno, e gli amici dell'antico ne traevano argomento di compiacenza e di speranza. Ma, nelle circostanze difficili in cui si trovava, Giuliano non voleva inimicarsi i Cristiani i quali, probabilmente, già sussurravano contro di lui e ne temevano la vittoria. Ed egli credette necessario di dar loro una soddisfazione che disarmasse il sospetto. Nel giorno dell'Epifania, solennemente festeggiato dai Cristiani di Vienna, Giuliano entrò nel loro tempio e fece atto pubblico di preghiera al dio cristiano: «feriarum die, quem celebrantes, mense Januario, Christiani Epiphania dictitant, progressus in eorum ecclesiam, solemniter numine orato, discessit»103.

Non si può negare che, in quel momento, la ragione di Stato fosse prevalente, nell'animo di Giuliano, sulla voce della coscienza. E non c'è dubbio che, dal punto di vista religioso, quell'azione sia stata riprovevole. Giuliano non era solo un politico, era un filosofo, un pensatore. La sua coscienza di pensatore e di filosofo doveva protestare contro la transazione. Ma, talvolta, nella vita, le contraddizioni s'impongono e diventa impossibile il sottrarvisi; in quel momento supremo della vita di Giuliano, l'imperatore ed il filosofo venivano ad urtarsi, e la forza delle cose voleva che l'imperatore facesse tacere il filosofo.

Ma questo filosofo, se si può usare tale parola per un mistico entusiasta, riprendeva, nel secreto, la rivincita. Giunto l'istante della risoluzione suprema, Giuliano, prima di riunire i soldati onde annunciar loro la sua partenza per l'Oriente e la guerra dichiarata contro Costanzo, fa segretamente un sacrifizio a Bellona104. Poi, sentendosi come consacrato e sicuro per l'arrischiata impresa, si presenta all'esercito. Espone il piano di attraversare l'Illiria e di giungere nella Dacia, mentre quelle regioni erano sprovviste di difesa. Là prenderà consiglio su quanto converrà di fare. Chiede ai soldati di serbarsi fedeli a lui che già li ha condotti a tante vittorie. Il discorso di Giuliano è accolto con immenso applauso105; i soldati, brandendo le spade, giurano solennemente di esser pronti a dar la vita per lui. E, dietro i soldati, tutti i capi e tutti gli impiegati. Il solo Nebridio non volle seguirlo, dichiarandosi troppo legato a Costanzo da antichi benefici ricevuti. Giuliano salva dall'ira dei soldati l'onesto legittimista, ma, quando, rientrato nella reggia, lo vede venirgli incontro e chiedergli che, in segno di benevolenza, conceda a lui di stringergli la destra, gliela rifiuta, con un'ironia, non priva d'amarezza, dicendo: — «Credi tu, forse, di poter esser salvato ai tuoi amici a cui tanto premi, se si saprà che tu hai toccata la mia mano? Vattene da qui, e dove vuoi, sicuro»106.

Risoluta l'impresa contro Costanzo, Giuliano l'eseguisce con una rapidità fulminea e con un'audacia che rivela quale mirabile uomo d'azione diventasse all'occorrenza questo meditabondo sognatore. Non lascia indifesa la Gallia, e la consegna, col grosso dell'esercito, alle mani fidate ed abili di Sallustio. Poi, volendo far credere che si avanzasse sopra Costantinopoli con forze immense, divide i suoi soldati in tre squadre, di cui l'una, sotto il comando dei generali Giovino e Giovio, doveva attraversar l'Italia settentrionale; l'altra, guidata da Nevitta, passar per la Rezia; egli poi, con un manipolo fidato, toccata Basilea, per la selva nera, giungeva alla riva del Danubio107. La percorreva, finchè, trovato navigabile il fiume, continuava su di esso il suo viaggio, non fermandosi in nessuna città o accampamento, perchè a lui ed alla piccola sua truppa bastavano le provviste che portavano con sè. Intanto, nell'Italia e nell'Illiria, si spargeva la fama che Giuliano, annientati i nemici di Gallia e di Germania, si avanzava con poderoso esercito, e questa voce bastava a gittar lo sgomento e la confusione, ed a far fuggire dalle loro sedi, in quelle regioni, due dei più alti funzionari di Costanzo, già compromessi davanti a Giuliano, cioè, il noto Florenzio e Tauro che aveva tenuto mano agli accordi di Costanzo coi re barbari108.

Libanio narra come Costanzo, non ammettendo nessuna possibile conciliazione, munisse tutte le vie per le quali Giuliano poteva venire dalla Gallia in Oriente. «Ma questi, lasciando che i suoi nemici custodissero le vie comuni, ne percorse una, insolita e breve, e piena di ostacoli, come se Apollo lo guidasse e gli appianasse i passi difficili. Così, sfuggito a coloro che dovevano fermarlo, al momento opportuno, apparve, quasi sorgendo dall'abisso, simile ad un pesce, scampato dalla rete, che si nasconde sotto le onde del mare, non visto da quelli che stanno sul lido»109. Altrove il retore esprime tutta la meraviglia dei contemporanei per l'audace novità della via, scelta da Giuliano. «Che dobbiamo — egli esclama — ammirar di più? O la tua vigilanza, o il valore dei seguaci, o la nuova via, per la quale, navigando quasi sempre, mentre ti si aspettava per terra, desti segno del movimento a cosa compiuta, o la navigazione attraverso genti barbariche, o la bellezza dei doni che ti portavano sulle sponde del fiume, onde la tua flotta, navigando, si avvicinasse, a loro? Io amo il Danubio, che a me par più bello del bell'Enipeo, più utile del fecondo Nilo, perchè ha sostenuto, sulle sue onde propizie, le navi che portavano al mondo la libertà»110.

Sul basso Danubio, a Sirmio, la capitale della provincia, trovavasi Lucilliano, il quale, raccolti, in fretta e in furia, dalle città vicine, i pochi soldati che poteva, pensava di resistere all'inaspettato invasore. Ma Giuliano, giunto a Bononea, l'attuale Bonistar, vicina a Sirmio, nell'oscurità della notte, scende a terra, e manda Dagalaifo a sorprendere Lucilliano. Il colpo riesce completamente, e Lucilliano è condotto al cospetto di Giuliano. Il generale di Costanzo è stupefatto e tremante, ma Giuliano cortesemente gli presenta a baciare la porpora imperiale. E Lucilliano, rassicurato ed inorgoglito: — È impresa — esclama — incauta e temeraria, o imperatore, arrischiarti con pochi in estranee regioni! — E a lui Giuliano con amaro sorriso: — Serba, risponde, per Costanzo queste parole di prudenza. Io ti ho sporta l'insegna della mia maestà non già perchè voglia i tuoi consigli, ma perchè tu finisca d'aver paura —111.

Nella notte stessa, Giuliano si avanza verso Sirmio. Ed ecco i cittadini tutti e i soldati gli escono incontro con fiaccole e fiori, gridandolo Augusto e conducendolo alla reggia. Lieto di questo primo e grande successo, Giuliano, facendo uno strappo alla sua severità, offre al popolo uno spettacolo di corse. Ma, al terzo giorno, impaziente di riposo e di indugio, corre ad occupare il passo di Succi, nei Balcani, ond'essere padrone della strada di Costantinopoli, e lo consegna alla difesa del fido Nevitta. Ridisceso a Nissa, provvede all'amministrazione della seconda Pannonia, che ormai è in suo potere, chiamando a reggerla lo storico Aurelio Vittore, e manda un manifesto al Senato di Roma, onde accusare Costanzo, annunciare e giustificare la sua assunzione all'impero112.

Intanto la posizione militare di Giuliano diventava inquietante. Egli aveva trovate, a Sirmio, due legioni della cui fedeltà verso di lui non era sicuro. Ed egli ebbe il pensiero di liberarsene, mandandole in Gallia. Ma quelle legioni non gradivano punto la nuova destinazione e non la gradiva nemmeno il loro capo Nigrino, natio della Mesopotamia. Esse partirono da Sirmio, ma, giunte ad Aquileja, chiusero le porte della città e si dichiararono, d'accordo con gli abitanti, partigiane di Costanzo113. Aquileja era città fortissima, il cui assedio avrebbe voluto gran tempo. Giuliano ordina a Giovino, che arrivava dall'Italia col grosso delle truppe, di fermarsi intorno ad Aquileja e di stornare, in qualche modo, il pericolo. Ma, intanto, si oscurava l'orizzonte nella Tracia stessa. Le truppe di Costanzo si riordinavano, e si avvicinavano al passo di Succi, sotto la condotta di Marziano. Se Costanzo arrivava dall'Oriente, prima che Giuliano avesse avuto vittoria degli eserciti vicini, quest'ultimo era perduto. Per verità Libanio non dubita che, anche nel caso di una battaglia fra i due cugini, la vittoria sarebbe stata per Giuliano. «Se anche si fosse dovuta risolvere la lite col ferro, lo scioglimento non sarebbe stato diverso. Solo sarebbe corso il sangue, ma poco e vile. Poichè, all'infuori di poche schiere, guadagnate da Costanzo, tutti i soldati vivevano per te, e pareva che a te corressero per esser da te ordinati e condotti»114. Ma Giuliano non partecipava affatto a tale sicurezza, probabilmente ispirata a Libanio dall'adulazione ed anche dall'affetto pel vincitore. Giuliano, anzi, sentiva la gravità estrema della sua posizione. Risolve d'abbandonare, pel momento, l'espugnazione di Aquileja a cui penserà più tardi, e chiama presso di sè l'esercito indugiante nell'Illiria, esercito fedele e provato nelle ardue campagne barbariche. Con un'attività veramente geniale di capitano e di organizzatore115, si prepara ad una guerra disperata, quando un improvviso avvenimento disperde la tempesta, e lo solleva, d'un colpo e senza contrasto, al sommo della fortuna.

Mentre Giuliano si avvicinava come usurpatore a Costantinopoli, Costanzo trovavasi ad Edessa, impigliato nella guerra contro i Persiani. Ad Edessa arrivava l'annuncio che Giuliano, rapidamente percorsa l'Italia e l'Illiria, aveva già occupato il passo di Succi e stava per invadere la Tracia. Lo stupore ed il furore si alternano nell'animo di Costanzo, ma egli non era uomo di perdersi di coraggio nelle discordie domestiche e civili. Raccoglie l'esercito, espone il tradimento di Giuliano e lo invita a punire il ribelle116. L'esercito lo acclama, ed egli, composte pel momento, come meglio poteva, le difficoltà persiane, manda avanti, con buon nerbo di truppe, i due generali Arbizione e Gomoario, quest'ultimo nemico personale di Giuliano, col proposito di seguirli da presso. Infatti va ad Antiochia, ed impaziente d'ogni indugio, insofferente di riposo, turbato da oscuri presentimenti, riparte tosto per Tarso. Le fatiche, l'ira, l'emozione lo avevano scosso. A Tarso è colto da lieve febbre. Ma egli afferma che il moto deve giovargli, e va avanti e giunge, per via faticosa, a Mopsucrene, al confine della Cilicia. Ne vuol ripartire il giorno dopo, ma non può per la violenza della febbre, e, in breve, muore, designando, si narra, col solo atto generoso di tutta la sua vita, successore suo il cugino, il ribelle Giuliano. Appena spirato Costanzo, si riuniscono i capi dell'esercito, e risolvono di mandare a Giuliano due ambasciatori, Teolaifo ed Aligildo, i quali, in nome dell'esercito stesso, lo invitassero ad assumere, senza indugio, la signoria di tutto l'impero117.

Giuliano, avuta l'inattesa ambasciata, in immensum elatus, come dice Ammiano, non pone tempo in mezzo, e muove, con tutti i suoi soldati e con seguito di gente innumerevole, verso Costantinopoli. Era una letizia, un trionfo non mai veduto. Sembrava la processione di un dio. Il passaggio dalle ansie di una guerra terribile, combattuta per l'impero, alla pacifica consacrazione col consenso di tutti, era stato tanto rapido da parere un miracolo. «Quando, narra Ammiano, si seppe, a Costantinopoli, del suo prossimo arrivo, uscì ad incontrarlo il popolo tutto, senza distinzione di sesso e di età, quasi credesse di vedere un'apparizione celeste. Ricevuto, alle Idi di dicembre, fra i devoti omaggi del Senato e gli applausi delle turbe popolari, in mezzo a schiere d'armati e di togati, Giuliano procedeva fra una moltitudine ordinata, e tutti gli occhi si volgevano a lui, non solo per curiosità, ma con grande ammirazione. Sembrava, infatti, un sogno che questo giovane, di figura esigua, già illustre per eroiche imprese, dopo lotte sanguinose con re e con popoli, passando, con non mai vista prestezza, da città in città, dovunque arrivava, avesse facile dominio e pronta adesione d'uomini e di cose, e, finalmente, ad un cenno divino, assumesse l'impero senza nessuna jattura della pubblica fortuna»118.

Chi mai avrebbe detto che quel sogno, in meno di due anni, sarebbe scomparso, e che questo giovane, a cui pareva si aprisse un avvenire fecondo di gloria e di fortuna, sarebbe, in men di due anni, perito, non lasciando di sè altro ricordo se non quello di aver miseramente sciupate le sue forze e le sue doti meravigliose in un folle tentativo di restaurazione religiosa!

Giuliano, entrato trionfante a Costantinopoli, volle, per prima cosa, purificare l'ambiente politico e morale. Ma qui egli non ebbe la mano felice, o, almeno, non si mostrò immune dalle abitudini del suo tempo. Si lasciò trasportare dal sentimento della vendetta e sanzionò le condanne pronunciate da una commissione inquirente, da lui nominata, per giudicare gli uomini più influenti del regno di Costanzo, nei quali egli sapeva o supponeva d'aver avuto dei nemici personali. L'onesto Ammiano deplora acerbamente alcune di queste condanne, e ne dà colpa principale ad Arbizione, generale di Costanzo, uomo infido e perverso, che Giuliano aveva avuto il torto di chiamare presso di sè e che, con gli eccessi del rigore e coll'acuire i rancori di Giuliano, cercava di guadagnarsi la grazia del nuovo padrone. Questo triste episodio è una macchia della carriera di Giuliano. Però, siccome i denigratori di Giuliano prendono da ciò argomento ad oscurarne la fama, osserveremo, in primo luogo, che Giuliano, per quanto uomo superiore, pure apparteneva al suo tempo, e, se anche noi vorremmo vederlo più generoso, non possiamo dimenticare che, venuto dopo imperatori crudelissimi come Costantino e Costanzo, egli, in un momento solo e in minima parte, ne ha seguito l'esempio. Delle cinque condanne a morte da lui sanzionate, tre, quelle di Apodemio, di Paolo e dell'eunuco Eusebio, sono approvate anche da Ammiano, tanti e tali erano stati i delitti di quei cortigiani di Costanzo. La condanna di Palladio non appare sufficientemente giustificata, e veramente riprovevole, secondo Ammiano, fu quella di Ursulo, ufficiale preposto alle elargizioni imperiali, che, per la sua parsimonia, era caduto in odio dell'esercito, durante le campagne persiane di Costanzo119. Certamente, Ursulo fu vittima di una vendetta di Arbizione, e Giuliano, con colpevole debolezza, non ha avuto il coraggio di salvarlo. E ne sentì rimorso, e cercò di rovesciare la responsabilità dell'ingiustizia commessa sugli infrenabili risentimenti militari120, e, come narra Libanio121, ne risarcì la memoria, col lasciare alla figlia una gran parte dei beni paterni. All'infuori di queste, non vi furono altre condanne a morte. Quei molti nemici che non avevano cessato di scagliare contro di lui accuse e calunnie furono condannati semplicemente all'esiglio, ciò che dà occasione a Libanio di esaltare la clemenza di Giuliano che li ha risparmiati e si è accontentato di mandarli a vivere nelle isole, dove «aggirandosi solitari avranno imparato a trattenere la lingua»122.

Ma, se tali rappresaglie, per quanto giustificate, in parte dai costumi del tempo, e in parte anche dagli spiegabili risentimenti di Giuliano, così ferocemente combattuto in tutta la sua vita, non son certo a lodarsi, e se decisamente riprovevole fu la condanna di Ursulo, pare, invece, degna di encomio la prontezza con cui ha ripulito la Corte di Costantinopoli delle turbe di parassiti che vi vivevano con lauti stipendi ed ammucchiavano ricchezze scelleratamente guadagnate123. Ammiano, che non risparmia i rimproveri al suo eroe, osserva che è stato troppo precipitoso in quest'opera di risanamento e che non ha mostrato lo spirito indagatore e prudente del filosofo. Ma la pittura ch'egli fa della corruzione della Corte di Costanzo può giustificare la radicale epurazione compiuta da Giuliano. Tale epurazione è considerata da Libanio come uno degli atti più lodevoli di Giuliano. La descrizione che il retore d'Antiochia tratteggia della Corte di Costanzo è ancor più spaventosa di quella di Ammiano. «Vi si vedeva una folla oziosa, sfacciatamente mantenuta, mille cuochi, in numero non minore i barbieri, ancor più numerosi i coppieri, sciami di scalchi, di eunuchi, più fitti delle mosche sugli armenti in primavera, e innumerevoli vespe d'ogni specie. E ciò s'intende, perchè per gli oziosi e pei ghiottoni non v'era rifugio tanto sicuro come l'esser iscritti fra i servitori dell'imperatore»124. E tutta questa turba viveva e prosperava di prepotenze e di eccessi125.

Finalmente Giuliano potè dare esecuzione al voto più ardente del suo cuore, a quel voto che era il segreto movente d'ogni sua azione. «Venuto il tempo di far ciò che voleva, rivelò gli arcani del suo petto, e, con decreto esplicito ed assoluto, stabilì che si aprissero i templi, che si presentassero le vittime agli altari, e si restaurasse il culto degli dei. E, per rendere più efficaci queste disposizioni, chiamava alla reggia i vescovi dissidenti dei Cristiani, con le loro plebi, e cortesemente li ammoniva che, sopite le discordie, ognuno, senza paura, servisse la propria religione. Giuliano ciò faceva nella convinzione che la licenza avrebbe aumentate le discordie, e così egli non avrebbe avuto, più tardi, a temere una plebe unanime contro di lui. Sapeva, per esperienza, che non vi sono belve tanto feroci contro gli uomini, quanto lo sono i Cristiani fra di loro»126. Ritorneremo, più avanti, su questo atto tanto curioso per un imperatore che voleva restaurare il paganesimo. Ora, seguiamolo nella sua vita politica.

Con la sua mirabile attività, Giuliano, nei mesi di sua dimora a Costantinopoli, attendeva all'amministrazione della giustizia e non trascurava le cose militari, munendo di opportune difese e di validi presidii il corso del Danubio, contro i possibili attacchi dei Goti. Lo consigliavano alcuni a tentare un'impresa contro questi barbari, così da debellarli per sempre. Ma egli diceva di voler nemici migliori, ed era, come or vedremo, guidato da un pregiudizio che lo doveva condurre alla rovina.

Intanto la fama della sua potenza e della sua saggezza si spandeva per tutto il mondo, ed a lui giungevano ambascerie dalle più lontane regioni, dall'India e dal misterioso Oriente, dal Settentrione e dalle regioni del Sole apportatrici di omaggi e doni, chiedenti pace ed amicizia127.

Ma Giuliano non era uomo da vivere contento e tranquillo in una così grande fortuna. Egli sognava ardue imprese e gloria. Erano, come già vedemmo, due uomini in lui, il pensatore e l'uomo d'azione, i quali portavano, nell'esercizio delle loro facoltà, la medesima irrequietudine e la medesima intensità di vita. Il pensiero di risollevare l'Ellenismo, oggetto del suo più vivo affetto, non bastava a riempire la sua esistenza. Il soldato, il capitano volevano la loro parte, e lo spingevano a qualche grande impresa. Ora, Giuliano era uomo del suo tempo, e partecipava alle antiche tradizioni del mondo greco-romano, ed a quel pregiudizio che, insieme al bisogno di fuggire dalla città che gli ricordava i suoi delitti128, aveva indotto Costantino a trasportare la capitale dell'impero da Roma a Bisanzio, il pregiudizio che il centro di gravità del mondo civile fosse l'Oriente, per cui lì si richiedevano le maggiori difese, lì era il maggior pericolo, lì doveva conservarsi e salvarsi la civiltà. Le invasioni e i tumulti barbarici, che costringevano gli eserciti imperiali a lotte continue al nord delle Alpi e lungo le rive del Reno e del Danubio, non erano che episodi gravi talvolta, ma che pareva non avrebbero mai compromessa la compagine dell'impero. Giuliano, che pur aveva combattuto, per cinque anni, corpo a corpo, coi Germani, non aveva, neppur lui, misurata la grandezza del pericolo, non aveva presentita la vicina rivoluzione del mondo. Nutrito, fino al midollo, di coltura ellenica, riviveva nel tempo in cui la Grecia aveva salvata la civiltà occidentale, resistendo con immortale eroismo alle armate di Dario e di Serse. L'idea di rinnovare quelle lotte gloriose e di sconfiggere la potenza persiana, che riappariva minacciosa, aveva per lui un'irresistibile attrattiva. Eppure, egli era vittima di un'illusione. La Persia era una forza pressochè esaurita, e che, in ogni modo, sarebbe stata sempre incapace di porre a serio repentaglio la sicurezza dell'impero. Ben altro era il pericolo barbarico. Un imperatore di genio avrebbe dovuto cercare di andar alla radice del male, togliendo l'impero alla minaccia di invasioni distruggitrici. Se Giuliano, seguendo l'illuminato consiglio che dalla Gallia gli mandava il fido Sallustio129, avesse lasciato in pace i Persiani, e poi, passando il Danubio, avesse radicalmente domati i Goti, e collocato, nel centro della Pannonia, un organismo di civiltà e di colonizzazione che impedisse il movimento delle orde orientali sui popoli germanici e il conseguente spostamento di questi dalle loro sedi, egli avrebbe, forse, davvero salvata la civiltà. Oppure, avrebbe potuto ritornare nella sua Gallia, e, padrone assoluto di tutte le forze dell'impero, far di questa un punto di partenza, per l'invasione e la soggezione della Germania, promuovendo a rovescio, cioè, verso la Persia e verso l'India, il movimento di emigrazione che riuscì fatale all'impero ed alla civiltà. Ma Giuliano non vedeva, non pensava che la Persia. Nel 337 il re Shapur o Sapore, come lo chiama Ammiano, aveva presa l'iniziativa della guerra contro l'impero, e Costanzo, durante il suo regno, era stato continuamente afflitto da quella preoccupazione, perchè la guerra si trascinava malamente, senza mai venire ad una definitiva conclusione. Quando Giuliano, apertamente ribelle, mosse contro il cugino, questi, come sappiamo, potè volgersi contro di lui, perchè esisteva col re Sapore una tregua, se non per accordo stabilito, almeno per tacita intesa. Ma le cose eran rimaste in una condizione di incertezza da giustificare, nell'apparenza, l'impresa che Giuliano desiderava di compiere. La campagna infelice, condotta da Costanzo contro i Persiani, nella quale, malgrado la grandezza dei preparativi, egli non aveva data altra prova che di debolezza e di paura, aveva siffattamente aumentato il prestigio del nome persiano da paralizzar del tutto l'energia dell'esercito imperiale. Libanio130 fa una vivace pittura dell'avvilimento dei soldati, prodotto dalla coscienza che essi avevano della superiorità dei Persiani. «Era tanto e così fondato in essi il timore dei Persiani, accumulatosi in molti anni, da potersi dire che essi li temevano anche dipinti». È certo che questa condizione dello spirito militare fu, per l'eroico Giuliano, uno stimolo a gittarsi nell'impresa, col proposito di risollevarlo mercè il vigore della condotta e l'esempio del valore, come, infatti, gli riuscì. «Questi uomini così avviliti quell'eroe, li condusse contro i Persiani. Ed essi lo seguirono, memori ancora dell'antico valore, e persuasi di attraversare intatti anche il fuoco, pur che seguissero i suoi consigli».

Risoluto di portarsi, col suo esercito, sull'Eufrate, l'imperatore lascia, nell'estate del 362, Costantinopoli, e va prender dimora ad Antiochia, onde esser più vicino al teatro della guerra, e farne il centro dei grandi preparativi che, nella sua sapienza delle cose militari, ben sapeva necessari all'audace impresa. Percorre, nel viaggio da Costantinopoli ad Antiochia, una regione a lui nota e cara. Si ferma a Nicomedia, e piange col popolo la rovina della già splendida città, presso che annientata dal terremoto, e rivede antichi amici e compagni di studio. Tocca Nicea, e fa una gita a Pessinunte onde visitare e venerare l'antico santuario della Madre Cibele. E qui, nella notte, l'infaticabile uomo scrive il suo lungo discorso intorno alla Madre degli dei, uno dei principali documenti della sua dottrina mistica e mitologica. Poi, passando per Ancira e Tarso, entra in Antiochia, orientis apicem pulcrum, come la chiama Ammiano che vi era nato, accolto fra immense acclamazioni, che lo salutavano come un astro salutare novellamente acceso in Oriente.

Giuliano rimase ad Antiochia dall'agosto del 362 al marzo del 363. Questi pochi mesi costituiscono uno degli episodi più interessanti della vita di Giuliano. Antiochia era una città di piaceri e di lusso. La sua popolazione mobile d'animo, leggera, rumorosa e maldicente, di null'altro desiderosa che di svaghi e di spettacoli, aveva accolto con entusiasmo il giovane imperatore, perchè aveva supposto di trovare in lui un promotore di divertimenti, un esempio di dissolutezza. Il disinganno è stato profondo ed acerbo. Giuliano amministrava la giustizia con somma equità e temperanza; egli stesso si occupava delle condizioni economiche della città, regolava i prezzi delle derrate, curava l'approvvigionamento, provvedeva ai bisogni edilizî, era infine, un sovrano esemplare, ma viveva, insieme, con sì grande severità di costumi, mostrava un tale aborrimento degli spettacoli pubblici, si sprofondava, con una così assorbente intensità di volere e di lavoro, nei suoi doveri civili e militari, che i frivoli Antiochesi passarono ben presto dalla meraviglia allo scherno ed al disprezzo. Quel giovane che rifiutava tutte le mollezze del lusso orientale, che affettava la rozzezza nel portamento e nel vestire, che portava la barba, che non aveva nessuno dei requisiti che essi si erano imaginati di trovare in lui, divenne per loro cordialmente antipatico e, siccome ben si sapeva che l'impertinenza sarebbe rimasta impunita, i poetastri e i libellisti approfittarono dell'indulgenza dell'imperatore e sparsero per Antiochia satire ed epigrammi che formavano la delizia della frivola città. Ma Giuliano, se non ha puniti gli impertinenti, come altri sovrani avrebbero fatto, ne prese una vendetta allegra, che sarà, più tardi, argomento del nostro studio.

Finalmente, compiuti con ansia febbrile i preparativi, distribuite le truppe nelle varie stazioni, fatti immensi e solenni sacrifici a Giove, nel marzo del 363, Giuliano parte da Antiochia diretto all'Eufrate. Poco prima di partire, aveva ricevuta una lettera del re di Persia, il quale, sgomentato dalla fama guerresca del giovine imperatore, lo pregava di accogliere una sua ambasceria e di comporre, con un trattato, il loro dissidio. «Tutti — scrive Libanio — applaudendo e compiacendoci, gridavamo che accettasse. Ma egli, gittando via con disprezzo la lettera, disse che sarebbe stato il più vile dei partiti il venir a trattative col nemico, mentre giacevano al suolo tante città distrutte. E rispose non esservi bisogno di ambasciatori, giacchè fra breve, egli stesso, sarebbe venuto a vedere il re...»131. Superba risposta, indizio eloquente del completo acciecamento, della folle ostinazione dell'apostata invasato che la mano di Dio, dicevano i Cristiani, spingeva al precipizio. Al re d'Armenia, suo alleato, raccomanda di tenersi pronto per eseguire gli ordini che verrà a ricevere. Nel lasciar Antiochia, nomina prefetto di Siria un severo amministratore, Alessandro, affermando che solo la severità ed il rigore potevano tener in pace l'insolente città, ed alla folla che lo accompagnava alle porte, e gli augurava felice ritorno, pentita del suo contegno verso di lui, rispondeva acerbamente che non l'avrebbero mai più veduto, perchè, ritornando dalla Persia, avrebbe svernato a Tarso. Non pare che gli Antiochesi si rassegnassero a questa specie di decapitazione, minacciata alla loro città, poichè da una lettera di Giuliano a Libanio, in cui narra il suo viaggio fino ad Jerapoli, vediamo che a Litarbo, la sua prima tappa, fu raggiunto dal Senato d'Antiochia, col quale egli ebbe una segreta conferenza. Giuliano non ne dice il risultato, riservandosi di parlarne a Libanio, se gli dei gli concederanno il ritorno132. Ma è certo che vi si trattò della pace fra l'imperatore e la città; pace, la cui conclusione stava tanto a cuore del retore antiochese che, onde promuoverla, scriveva due discorsi, l'uno agli Antiochesi, per indurli al pentimento delle offese fatte all'imperatore, l'altro all'imperatore stesso per indurlo al perdono.

Con la sua consueta rapidità, Giuliano passava l'Eufrate e giungeva a Carra, donde partivano due strade, di cui l'una, attraversando la Mesopotamia, da Ovest ad Est, raggiungeva il Tigri, l'altra scendeva al Sud lungo l'Eufrate. Manda per la prima Procopio e Sebastiano con 30,000 uomini, dice Ammiano133, con 18,000, dice Zosimo134, onde difendere il suo fianco, ed unirsi, se possibile, ad Arsace, il re d'Armenia, ed egli stesso, con un esercito di 65,000 uomini, discende all'Eufrate. Da Carra va a Callinice, dove celebra la festa solenne della Madre degli dei e riceve l'ambasceria dei Saraceni che si prosternano devoti innanzi a lui. Indi arriva a Circesio, al confluente dell'Abora coll'Eufrate. Qui assiste all'arrivo dell'immensa flotta, da lui allestita, che comprende mille navi onerarie, cariche di provviste e di strumenti bellici, più cinquanta altre da combattimento, ed altre ancora coi materiali da ponte135. A Circesio, Giuliano riceve una lettera del fido Sallustio, da lui nominato prefetto della Gallia, che lo supplica di non avventurarsi in un'impresa funesta, di non commettere un errore che potrebbe essere irreparabile. Giuliano non dà retta alla voce del lontano amico. Ma, nel suo campo stesso, intorno a lui, v'era un partito contrario alla spedizione. E questo partito cercava d'influire sull'animo di Giuliano, interpretando in modo sfavorevole alla spedizione tutti i segni, tutti gli indizi che l'accompagnavano. Nella restaurazione del Paganesimo, inaugurata da Giuliano, la superstizione teneva, come vedremo, un posto eminente. Il misticismo neoplatonico, che si fondava sull'ingerenza continua del soprannaturale nelle cose del mondo e che era tutto un complesso di miti e di simboli, dava un'enorme importanza alla scienza augurale. L'uomo, pur che ne tenesse la chiave, avrebbe potuto leggere, nei segni che lo circondavano, il suo futuro, e prenderne un consiglio infallibile. Giuliano aveva, dunque, con sè una schiera di auguri e d'interpreti, ai quali, ad ogni istante, ricorreva. Ora, è curioso che costoro gli dessero sempre delle spiegazioni tendenziose, miranti allo scopo di fermare l'impresa. Quegli auguri non hanno che presagi di disastri e di morte. È, dunque, evidente che quelle loro interpretazioni rispondevano a desideri ed a convinzioni che correvano almeno in una parte del campo di Giuliano. Ed è poi più curioso ancora il vedere come Giuliano, il quale aveva l'idea fissa di andar avanti, sa interpretare quei medesimi segni in un senso opposto e favorevole al desiderio suo. Per troncar ogni esitanza, Giuliano raccoglie l'esercito intorno a sè, e pronuncia un discorso infiammato, al quale i soldati, specialmente le fidate e provate legioni galliche, rispondono con acclamazioni e gridi di entusiasmo136.

Il racconto di questa spedizione persiana, che ci è fatto da Ammiano, il quale ne era parte e ci narra ciò ch'egli stesso ha veduto, è una delle relazioni più interessanti che l'antichità ci ha tramandate, e non è indegna di figurare presso i Commentari di Cesare o l'Anabasi di Senofonte. La narrazione di Ammiano è, in qualche parte, completata dal racconto che ne fa Zosimo137 che attingeva, evidentemente, oltre che ad Ammiano, a qualche altra fonte, e da quanto narra Libanio, nel discorso necrologico. Quest'ultimo non ha la pretesa di dare una relazione, rigorosamente militare, come quella d'Ammiano, od una narrazione ordinata, per quanto sommaria, come quella di Zosimo, ma ci presenta pitture ed episodî che riproducono vivacemente l'uomo, il paese e l'ambiente.

Ciò che più attrae, in tutti questi racconti, è lo spirito genuinamente eroico che muove Giuliano in ogni suo atto, in ogni sua parola. La sapienza del capitano che tutto prevede ed a tutto provvede, il valore incomparabile del guerriero, la magnanimità del vincitore, la comunione completa della sua vita con quella dei suoi soldati, l'arte con cui sa affezionarseli, ora rimproverandoli, ora lodandoli, ora esaltando la grandezza dell'impresa a cui si sono accinti, sono doti preziose che, unendosi in lui, fanno di lui una delle più cospicue e nobili figure della storia, certo la più nobile nella decadenza dell'impero.

Ma che profondo errore era mai quello che trascinava Giuliano nella sua folle impresa! Egli diceva al suo esercito: — «Io porrò sotto il giogo i Persiani, e così avrò restaurato lo scosso orbe romano!» — Era questa una specie di suggestione che tutti gli imperatori, buoni e cattivi, si trasmettevano l'un l'altro. E, intanto, mentre essi sciupavano le forze in questa inutile impresa, si addensava, nelle misteriose regioni del Settentrione, il turbine che tutto e tutti avrebbe travolto.

Avute in dedizione, quasi senza combattere, le città di Anatha e di Macepracta, Giuliano trova la prima ostinata resistenza nella fortezza di Pirisabora sull'Eufrate. L'imperatore vi compie prodigi di valore, gittandosi egli stesso sotto la testuggine degli scudi, e sconquassando le porte della città, mentre dall'alto precipita una tempesta di proiettili. Ma, resistendo i difensori, fa costrurre una macchina gigantesca, la quale incute loro tale spavento da persuaderli alla resa e ad invocare la sicura magnanimità del vincitore, il quale, presa Pirisabora, continua il suo cammino vittorioso, atterrando ogni ostacolo, superando le difficoltà della marcia in un terreno frastagliato dai canali d'irrigazione ed artificialmente inondato138. Assedia la città di Maiozamalca, presso la quale sarebbe caduto trucidato, durante un'arrischiata perlustrazione da lui stesso eseguita per riconoscere la posizione, se, con singolare prontezza e valore, non si fosse difeso139. Non riuscendo a vincere, con le sue macchine, la resistenza della fortezza, vi entra, per mezzo di un cunicolo sotterraneo, e se ne impadronisce. Superato questo punto di forte difesa, Giuliano, abbattendo tutti gli ostacoli che gli si paran davanti, giunge ad un immenso canale, già scavato da Traiano per mettere in comunicazione navigabile l'Eufrate col Tigri. Libanio ci dice che Giuliano già conosceva, per lo studio dei documenti, l'esistenza di questo canale, così che i prigionieri, da lui interrogati, trovarono inutile di fingere l'ignoranza alle sue domande, e gli rivelarono tutti i dettagli della costruzione140. I Persiani avevan chiuso e parzialmente otturato il canale. Ma a Giuliano quella via era preziosa, onde entrare, con tutta la flotta, nel Tigri. Egli, dunque, fa riaprire il canale, in cui fluiscono le acque dell'Eufrate, portando le navi imperiali, ch'egli fa seguire dall'esercito, il quale, passato su di un ponte il canale, va ad accamparsi sulla destra del Tigri. La sinistra era fortemente difesa dai Persiani e di difficile accesso. Ma l'audace imperatore pensa di assalirla e di conquistarla. Tutti i suoi capitani sconsigliano l'imprudente tentativo. Giuliano non si smuove. Di notte, manda alcune navi, con pochi volonterosi audaci, a sorprendere il campo nemico. Ma il nemico è vigile, e, gittando materie incendiarie, infiamma le navi. Il grosso dell'esercito che, sull'altra sponda del Tigri, aspettava ansiosamente il cenno per imbarcarsi, crede perduto il drappello valoroso. Quand'ecco Giuliano, con la sua solita prontezza di spirito, percorrendo la fronte e gridando: — Vittoria, vittoria! Quelle fiamme sono il segno convenuto che il colpo è riuscito, che la riva è nostra — trascina con sè i soldati che si precipitano alle navi, ed, attraversato il Tigri, si trovano di fronte i Persiani, e sono costretti a combattere141. Ne viene una grande battaglia che, dopo molte ore, si risolve in una completa vittoria per l'esercito romano. Giuliano che, durante la giornata, aveva compiuto prodigi di valore e di abilità tattica, può ormai credersi al termine di una gloriosa campagna che rammenta i fasti antichi e pare segni veramente il rifiorimento dell'impero.

Ma qui avviene un fatto strano, impreveduto, un fatto terribilmente funesto che basterebbe, anche solo, a provare come fosse poco equilibrata la mente di quel giovane geniale. La campagna si poteva dire guadagnata. Giuliano si trovava alle porte di Ctesifonte, la capitale persiana. Questa città era difesa da un esercito sconfitto; il prestigio militare di Giuliano era, per sè stesso, l'arma più potente. In ogni modo, il vincitore di Pirisabora, di Maiozamalca, l'audacissimo fra i condottieri non poteva arretrarsi davanti all'ultimo sforzo. Che fa, invece, Giuliano? Si ferma cinque giorni ad Abuzata, presso il campo della sua vittoria, e vi raccoglie un consiglio di guerra. E questo è unanime nel dissuadere l'imperatore a tentare la presa di Ctesifonte, perchè, si dice, sarebbe pericoloso impegnare l'esercito in questa operazione, mentre potrebbe sopraggiungere il re Sapore, col suo esercito, che, fino allora, era stato lontano dai luoghi dell'azione142. Quel Giuliano che non dava mai retta ai consigli altrui, che non obbediva nemmeno agli auguri, se non quando predicevano ciò ch'egli desiderava, che, malgrado le preghiere, gli scongiuri di tutti i suoi generali, aveva tentato l'arrischiatissimo passaggio del Tigri, questa volta si arrende e rinuncia, per un pericolo ipotetico, a quell'ultimo atto della guerra che pareva dovesse esserne il termine glorioso. Ciò vuol dire che l'abbandono di Ctesifonte era già prestabilito nell'animo di Giuliano. Ma perchè? Forse l'inquieto avventuriero era già stanco dell'impresa persiana, che ormai gli sembrava troppo facile, o, almeno, aveva perduto per lui il fascino dell'ignoto. La gloria di Alessandro balenava ai suoi occhi. Le sue aspirazioni non si fermavano all'Eufrate ed al Tigri; i fiumi dell'India lo chiamavano con un'attrattiva potente appunto perchè vaga e lontana. — Tendeva il pensiero ai fiumi dell'India — dice Libanio143.

Ora, la difficoltà di procedere alla presa di Ctesifonte era un buon pretesto per slanciare l'esercito nell'avventura di un'impresa in terreni ignoti. Infatti, se era difficile andar avanti, era non meno difficile tornare indietro, facendo risalire alle molte navi la corrente del Tigri e dell'Eufrate. Ci sarebbe voluto, dice giustamente Libanio, la metà dell'esercito, impiegata al rimorchio, ciò che avrebbe lasciata indifesa agli assalti dei Persiani tutta la spedizione144. Ed allora Giuliano fa questo piano, ancor più folle che audace — abbandonare le vie fluviali che erano state fino allora la sua base d'operazione, bruciare la flotta con tutte le provviste, onde impedire che cadesse in mano del nemico, e gittarsi nell'interno del paese, dove sapeva di trovare terre fertili, erbaggi e messi abbondanti. Senza credere all'esistenza di quel complotto persiano, di cui parla Gregorio di Nazianzo145, e di cui egli, con scherno vittorioso, addita, in Giuliano, la vittima stolta, si può ammettere la probabilità, riconosciuta anche da Ammiano146, che guide ignoranti o false abbiano illuso e traviato l'infelice imperatore, sempre troppo facile a credere ciò che gli andava a genio. Stabilito il piano, con quella prontezza di risoluzione, che era un elemento di riuscita nelle buone idee, ma un precipizio di rovina nelle cattive, Giuliano lo mette in esecuzione. Abbrucia tutta la flotta con le sue immense provviste, non conservandone che dodici da portar seco per la costruzione dei ponti, ed abbandona, con tutto l'esercito, la sponda sinistra del Tigri.

La stella di Giuliano è tramontata. Egli non ha che pochi giorni di vita, e son giorni di ansie terribili, glorificati da un eroismo che nella sventura giganteggia. Le guide lo tradiscono, e l'esercito erra senza direzione. La sua posizione è resa gravissima dalla condotta del nemico. I Persiani, veduto l'errore di Giuliano che si era, da sè stesso, privato della sua base d'operazione, si guardan bene dal venire a nuova battaglia, ma sistematicamente si accingono ad incendiare ed a distruggere le erbe ed il grano delle regioni circostanti, così da affamare l'esercito romano, il quale soffriva insieme pel calore eccessivo, per le morsicature degli insetti e per la piena delle acque147. Non giungendo gli aspettati aiuti dall'Armenia, Giuliano, vedendo impossibile mantenere il suo proposito, si risolve di ritirarsi piegando al Nord, per modo da raggiungere paesi più temperati, che avrebbero offerto all'esercito il necessario sostentamento. La marcia dei Romani procede per alcuni giorni difficilmente, in un paese devastato, disturbata continuamente dai Persiani che attaccano la retroguardia o i drappelli isolati. L'esercito del re Sapore segue ormai da presso i Romani in ritirata, e l'enorme polverio che si solleva all'orizzonte è indizio della sua presenza. Finalmente, nel piano di Maranga, si viene a battaglia148. È bello leggere in Ammiano, che assisteva alla battaglia, la descrizione dell'esercito persiano, in cui si trovavano due figli del re e molti satrapi, delle armature meravigliose, degli arcieri infallibili, degli elefanti spaventosi. Davanti a questo pauroso spettacolo, Giuliano riacquista tutta la sua prontezza di spirito e l'audacia sicura del concitato imperio. Per impedire ai famosi arcieri persiani di far strage da lontano dei suoi soldati, raccoglie in un denso nucleo gli invincibili fantaccini di Roma e della Gallia, e fa una carica a fondo sulla fronte del nemico che non sostiene l'urto e si volge in fuga, lasciando il terreno coperto di morti. Una grande vittoria, ma una vittoria inutile. Pei tre giorni consecutivi l'esercito di Giuliano sta tranquillo negli accampamenti, per ristorarsi e curar le ferite. Nella notte del terzo giorno, Giuliano, che partecipava a tutti gli stenti dei suoi soldati, si alza dal duro giaciglio. Come al solito — mirabile serenità di spirito — stava scrivendo e meditava su di un libro di filosofia, quand'ecco gli appare un fantasma. È quel medesimo Genio che a Parigi, nella notte della sua proclamazione, gli aveva imposto di accettar la corona imperiale. Giuliano or lo rivede, ma mesto e col volto dimesso uscir dalla tenda e abbandonarlo. Il forte uomo non si scoraggia. Sia fatta la volontà degli dei, egli dice in cuor suo, ed esce a cielo scoperto, ed ecco una stella cadente, di singolare splendore, attraversar il cielo e svanire. All'alba egli chiama gli aruspici etruschi per chieder loro che voglia dire l'apparizione di quella stella evanescente. È un segno funesto, rispondono gli aruspici. Ogni impresa, ogni tentativo deve, per quel giorno, essere sospeso149. Ma Giuliano, che era superstizioso più per sistema che per convinzione, e che non mancava mai di interrogare gli auguri, salvo a far ciò che già prima aveva deliberato, muove l'esercito, appena è chiaro il giorno. La lunghissima schiera era già in marcia, con opportune difese sui fianchi, e Giuliano si trovava all'estrema avanguardia, quando gli si reca l'annuncio che la retroguardia è stata assalita dai Persiani. L'imperatore senza indugiare a vestirsi la corazza, afferra uno scudo, vola a portar aiuto ai suoi quando ecco apprende che anche l'avanguardia, da lui appena lasciata, è stata assalita. Ritorna indietro per rinfrancarla ed ordinarla, ed ecco anche il fianco riceve l'urto del nemico. Ma il mirabile guerriero è dovunque si addensa il pericolo, incoraggia, dispone, guida all'assalto, e riesce, ancora una volta, a porre in fuga l'esercito persiano. Giuliano, ormai certo della vittoria, si slancia all'inseguimento, ed alzando le braccia, dimentico di essere disarmato, eccita i soldati a tenergli dietro, quando un'asta, scagliata mai si seppe da chi, trapassandogli il braccio, va a conficcarsi nel petto. Egli cerca di strappare il ferro, ma cade da cavallo ed è portato nella tenda. Dopo alcuni istanti, calmatosi lo spasimo, l'eroe vuol ritornare alla battaglia, ma le forze gli mancano e ricade. Intanto la notizia del disastro, diffusasi come un lampo, nell'esercito che adorava il suo imperatore, lo infiamma d'ira e di dolore, e lo spinge alla vendetta. I Persiani sono respinti con perdite enormi, e Giuliano può morire in pace.

Chi ha scagliato contro Giuliano l'asta mortale? Il sospetto di un tradimento non è del tutto escluso. Infatti, Ammiano ci narra che, alcuni giorni dopo, trovandosi i Persiani sopra un'altura da cui potevan mandare e frecce e parole ai nemici, li insultavano verbis turpibus, chiamandoli uccisori del migliore dei principi, perchè, aggiunge lo storico, era corsa la voce che Giuliano fosse perito per arma romana — Iulianum telo cecidisse romano150. E, naturalmente, da parte degli amici dell'imperatore, nacque subito il sospetto che il colpo partisse da un cristiano. Guardiamo, infatti, ciò che narra Libanio.

La morte di Giuliano è narrata da Libanio in modo concorde con quanto sappiamo da Ammiano. Anch'egli ci dipinge l'imperatore che, nel fitto della battaglia, spinge il cavallo là dove vede maggiore l'impeto del nemico, e manda manipoli di soldati in aiuto dove appare il bisogno, e distribuisce i migliori fra i suoi duci nei punti più combattuti. La vittoria era sicura. «Ahi, esclama Libanio, o dei, o demoni, o mutamenti della fortuna, a quali ricordi io mi vedo condotto! Non è meglio che io mi taccia, e fermi il discorso alla sua parte più gradita?»151. No, continua l'oratore, è meglio che io parli, onde far cessare una notizia non vera intorno alla morte dell'imperatore. Questa notizia è che Giuliano sia stato ferito da un giavellotto persiano. Libanio crede, come or vedremo, che il colpo sia partito da uno dei suoi, ed egli ci fa intendere da un cristiano. Dunque, narra Libanio, i Persiani, stanchi e sfiduciati, stavano per ritirarsi, col proposito di mandare l'indomani a trattar della pace. Se non che, essendo nata un po' di confusione nell'esercito vincitore, perchè una parte si era spinta troppo avanti in confronto dell'altra che stava ancora sulla difesa, ed insieme oscurandosi il campo di battaglia pei nuvoli di polvere che un vento improvviso sollevava, Giuliano, seguito da un solo soldato di servizio, correva avanti per riallacciare le due parti dell'esercito che si erano slegate, quando un giavellotto lo colpisce, disarmato com'era, ed, attraversandogli il braccio, gli entra nel fianco, e gli infligge una ferita mortale. «L'eroe cadde per terra, e vedendo uscir con impeto il sangue, e pur volendo nascondere il fatto, risaliva tosto a cavallo, e siccome il sangue rivelava la ferita, gridava di non spaventarsene, che non era mortale. Così diceva, ma fu vinto dal fato crudele». Ma chi è stato il feritore? chiede Libanio. Non è stato un Persiano, perchè, sebbene grandi premi fossero promessi a chi avesse provato di aver scagliato il colpo, nessuno si presentò. «Essi, dice amaramente Libanio, ci lasciarono cercare, in mezzo a noi, l'uccisore». E qui viene l'insinuazione contro i Cristiani. «L'uccisore, continua Libanio, dobbiamo cercarlo fra coloro ai quali pesava che Giuliano vivesse — ed eran quelli che vivevano contro le leggi — che già prima lo avevano insidiato, e che ora, potendolo fare, avevano compiuto il misfatto, mossi dal loro animo perverso, il quale si sentiva impotente sotto il regno di lui, sopratutto in ciò che si riferiva alle onoranze degli dei, che essi contrastavano».

Sedici anni dopo, Libanio, nel discorso diretto all'imperatore Teodosio, appena chiamato a reggere l'Oriente, per muoverlo a vendicare Giuliano, ritorna alla carica, e, non conoscendo ancora le tendenze cristiane del nuovo imperatore, lo eccita contro i Cristiani, additandoli come i colpevoli. Egli dice che Giuliano fu ferito da un certo Tajeno — ταιηνός τις — che obbediva a un comando superiore, e che si aspettava una ricompensa da coloro a cui premeva che l'eroe morisse152, e che, in mezzo al pianto generale, ridevano di così grande sciagura. L'allusione ai Cristiani nelle parole di Libanio, è chiara ed evidente; anzi, probabilmente, in origine, non era un'allusione, ma un'affermazione esplicita, perchè quel ταιηνός τις è così singolare, e, nei codici, così oscillante da render molto probabile la supposizione che mani cristiane abbiano alterato il primitivo χριστιάνος τις. Che, del resto, Giuliano fosse stato ucciso per istigazione di coloro a cui premeva fosse abolito il culto degli dei, perchè, finchè questi erano in onore, si sentivano soffocati153, era, secondo Libanio, cosa notoria. Sulle pubbliche piazze, negli angoli delle vie, si sussurrava come era stato composto il dramma154. Ma il silenzio voluto dai successori di Giuliano aveva impedito la rivelazione della verità.

Queste accuse di Libanio non hanno nessuna sicurezza di indicazione precisa, ed hanno contro di sè il silenzio assoluto di Ammiano e di Zosimo che, non avendo alcun interesse a tacere le colpe dei Cristiani, non avrebbero esitato a farsene rivelatori, quando fossero provate. D'altra parte, nulla vieta di supporre che, nella confusione della battaglia, fra i nembi di polvere che, a quel che dicono tutti i narratori, oscuravano l'aria, l'imperatore sia stato casualmente colpito da un'asta che non era diretta a lui. Però dobbiamo anche riconoscere che non è fuori affatto d'ogni probabilità la supposizione che l'uccisore sia stato un Cristiano, militante fra i soldati imperiali. L'odio dei Cristiani contro questo imperatore che minacciava di strappar loro di mano la vittoria, già conseguita sul mondo antico, era così grande da rendere possibile qualunque eccesso. Del resto, il mondo, cristianizzato nell'apparenza, lo era così poco nella realtà che i delitti di sangue non ispiravano nessuna ripugnanza ed erano, talvolta, non solo tollerati, ma giustificati e lodati dai Cristiani stessi. Di ciò sono prova luminosa le parole dello storico ecclesiastico Sozomene, il quale scriveva circa un secolo dopo la morte di Giuliano. Egli riproduce il passo di Libanio, e poi soggiunge: «Libanio, così scrivendo, vuol farci capire che l'uccisore di Giuliano deve essere stato un cristiano. E, forse, è vero. Poichè non è improbabile che taluno di quelli che si trovavano nell'esercito abbia pensato che i Greci e gli uomini in generale hanno sempre portato al cielo gli uccisori dei tiranni, come quelli che corrono il pericolo di morire per la libertà di tutti, e così animosamente riescono di aiuto ai cittadini, ai congiunti, agli amici. Chi mai, dunque, potrebbe mover rimprovero a chi diventa intrepido pel suo dio e per la religione che gli è cara?»155. E Sozomene continua dicendo che egli pure nulla sa di sicuro, ma che non c'è dubbio che l'uccisione è avvenuta per volere divino. E narra di visioni miracolose e di predizioni che attestano chiaramente l'intervento della divinità.

La morte di Giuliano, come è descritta da Ammiano, che si trovava nell'esercito, e probabilmente ne è stato testimonio, fu degna di sì grande eroe156. Raccolti intorno a sè gli amici e i famigliari, sgomenti e in lagrime, egli rivolge loro un discorso, certo, ritoccato, da Ammiano, ma che pur riproduce i pensieri ed i sentimenti del morente imperatore. Giuliano è lieto di morire, ed accoglie, senza lamenti, il volere divino. «È venuto, egli dice, per me il momento, o amici, di separarmi dalla vita, che io, come un debitore di buona fede, esulto di restituire alla natura. Convinto di ciò che dicono i filosofi, che l'anima vale assai più del corpo, io penso che dobbiamo, non già dolerci, ma rallegrarci ogniqualvolta il meglio si secerne dal peggio. Penso, insieme, che gli dei ad alcuni uomini piissimi hanno largita la morte, come il sommo dei premi. Ed io considero come un prezioso favore di non aver dovuto soccombere ad ardue difficoltà, nè di essermi mai abbassato o prosternato, conoscendo per prova come i dolori premono gli ignavi, ma son vinti dagli impavidi. Ed io non mi pento di nessuna cosa che abbia fatto, nè mi stringe il ricordo di nessun grave delitto, sia di quei tempi in cui stava relegato nell'ombra e negli angoli, sia di quelli in cui presi in mano l'impero. Gli dei paternamente me lo largirono, ed io, credo, lo conservai immacolato, reggendo con temperanza le cose civili, e facendo guerra, solo a ragion veduta, sebbene non sempre la prosperità si accompagni alla convenienza dei consigli, perchè le potestà divine hanno in loro arbitrio gli eventi delle imprese. Persuaso che lo scopo di un giusto impero sia la felicità e la salute dei sudditi, fui sempre propenso, come sapete, ad una condotta equanime, e, coi miei atti, ho sterminata la licenza, corruttrice dei costumi e delle cose. Lieto ed intrepido, dovunque la repubblica, come madre imperiosa, mi gittava, io stetti fermo, avvezzo a calpestare il turbine del caso. Io venero il sempiterno nume che mi fa morire non già per clandestine insidie, o pel tedio di lunga malattia, o per condanna altrui, ma mi concede questa splendida dipartita dal mondo, nel pieno corso di fiorenti glorie». E qui gli mancano le forze, e finisce augurando la scelta felice di chi gli deve succedere. Poi placidamente distribuisce ai suoi più fidi le cose sue, si addolora di saper morto in battaglia l'amico Anatolio, amorevolmente rimprovera i piangenti che lo circondano, ed, imposto loro il silenzio, si intrattiene con Massimo e con Prisco della natura sublime dell'anima, e tranquillamente spira. Libanio che descrive, lui pure, la morte eroica di Giuliano, esclama: «La scena era simile a quella della prigione di Socrate. I presenti parevano i discepoli che avevano circondato Socrate. La ferita sostituiva il veleno, eguali le parole, eguale l'impassibilità di Socrate e quella di Giuliano»157.

In questa morte, mirabile per ogni rispetto, che è la rivelazione di uno spirito nobilissimo e puro, una cosa è particolarmente a notarsi, il silenzio assoluto su di ciò che aveva pur formato la preoccupazione maggiore di Giuliano, la questione religiosa. Ed è veramente singolare ch'egli non abbia tentato di opporsi alla probabile eventualità che a succedergli fosse chiamato un imperatore cristiano, e che, pertanto, tutti i suoi sforzi di restaurazione dovessero restare senz'effetto alcuno. Ma probabilmente Giuliano, quando moriva, aveva perduto ogni illusione nell'efficacia del suo tentativo. Finchè egli era vissuto nella semibarbara Gallia, ed aveva tenuto chiuso nel suo petto il segreto della sua fede, Giuliano poteva illudersi sulle tendenze dominanti nel mondo greco. Ma, il giorno in cui, diventato imperatore, potè solennemente inaugurare la restaurazione da lui tanto desiderata, segnò il principio del suo disinganno. Egli era troppo acuto per non accorgersi che il mondo non era con lui. In quell'amara satira che è il Misobarba, c'è il dolore di un sogno svanito. E, forse, l'avventatezza eroica con cui si è gittato nella folle spedizione persiana, e la voluttà con cui ha cercata la morte, sono l'espressione disperata del rammarico senza conforto di vedere del tutto fallito lo scopo essenziale della sua vita e del suo regno.

Una leggenda formatasi molto tempo dopo la morte di Giuliano, e raccolta da Teodoreto, uno scrittore della metà del secolo quinto, narra che Giuliano, sentendosi ferito a morte, gridasse: — O Galileo, vincesti! — Νενίκηκας, Γαλιλαιε. — Nessuno dei contemporanei di Giuliano conosce questo grido di dolore che sarebbe uscito dal petto dell'apostata caduto nel duello terribile da lui tentato col Cristo. Il fatto solo di non trovarlo in Gregorio, il quale, da quel grande oratore e polemista ch'egli era, non avrebbe mancato di tessergli intorno un ricamo di periodi eloquenti e sonori, basterebbe a provare l'origine leggendaria e relativamente tardiva della notizia. D'altra parte, il racconto di Ammiano, il quale assisteva alla morte di Giuliano, e la descrizione di Libanio ci dimostrano come Giuliano, nella sua ultima ora, non avesse altra preoccupazione fuorchè quella di morire da filosofo, sereno e lontano da ogni pensiero di cure terrestri. Il grido disperato che gli si pose in bocca sarebbe stata una stonatura nella calma solenne della scena socratica di cui Giuliano ha voluto circondare il suo giaciglio di morte. Ma, se quel grido non è stato pronunciato, deve essere stato pensato dal ferito imperatore. Nessuna illusione poteva ormai restargli. La causa da lui difesa era, per sempre, atterrata. Egli stesso, nella pienezza della sua potenza e della sua energia, non era riuscito ad aver ragione del Cristianesimo trionfante. Lui spento, nessun ritegno sarebbe stato possibile alla catastrofe precipitante della antica civiltà. Ultimo eroe dell'Ellenismo, ne aveva rialzata la bandiera e, per alcuni istanti, l'aveva di nuovo sventolata. Ma quella bandiera ricadeva con lui, e ricadeva per sempre. — Vincesti, o Galileo!

Ma come può spiegarsi e giustificarsi il tentativo di Giuliano? Prima di rispondere a questa domanda, bisogna investigare cosa fosse diventato il Cristianesimo, quando fu ufficialmente riconosciuto, e quali fossero le forze morali ed intellettuali che gli si contrapponevano. Forse, allora, riusciremo a comprendere come un uomo, il quale ha portato sul trono imperiale un tesoro di virtù e d'intelligenza, abbia potuto credere che l'abbattere il Cristianesimo e il risollevare l'Ellenismo fosse un'impresa doverosa e degna di lui. Il valore dell'uomo è l'elemento che rende estremamente interessante lo strano episodio di cui egli è stato l'eroe.

LA DISCORDIA NEL CRISTIANESIMO

La Chiesa, negli anni precedenti la sua vittoria finale, si era profondamente trasformata per effetto della lenta elaborazione de' suoi elementi, avvenuta fra le intermittenti persecuzioni del secondo e del terzo secolo, ed aveva colmato l'abisso che la separava dal mondo. Nella morale, era discesa dalle pure altezze del Vangelo e del Cristianesimo primitivo e si era avvicinata allo stoicismo; nella filosofia, aveva costrutto un grande edificio teologico, adoperandovi i materiali del platonismo; nel culto, aveva plasmato le sue cerimonie su quelle dei Misteri. Infine, era riuscita ad organizzare un Cristianesimo pratico ed accettabile dal mondo. Una parte considerevole del suo patrimonio intellettuale era di origine estranea. Ma essa aveva saputo così intimamente collegarlo con ciò che aveva di essenzialmente proprio e speciale, da assicurare la continuità del suo progressivo svolgimento, pur conservandosi rigorosamente distinta dall'ecclettico Paganesimo.

Il Paganesimo, perduto il senso dell'origine naturalistica dei suoi miti, tendeva, anch'esso, col Neoplatonismo all'affermazione dell'unità divina. Ma tale tendenza non poteva esser soddisfatta che dal Cristianesimo, il cui monoteismo aveva un'efficacia di attrazione assai maggiore del monoteismo simbolico del Paganesimo, e poteva esser accolto e compreso anche dagli umili. Certo, il Paganesimo neoplatonico aveva, lui pure, l'ideale del ritorno al divino, il sentimento della immediata vicinanza di Dio, ma gli mancava la possibilità di determinare quell'ideale, di dar vita a quel sentimento, nella persona di una apparizione storica, che ne fosse insieme la garanzia e la più pura rappresentazione. Pertanto, lo svolgimento del pensiero religioso nel mondo antico, durante il secondo ed il terzo secolo, ha, certamente, servito a prolungare l'agonia del Paganesimo, ma doveva condurlo a morire, o presto o tardi, nelle braccia del Cristianesimo, perchè riconosceva e promoveva delle aspirazioni che dal Cristianesimo erano acquetate assai meglio che da lui. Si aggiunga che il Cristianesimo aveva saputo creare una forte organizzazione disciplinare, mentre il Paganesimo aveva una compagine molle, in cui i diversi culti non erano determinati da nessuna rigorosa disciplina. Il Paganesimo era una vera anarchia religiosa. Nel Cristianesimo, invece, ogni comunità costituiva uno speciale organismo che obbediva al suo Vescovo, e tutte insieme costituivano un complesso di forze che diventava facilmente l'espressione e lo strumento di un'unica volontà. Certo, non erano mancate le divisioni, le discordie, gli scismi nella giovane Chiesa, ma non erano che accidenti passaggeri, i quali non intaccavano la solidità sostanziale dell'organizzazione ecclesiastica, ed erano destinati a sparire quando una forte volontà indicasse la via del ritorno all'unità.

Questa forte volontà apparve, la prima volta, al principio del secolo quarto, nell'imperatore Costantino e nel grande Atanasio, e riapparve definitivamente efficace, al finire del secolo stesso, nell'imperatore Teodosio e nel vescovo Ambrogio.

Diamo ora una rapidissima occhiata a questo secolo di lotte, nel cui mezzo viene a cadere il curioso tentativo di Giuliano. Non è a credere che nella condotta di Costantino verso il Cristianesimo, condotta che, iniziatasi col famoso editto di tolleranza, datato da Milano, nel 313, ed emanato da lui e dal collega Licinio, riuscì poi, a poco a poco, alla costituzione di una Chiesa di Stato, fosse neppur l'ombra del sentimento religioso. Certo, era una fiaba quella che correva, fra i pagani, molti anni dopo la morte di Costantino, cioè, che costui si fosse piegato al Cristianesimo, perchè assicurato che la nuova religione aveva il potere di lavar via ogni colpa, così che anche gli uomini più scellerati, se si convertivano ad esso, diventavano immediatamente puri158. E Costantino doveva purgarsi dei più orrendi delitti domestici, l'uccisione del figlio Crispo e della moglie Fausta. Sozomene osserva giustamente che quegli atroci delitti furono perpetrati da Costantino, alcuni anni dopo aver abbracciato il Cristianesimo, e, pertanto, non è possibile vedere in essi il movente dell'atteggiamento preso da Costantino verso la religione fino allora perseguitata159. Curiosa e sintomatica cosa che nè Sozomene nè altri degli scrittori ecclesiastici trovi in tale circostanza una ragione per dubitare della serietà morale della conversione di Costantino. Era costui un abile politico, che non conosceva scrupoli. Sorto sulle rovine di tutti i suoi colleghi e rivali, testimonio della completa inefficacia della persecuzione di Diocleziano, egli vide nella Chiesa uno strumento che, ben organizzato, sarebbe, nelle sue mani, riuscito prezioso. Comprese l'esaurimento del Paganesimo e la forza crescente del Cristianesimo e volle usarne a proprio vantaggio. «Ha compreso che a lui riuscirebbe utile il credere in un altro dio»160 così spiega Libanio la conversione di Costantino. E, certo, il retore qui colpisce nel vero.

Costantino, dunque, si accinse ad ordinare economicamente e dogmaticamente la Chiesa, in modo da esserne sempre il padrone. Uomo, per eccellenza, appassionato e violento, non poteva, in nessun modo, partecipare all'idealità cristiana. Voleva che il Cristianesimo rappresentasse, nell'impero da lui ricostituito, quel medesimo ufficio che, nello Stato antico, era rappresentato dal Paganesimo che si spegneva, fosse, cioè, un'arma ed una sanzione per l'autorità del sovrano. Per riuscire a tale risultato era necessario che la Chiesa non fosse dilaniata dalle discordie interne, e si organizzasse in una perfetta unità di dottrina e di disciplina. — A nulla ti gioverà l'impero — diceva Costantino morente al figlio Costanzo — se non otterai che Dio sia da tutti adorato in modo concorde —161. In ventiquattro anni Costantino aveva percorsa una lunga strada. L'editto di Milano affermava l'assoluta libertà dei culti sulla base di una fede deista, comune a tutte le religioni. Ma l'opportunismo politico trasformò ben presto il filosofo liberale in un dogmatico intransigente. Se non che, non era agevole ottenere l'unità di dottrina, perchè il Cristianesimo, cresciuto di forza, aveva germogliato in una vegetazione di scismi e di eresie che ne soffocavano il tronco. Onde impedire che il male diventasse irreparabile, e per crearsi quello strumento di cui aveva bisogno, Costantino ebbe l'idea di dare ai Parlamenti ecclesiastici, che già si riunivano per discutere i punti controversi, l'autorità di istituzioni di Stato, le cui deliberazioni avessero forza di legge. L'istituzione dei Sinodi o Concili imperiali fu un tratto geniale della politica di Costantino, che ebbe un'immensa importanza nella vita e nello svolgimento della Chiesa.

La gran lotta che Costantino trovò fervente nel Cristianesimo era quella che si combatteva intorno all'eresia ariana, in cui era propriamente compromesso il principio fondamentale della teologia cristiana. La suprema difficoltà contro la quale veniva ad urtare il pensiero cristiano, nel momento in cui, ellenizzandosi, da una religione di sentimento si trasformava in una religione dottrinaria e metafisica, era quella di conservare il monoteismo, data, nel Cristo, l'esistenza di una seconda persona divina. L'idea della personalità divina del Cristo aveva ricevuta la sua sanzione definitiva il giorno in cui si fusero insieme i due concetti del Cristo e del logos. Nelle genuine tradizioni ebraiche, il Cristo od il Messia era un personaggio umano che doveva ridare ad Israele la potenza e la prosperità, mentre, nel pensiero ebraico, che si era, dirò così, platonizzato al contatto della filosofia greca, avvenuto in Alessandria, il logos, il Verbo, era il principio razionale con cui Dio aveva creato il mondo e vi si manifestava. Pertanto, se il Messia doveva rivelarsi in una apparizione umana, ciò non si poteva pensare del logos, il quale, nella filosofia greco-ebraica, non era che il simbolo di un'idea, di una forza ontologica ed astratta. Nessun pensatore ebraico avrebbe mai osato fare di questo simbolo un personaggio divino, staccato da Dio. Ora, questo passaggio dal simbolo alla persona si verificò nel momento in cui l'attribuito di logos fu dato al personaggio storico di Gesù, che era già stato rivestito del carattere di Messia. Per tal modo, la figura di Gesù, raccogliendo in sè l'ufficio messianico e la personificazione del logos, si poneva come intermediaria fra Dio e l'uomo, con un contorno non ben definito, in cui l'umano e il divino si confondevano, come il bianco ed il nero nel papiro che brucia, giusta la similitudine dantesca. Quella figura dava una mano ad Israele e l'altra all'Ellade e, quanto più si avvicinava a questa, quanto più si intensificava in essa il carattere di divinità distinta, e tanto maggiore diventava il pericolo a cui il monoteismo si trovava esposto.

Le eresie gnostiche tendevano a spingere il Cristianesimo in questa direzione, in fondo alla quale esso avrebbe ritrovato il Politeismo. Ma il movimento fu trattenuto dall'azione prudente ed efficace dei primi scrittori sistematici della Chiesa, dagli apologeti, i quali, preoccupati sopratutto dell'azione redentrice compiuta dal Cristo, tarpavano le ali della fantasia metafisica e, nell'intensa contemplazione del problema morale, chiudevano gli occhi al problema filosofico. Ma questo si presentò, in tutta la sua grandezza, nella seconda metà del secolo terzo, quando il Cristianesimo alessandrino, con Clemente e sopratutto con Origene, si slanciò, a vele spiegate, nel gran mare della speculazione ellenica. Sarebbe difficile trovare un esempio di altro pensatore che, al pari di Origene, abbia esercitata tanta influenza sulla dottrina che si è svolta dopo di lui. Per tale rispetto, egli è davvero paragonabile a Platone. Si può dire che, per più di due secoli, la teologia scientifica non ha fatto che aggirarsi intorno alle tesi da lui poste. La sua dottrina, pur modificata e temperata, formò il substrato su cui si è poi innalzato l'immane edificio della dogmatica cristiana. Quella sua dottrina, eminentemente platonica, non è che un'allegoria ideale e spiritualista, la quale affievolisce ed altera essenzialmente il contenuto storico del Cristianesimo genuino. Per Origene, come, prima di lui, per Clemente, e come, dopo di lui, per la filosofia neoplatonica, il leitmotiv è quello del logos, del verbo cosmogonico, cioè, del logos concepito come potenza generatrice del mondo. Origene distingue il mondo delle sensazioni162 e il mondo delle idee163. Il logos è l'idea delle idee, l'origine dei fenomeni, lo strumento di creazione. Ma questo strumento fu da Dio creato, in un dato punto del tempo, e gli è subordinato. L'identità del logos con Dio non solo non è voluta, ma è esclusa nel sistema d'Origene, perchè, in esso, l'esistenza del logos non è che il primo grado del processo cosmologico, non è che il primo effetto il quale diventa, a sua volta, la causa degli effetti susseguenti. Ed è nella conoscenza sempre più profonda e chiara di quel processo che sta per Origene la redenzione dell'uomo. Ad Origene si applica egregiamente il giudizio che di lui faceva il neoplatonico Porfirio, dicendo che «sebbene vivesse da cristiano, ellenizzava nella scienza delle cose e della divinità, e vestiva di miti stranieri la dottrina dei Greci»164.

L'importanza e lo sviluppo potente che aveva preso la dottrina del logos, inteso come un'essenza divina, generato da Dio, ma da lui divisa ed a lui subordinata, faceva rinverdire, sotto forma più scientifica e più misurata, le tendenze gnostiche delle più antiche eresie, e conduceva di nuovo il Cristianesimo sull'orlo del Politeismo. Contro questa dottrina sorse, o almeno si determinò meglio, una dottrina radicalmente diversa, che ebbe il nome di monarchianismo, la quale, pur conservando viva l'azione redentrice del Cristo, teneva ferma la fede nell'assoluta unità personale di Dio, e, pertanto, era avversa ad ogni speculazione che potesse condurre ad una duplice o trina divinità. Il monarchianismo si divide in due scuole, il monarchianismo dinamico ed il monarchianismo modalistico, la prima delle quali affermava l'umanità essenziale di Gesù, affermando insieme che in lui era stata viva l'ispirazione diretta, la forza dinamica di Dio; la seconda credeva nella incarnazione del Padre stesso e considerava il Cristo, apparso sulla terra, come un modo, come una rivelazione del Dio supremo ed unico, il quale non si era scisso, nè aveva prodotta od emanata nessuna divinità secondaria, ma si presentava nella sua inalterabile unità. Il monarchianismo dinamico aveva avuto, nella seconda metà del secolo terzo, per suo rappresentante un uomo geniale. Paolo di Samosata, vescovo d'Antiochia, il quale potè affrontare gli avversari, che lo accusavano di eresia e di abitudini mondane165, finchè ebbe la protezione di Zenobia, regina di Palmira, nel cui nome governava Antiochia. Ma, vinta Zenobia da Aureliano, caduta Antiochia, nel 272, in potere dei Romani, il vescovo battagliero dovette cedere il posto ai suoi rivali, e la sua dottrina venne, in apparenza, soffocata. Ma essa rimase come un germe latente che poi si è svolto ed ha fruttificato nell'Arianesimo.

Il monarchianismo modalista era una dottrina antica che già si era affermata, in Roma, nella prima metà del secolo terzo. Preoccupata del pericolo inerente nel concetto di una personalità divina, la quale, nel logos-Cristo, si affermava staccata dal Dio supremo, quella dottrina tendeva a ricomporre l'unità assoluta, confondendo insieme il Padre col Figlio, e facendo del Figlio null'altro che una personificazione, una ipostasi del Padre. Questa dottrina che veniva a ferire le idee, pur metafisicamente assai modeste, dominanti nel Cristianesimo occidentale, trovò appoggio nei vescovi di Roma, Zefirino e Callisto. Da qui una lotta, di cui gli eroi antimonarchiani furono, in Roma, Ippolito, in Africa, Tertulliano. Numerosi, d'altra parte, i combattenti per l'unità assoluta di Dio, conosciuti anche sotto il nome di patripassiani, per indicare che, nelle sofferenze del Cristo, essi vedevano le sofferenze del Padre. Ultimo e più importante, fra tutti costoro, fu Sabellio, dal quale il monarchianismo prese, come setta eretica, il nome definitivo di Sabellianismo. Sabellio agitava il vessillo del rigoroso monoteismo. Il Padre, il Figlio, lo spirito erano una sola essenza, non erano che tre nomi applicati ad un essere solo. Posto fra Ippolito e Sabellio, il vescovo Callisto, sebbene inclinasse ai monarchiani, trovò una formola di conciliazione che non accontentò i partiti rivali, ma che, terribilmente oscura e tutta composta di frasi contradditorie, pose il mistero e l'incomprensibile come elementi essenziali della teologia, ed aperse la strada alla dogmatica della futura ortodossia.

Infatti, l'uscita dalle difficoltà in cui si dibatteva, in sul nascere, la teologia cristiana non poteva trovarsi che nell'unione forzata del monarchianismo, il quale, affermando l'unità di Dio, era il cardine della nuova fede, coll'origenismo il quale, con le sue molteplici personalità divine, rispondeva alle esigenze metafisiche della mente greca. Le grandi lotte del terzo e del quarto secolo furono appunto il crogiuolo da cui è sgorgata la corrente di una dottrina, composta dalla fusione di due metalli essenzialmente eterogenei e forzatamente uniti. Il duello fra l'eresia ariana e l'ortodossia nicena fu l'ultimo atto di questo gran dramma teologico in cui la società antica, nell'agonia dell'impero, ha esaurite le sue forze, e da cui doveva venire la legge che ha dominato, fino al secolo nostro, sul pensiero dell'umanità.

L'Arianesimo, il quale può dirsi la continuazione del monarchianismo di Paolo di Samosata, ebbe la sua radice nella scuola di Luciano d'Antiochia. Costui, discepolo ed amico di Paolo di Samosata, tenne, nei primi anni del secolo quarto, un posto eminente nel Cristianesimo orientale. E la fama e l'autorità del suo nome crebbero ancora dopo la sua morte, avvenuta nel 312, per essere egli stato una delle ultime vittime delle persecuzioni imperiali. Condotto da Antiochia a Nicomedia, egli pronunciò, davanti all'imperatore Massimino, un'orazione in difesa della sua fede, e poi eroicamente moriva. Quest'uomo eccellente in ogni cosa, e pieno di dottrina sacra, come dice Eusebio166, ebbe presso di sè tutti i futuri eroi dell'Arianesimo, lo stesso Ario fra i primi, e non è improbabile che la memoria del martire che li aveva istruiti, ed aveva dato loro sì mirabile esempio, abbia infiammata la loro passione per la causa da essi sostenuta. Però Luciano mescolava molt'acqua metafisica al vino razionalista di Paolo di Samosata. Per lui il logos-Cristo, se non era un dio umanizzato, non era nemmeno un uomo divinizzato; era un essere intermedio, la prima creatura, creata da Dio, dal nulla e nel tempo, coll'ufficio di promuovere il resto della creazione, di rivelare agli uomini il Padre celeste, di offrir loro, con la vita e con la morte, un esempio di perfezione assoluta.

Tali le correnti, dal cui urto doveva sprigionarsi la scintilla incendiatrice; da una parte i lucianisti, i quali, pur riconoscendo la posizione speciale del Cristo, non ne ammettevano la divinità sostanziale; contro ad essi gli origenisti che ne ammettevano la divinità, ma ne affermavano, insieme, la subordinazione; contro ambedue queste schiere una terza, i sabelliani, che vedevano nel Cristo la persona del Padre. Questi tre partiti, chi per un verso chi per l'altro, rappresentavano, nel Cristianesimo, la tendenza razionale. Ma v'era un quarto partito, ed a questo era riserbato l'avvenire, il partito di quelli che volevano la distinzione delle persone divine, ma non volevano la subordinazione dell'una all'altra, e le riconfondevano nell'unità dell'essenza. Questi ponevano il mistero. Ma, appunto perchè sollevavano l'anima umana al di sopra delle contingenze razionali, avevano una forza d'attrazione che loro assicurava la vittoria finale.

Chi fece scattar la scintilla, che ha poi messo fuoco a tutto il mondo cristiano, ed ha avvolto, per più di un secolo, l'umanità in un terribile incendio di passione teologica, fu un uomo singolare e interessante, il presbitero Ario. Devoto discepolo ed ammiratore di Luciano, fervido d'ingegno e d'energia, scrittore, poeta, dialettico acuto, affascinatore potente, pieno di combattività coraggiosa, il giovane lucianista da Antiochia era venuto ad Alessandria, dove era stato eletto presbitero dal vescovo Alessandro. Per qualche tempo vescovo e presbitero procedettero di pieno accordo, ma il fuoco covava sotto la cenere, poichè ad Ario, imbevuto com'era della dottrina di Luciano, non poteva garbare la tendenza teologica d'Alessandro che a lui pareva inclinasse al sabellianismo. Un giorno, narra Socrate, Alessandro, alla presenza di tutti i presbiteri e di tutto il clero, tenne un gran discorso, teologizzando, per far pompa di dottrina, intorno alla Trinità, ed insegnando che nella Trinità esiste l'unità167. Parve ad Ario di aver ormai l'occasione di insorgere contro il vescovo. Egli lo accusò acerbamente di sabellianismo. «Se il padre, egli disse, generò il figlio, il generato ebbe un principio di esistenza. Da ciò è manifesto che vi fu un tempo in cui il figlio non era. E ne viene di necessità che deve aver avuto la sua esistenza dal nulla». Intorno a queste proposizioni, in cui sta tutto l'Arianesimo, che facilmente venivano accettate per la loro chiarezza, divampò l'incendio teologico. Ma Alessandro tenne testa al pericolo. Egli aveva al fianco un altro giovane presbitero, Atanasio, che, forte d'animo, largo di mente, era, per Ario, un rivale di cui non poteva aver ragione. E, forse, in fondo a questa grande guerra teologica che si combatteva intorno all'essenza stessa del Cristianesimo, altro non era che la rivalità e l'antipatia reciproca di due giovani dominatori ed insofferenti, i quali non potevano convivere nel medesimo nido.

Alessandro, pertanto, riuniva un concilio dal quale solennemente faceva destituire Ario e i suoi fautori, e mandava a tutti i vescovi della cristianità «agli amati ed onorandi colleghi della Chiesa cattolica, dovunque si trovino»168 una lunga circolare in cui insisteva sugli errori d'Ario e ne giustificava la condanna. Ma Alessandro commise l'imprudenza, forse voluta, di nominare, nella sua circolare, Eusebio, vescovo di Nicomedia, come uno degli eretici pericolosi. Ora Eusebio, lontanamente imparentato con la famiglia Costantiniana, era un uomo potentissimo, che non si poteva acquietare ai rimbrotti di Alessandro169. Irritato egli prese apertamente le parti d'Ario e, raccolto il parere di altri vescovi concordi con lui, impose al collega di cassare la sentenza che condannava Ario.

In mezzo alla discordia che infiammava tutto l'Oriente, ecco appare Costantino col suo Quos ego. Proprio al momento in cui sperava di aver acquistato uno strumento prezioso, lo strumento gli si spezza in mano. Padrone solo ed assoluto del mondo, egli credette che la sua parola avrebbe sedata l'ira, e, da Nicomedia, scrive ad Alessandro e ad Ario una lettera che è un modello di ragionevolezza e di senso pratico, per indurli a porsi d'accordo ed a metter fine ad una lotta teologica che portava il discredito nel Cristianesimo, e lo rendeva oggetto di scherno agli increduli170. Ma le passioni erano ormai troppo accese. Atanasio ed Ario soffiavano nel foco, ed il Quos ego dell'imperatore non valse ad acquetare l'atmosfera.

Quali fossero i punti essenziali della dottrina di Ario, lo sappiamo da lui stesso che l'aveva esposta in un trattato, scritto in parte in versi, da lui intitolato Thalia, e di cui rimangono alcuni brani nella confutazione che ne fece Atanasio. Ario si dice perseguitato per essersi opposto all'affermazione che il figlio sia eguale al padre e che da lui emani, che vi sia unità di sostanza fra il generato ed il generante, e che l'uno e l'altro abbiano coesistito, fuori d'ogni principio e fuori del tempo. Dio solo, che è diventato Padre per la produzione del Figlio, non è generato, avendo l'essere in sè stesso. Inesprimibile nella sua essenza, non ha eguali. L'uomo non può che determinarlo negativamente, dicendo che non è generato, che non ha un principio sopra o prima di sè. Il Figlio cade, pertanto, al di fuori dell'essenza divina. L'indicazione del figlio come logos, verbo, saggezza di Dio, è per Ario impropria, perchè il logos, saggezza e ragione di Dio, non è che una facoltà inerente alla sua essenza. Ario così combatteva la tendenza della teologia origenica a porre, col mezzo del logos, una seconda e pur sempre divina ipostasi, e rendeva impossibile ogni evoluzione del concetto di Dio. Il Figlio non appartiene alla sostanza del Padre. È la creatura creata dalla volontà di Dio dal nulla — εξ οὺκ ὄντων — per procedere alla creazione del mondo. Non è vero dio — αληθινός θεός. — La dignità divina, che Ario gli riconosce, gli viene dal dono di Dio, gli viene dalla divinizzazione, conseguente alla partecipazione della sapienza e del logos di Dio.

Contro la dottrina di Ario, il vescovo Alessandro certamente sotto la dettatura di Atanasio, sosteneva l'inseparabile unità del Padre e del Figlio. Il Figlio, il logos, sta nel seno del Padre e, come creatore di tutte le cose, non può esser creato dal nulla. Per la sua eterna essenza egli è in perfetta opposizione col creato, e, per tale rispetto, non vi può esser differenza fra Padre e Figlio. E non può essere diversamente, perchè il Padre fu sempre eguale a sè stesso, ed ebbe sempre in sè il suo logos, la sua sapienza, il suo Figlio. Questi è Figlio non già per una posizione, per una θέσει, dall'interno all'esterno, ma per la natura stessa della divinità paterna. Padre e Figlio sono un'unità assoluta. Il rapporto misterioso pel quale il Figlio, per una parte si distingue dal padre, per l'altra è uno con lui per l'eternità e per l'essenza, è espresso dalla generazione del Figlio dal Padre, che indica una derivazione dell'uno dall'altro, ma una derivazione che è fuori d'ogni concetto di tempo. È, del resto, un rapporto inesplicabile all'uomo.

Data la premessa di voler esprimere l'inesprimibile, è certo che queste formole alessandrino-atanasiane, in cui si risente il soffio dell'origenismo platonico, hanno un valore metafisico assai più alto delle formole ariane, le quali, col loro apparente razionalismo, non danno ragione di nulla. Non vi può essere una teologia razionale. Ogni pretesa di fondare la teologia sulla ragione conduce ad un disastro inevitabile. La teologia diventa tanto più accettabile quanto più si allontana dalla ragione per avvolgersi nel mistero. Se gli Ariani fossero risolutamente usciti dal pensiero metafisico per ricollocarsi nella semplicità del Vangelo, essi avrebbero avuta un'aspirazione veramente originale. Ma dal momento che essi conservavano la teologia metafisica coi suoi misteri, solo volevano somministrarla a dosi più tenui, e tali da parer tollerabili alla mente umana, essi erano predestinati ad essere sconfitti dai loro rivali i quali, intensificando le formole dell'incomprensibile e del mistero, inebbriavano l'uomo e lo sollevavano in un aere in cui aveva come la visione, il presentimento del sovrannaturale, quella visione e quel presentimento di cui le pagine ispirate di un S. Agostino furono poi l'eloquente manifestazione.

Costantino, visto vano ogni tentativo di far posare gli animi con le sue esortazioni personali, consigliato da Osio, vescovo di Cordova, che gli stava al fianco, ed era il suo ministro per gli affari teologici, prese nel 325 il partito di raccogliere, a Nicea, un grande Concilio, coll'incarico di stabilire la formola definitiva della fede, nell'intenzione di dare alla deliberazione del Concilio l'autorità e la forza della volontà imperiale, e di imporre, per tal modo, la concordia, che, con la persuasione, non riusciva ad ottenere.

Il Concilio di Nicea fu un'assemblea obbediente al volere di Costantino, e compose una formola la quale doveva essere accettata da tutti i partiti. Ma la cosa non andò sulle prime senza molte difficoltà ed aspre lotte. Gli Ariani, guidati da Eusebio di Nicomedia, il futuro istitutore di Giuliano, presentarono la loro formola lucianistica. Ma la maggioranza di trecento vescovi la respinse. Allora i semiariani, gli origenisti si fecero avanti con una nuova formola, proposta da Eusebio di Cesarea, la quale, prestandosi all'equivoco ed evitando ogni troppo precisa determinazione, avrebbe potuto accontentar tutti. Ma il partito che poi, più tardi, doveva rappresentare l'ortodossia, non si lasciò guadagnare, ed istigato da Osio, il consigliere intimo di Costantino, che fu l'anima di tutte le combinazioni che avvenivano nel retroscena del Concilio, propose una terza formola, o meglio una correzione della formola eusebiana, e vi incluse la famosa parola ομοούσιος, consostanziale, la quale esprime l'assoluta identità ed unità di sostanza del Padre e del Figlio171. Malgrado che questa parola sollevasse gravi opposizioni e perchè nuova, inusata affatto nel vocabolario teologico, e perchè pareva fortemente intinta di monarchianismo sabelliano, e quindi destinata a far scomparire la personalità del Cristo, pure le opposizioni, per quanto ragionevoli, cedettero davanti alla volontà di Costantino. Nel diffondere e nell'imporre la deliberazione del Concilio, Costantino mise uno zelo, un'energia, un ardore oratorio ed epistolare che dimostra come egli vedesse, nell'acquetamento delle ire teologiche, un supremo affare di Stato. Ed egli volle dare al Concilio la sanzione del suo intervento personale e di pompe fastose e perfino di banchetti che ne accrescessero il lustro e l'importanza davanti al popolo172. L'imperatore s'illudeva di aver stabilita la pace della Chiesa e creato quello strumento di governo di cui sentiva il bisogno.

Ma l'illusione svanì presto. La formola nicena diventò un nuovo tizzone di discordia. L'Oriente ecclesiastico era già troppo essenzialmente ariano ed origenista, perchè potesse ingoiare, senza resistenza, il duro boccone che l'imperatore gli presentava. Costantino sentì di non poter tenere la posizione, e, sebbene persistesse a fare ed a ricevere dichiarazioni di ortodossia, cominciò a cambiar sistema coi più illustri anatemizzati dal Concilio di Nicea, e riammise nel suo favore Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea173. E, poco dopo, circuito da reti pretesche e femminili, finì per permettere allo stesso Ario il ritorno in Alessandria174. Ma, Costantino non aveva pensato che, ad Alessandria, era diventato vescovo Atanasio, ed Atanasio non era uomo da piegarsi ai voleri suoi, e da accondiscendere ad una riconciliazione coll'aborrito rivale. Dall'incontro dei due uomini venne infatti un rinfocolamento d'ire, di dispute, di accuse reciproche, fra cui Costantino ondeggiava, pur inclinando sempre più dalla parte d'Ario e d'Eusebio. E, forse, sarebbe avvenuto un completo rivolgimento della posizione, se la morte improvvisa e misteriosa d'Ario175 non avesse privato il suo partito del massimo sostegno, e impressionato fortemente l'animo di Costantino. Questi moriva l'anno seguente, lasciando la Chiesa assai più divisa di quanto lo fosse prima del Concilio di Nicea, e lacerata da ire e da passioni tanto feroci da togliere ogni fascino al Cristianesimo, agli occhi di un osservatore disinteressato176. La divina e semplice religione del Vangelo era diventata un campo di dispute furiose, e molte volte sanguinose, intorno a vuote sottigliezze metafisiche.

Costanzo, successo al padre nell'impero d'Oriente, sentì che la forza maggiore era dalla parte degli Ariani, ed, essendo assai più libero di suo padre, perchè non compromesso, come lui, nella deliberazione di Nicea, non esitò di seguire i consigli di Eusebio, da lui chiamato, da Nicomedia, alla sede di Costantinopoli, ed esigliò Atanasio da Alessandria. Ma la teologia degli imperatori era dominata dalle necessità politiche. Ora, mentre Costanzo, in Oriente, prendeva in mano la causa dell'Arianesimo, Costante, l'altro figlio di Costantino, teneva alta, in Occidente, la bandiera dell'ortodossia, ed era tanto infervorato da minacciare la guerra al fratello, se non richiamasse Atanasio, che si era rivolto a lui177. E Costanzo, per non aggiungere alle difficoltà che lo amareggiavano nella campagna contro il re di Persia le difficoltà interne di una lotta teologica col fratello, temperò la foga del suo Arianesimo, ripose Atanasio, nel 346, nella sede di Alessandria, e con ripetute e cortesi lettere lo fece venire alla sua presenza, sebbene l'acuto uomo non avesse molta fede nella sincerità dell'imperatore178.

Gli avvenimenti mostrarono quanto fossero fondati i sospetti di Atanasio. Infatti, ucciso Costante dal ribelle Magnenzio, il fratello Costanzo, diventato solo imperatore, senza ostacoli e senza paure, riprese la primitiva sua politica ecclesiastica, e tosto scacciava Atanasio da Alessandria, dove era appena rientrato, ed anzi lo avrebbe anche ucciso, se il vescovo, avvertito del pericolo, non si fosse salvato, fuggendo a tempo dalla città. Ma Costanzo non si fermò nella sua persecuzione. Raccolto nel 355, in Milano, un Concilio solenne, volle che pronunciasse una sentenza di condanna, per la quale Atanasio più non potesse ritornare in Alessandria. Contro tale sentenza insorsero coraggiosamente tre vescovi occidentali, Paolino di Treviri, Dionisio d'Alba ed Eusebio di Vercelli. E il concilio di Milano si sciolse, dopo aver fornito ancora maggior esca all'incendio che già spaventosamente divampava.

Se non che i vincitori di Atanasio non si conservarono uniti, e la discordia si accese ben presto nel loro campo. Gli Ariani puri, guidati da Aezio, un irrequieto ed audace personaggio che avremo più tardi occasione di meglio conoscere, non si accontentavano di affermare la personalità distinta del Padre e del Figlio, ma volevano il Figlio dissimile dal Padre per la sostanza. Gli Ariani origenisti, i semiariani, come si chiamavano, dei quali era anima Basilio d'Ancira, pur tenendo distinte sostanzialmente le due persone, affermavano l'eguaglianza delle due sostanze. Fra questi semiariani e gli atanasiani ferveva la lotta intorno ad un i. Infatti mentre gli atanasiani volevano che il Figlio fosse ομοούσιος col Padre, cioè, ne avesse la stessa sostanza, i semiariani, interponendo un i, dicevano che il Figlio era ομοιούσιος, cioè, aveva una sostanza distinta ma simile a quella del Padre. Questi Ariani moderati inclinavano evidentemente a trovare una transazione con gli Atanasiani. Quel famoso i che essi introducevano nell'epiteto, inventato a Nicea, era la loro difesa contro il pericolo paventato di veder sparire, insieme alla distinzione delle sostanze, anche quella delle persone, delle ipostasi, come dicevano, ciò che sarebbe stata una caduta nel monarchismo sabelliano. Quando questa distinzione delle persone fosse posta al sicuro, era prevedibile che sarebbe avvenuta la conciliazione delle due parti. Se non che, prima di arrivarci, bisognava attraversare un ultimo periodo di dispute confuse ed ardenti. L'imperatore Costanzo, sempre più infervorato di Arianesimo, non accettava nessuna transazione, ed escludeva, come sospetta, qualsiasi formola che, pur conservando la dualità e la subordinazione delle ipostasi, ammettesse, non già l'identità, ma l'eguaglianza della sostanza. La Corte di Costanzo era tutta ariana, ed ariani intransigenti, per quanto larvati, i vescovi che vi erano ascoltati. In quella trovata dell'i essi vedevano piuttosto un tranello che una difesa. Ma pure l'Arianesimo rigoroso non era più sostenibile, battuto oramai da ogni parte. Costanzo, per far mostra di moderazione, esigliava Aezio, il duce degli Ariani. Un bisogno, un desiderio di pace cominciava ad imporsi. I Concilî si succedevano ai Concilî, in Oriente ed in Occidente, le formole alle formole, tutto il mondo cristiano non risuonava che di interminabili discussioni, in cui la sottigliezza stessa degli argomenti diventava scintilla di nuove discordie, senza che mai si potesse venire all'invocata chiusura. La pietra dello scandolo per gli Ariani, più o meno ipocritamente mascherati, era quella parola ουσία — sostanza — che si trovava nella formola degli Ariani origenisti e transigenti. Davanti a quella parola, i vescovi che stavano al fianco di Costanzo e lo circuivano coi loro intrighi, Valente, Ursacio, Germinio, Acacio, sentivano farsi più viva la diffidenza e strepitavano. Basilio d'Ancira ed i suoi compagni, che avevano inventato quel famoso i, riuscivano ancor più sospetti degli atanasiani puri. Quei vescovi cortigiani volevano trovare una formola che li distinguesse, in apparenza, dagli Ariani intransigenti, caduti ormai, con Aezio, ufficialmente in discredito, ma che pure assicurasse loro la vittoria sugli aborriti rivali ed impedisse il possibile risorgimento della dottrina nicena. Per la loro influenza e per opera loro si formò un nuovo partito, il partito omoico, il quale ammetteva che il Figlio fosse simile al Padre, secondo la volontà, — κατὰ τὴν βοὑλησιν — ma non voleva, in alcun modo, che si accennasse lontanamente ad un'eguaglianza di sostanza. Questo partito si affermò, la prima volta, a Sirmio, nel 359, con una formola che diceva genericamente il Figlio simile in tutto al Padre. Ma anche quell'in tutto, quel κὰτα πὰντα che, per la sua indeterminatezza, non aveva valore, fu poi escluso, pei maneggi degli arianeggianti, nella formola definitiva, uscita dai sinodi tempestosi di Rimini e di Seleucia. La somiglianza del Figlio col Padre non ebbe altra determinazione che quella contenuta nelle parole — secondo le scritture, — messe lì come un talismano il quale impedisse che la formola venisse alterata179. Costanzo, nell'anno antecedente la sua morte, prima di partire da Costantinopoli, imponeva alla Chiesa questa formola opportunista, per la quale s'illudeva di comporre, mercè una transazione politica, un profondo dissidio dottrinale.

Quando Giuliano prese in mano le redini dell'impero, egli trovava questa situazione di cose, una pace imposta sulla base dell'opportunismo. Era chiaro che questa pace non aveva la condizione della durata. Ma Giuliano, nell'interesse della sua causa, ne precipitò la rottura. Egli, come vedremo meglio a suo luogo, dichiarava di essere affatto estraneo ai partiti ed alle dispute teologiche dei Cristiani, e permetteva, quindi, il ritorno nelle loro sedi ai vescovi esigliati da Costanzo, che erano, appunto, i malcontenti e dell'una parte e dell'altra. Le previsioni di Giuliano si avverarono; la ricomparsa di quegli uomini battaglieri sulla scena teologica riaccese le discordie e le dispute. Ma non ne venne la conseguenza ch'egli aveva sperata, cioè, lo sfacelo dell'odiato Cristianesimo. Atanasio, ritornato ad Alessandria, per esserne ricacciato da Giuliano col solo atto di aperta intolleranza di cui siasi macchiato, risollevava tosto, con la sua indomabile energia e col suo spirito agitatore, il suo partito, e riponeva in difficili condizioni il vittorioso Arianesimo. Durante i tre anni passati in esiglio, il vecchio difensore dell'ortodossia nicena, sebbene lontano dal campo di battaglia, aveva partecipato alle emozioni della lotta, e con una serie di scritti ardenti, dogmatici, storici, apologetici, aveva tenuto alto il coraggio degli amici e ricordato ai nemici ch'egli ancor viveva. Già in questi scritti del vecchio ma non stanco atleta si rivela la tendenza ad offrire la mano agli sconfitti partigiani della ομοιουσία, della somiglianza fra la sostanza del Padre e quella del Figlio e ad attenuare le differenze che li distinguevano dai partigiani della ομοουσία, della identità fra le due sostanze. Nel preveduto, possibile accordo fra l'ortodossia e la frazione origenista dell'antico Arianesimo, oramai in aperta ostilità con la frazione intransigente, egli sentiva trovarsi la condizione della vittoria sull'eresia trionfante nella Corte di Costanzo e nel mondo ufficiale180. Morto Giuliano, l'eroico vescovo, rimasto padrone del campo, con una temperanza di giudizio e di condotta, che mostra quanta e quanto vera fosse la sua grandezza, piegò apertamente alla conciliazione. In Occidente il movimento conciliativo era promosso da due scrittori di grande ingegno, Ilario, detto l'Atanasio dell'Occidente e Mario Vittorino, il filosofo neoplatonico di cui Agostino ci narra la commovente conversione181. In Oriente il movimento ebbe un prezioso aiuto in quei tre insigni personaggi della Chiesa che si chiamavano i tre Cappadoci, Basilio il grande, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, il nemico acerrimo di Giuliano. L'origenica eguaglianza dell'essenza nel Padre e nel Figlio venne a trasformarsi nell'atanasiana identità, ma venne, insieme, solennemente proclamata la distinta trinità delle persone. Così fu fondato il dogma essenziale della metafisica cristiana — una sola sostanza in tre persone — μἴα οὐσία ὲν τρίσιν υποστάσεσιν.

Questa formola divenne con Teodosio legge suprema, non solo della Chiesa, ma anche dello Stato, che minacciava il castigo del suo braccio a chi ardisse disobbedirla, e così l'intolleranza religiosa entrò nel mondo e vi cominciò il suo regno funesto. In Occidente l'ortodossia nicena si diffuse e pose facilmente radice, perchè l'Occidente, durante la gran disputa, era sempre stato favorevole ad Atanasio. L'unico episodio acuto fu la lotta sostenuta da Ambrogio contro la reggente imperatrice Giustina che aveva portata a Milano una tardiva simpatia per l'Arianesimo, e aveva cercato di raccogliere, alla sua Corte, i dispersi partigiani della vinta dottrina. Ma Ambrogio che già, con Graziano, antecessore e fratellastro del fanciullo Valentiniano 2º, di cui Giustina era madre e tutrice, aveva fatto trionfare l'ortodossia, e spinto lo Stato nella via dell'intolleranza, si pose arditamente a fronte dell'imperatrice, e forte della devozione del popolo, ne ebbe facile vittoria. E l'Arianesimo, nel mondo romano, fu spento, e dato all'ortodossia un impero che non fu scosso nemmeno allorquando l'Arianesimo ricomparve sulla scena del mondo, riportato dai Goti e dai Longobardi. Il gran dramma teologico, i cui elementi si erano elaborati nel secolo terzo, e in cui lo Stato, a Nicea, entrò con Costantino come attore principale, si chiuse col finire del secolo quarto. Ambrogio ha compiuta l'opera che Atanasio aveva iniziata. Costantino voleva istituire un'ortodossia religiosa che fosse uno strumento dello Stato. Graziano e Teodosio ne fecero una potenza a cui lo Stato servì di strumento. E il pensiero umano rimase imprigionato per sempre.

La vittoria dell'ortodossia nicena, alleatasi colla destra origenica dell'Arianesimo, fu un avvenimento di suprema importanza che ha determinato l'indirizzo del Cristianesimo per lunga serie di secoli. Da quella vittoria è stato creato il Cristianesimo metafisico, scientifico e dogmatico. Se avesse trionfato la dottrina di Paolo di Samosata che era poi quella dell'Arianesimo puro, la semplice dottrina che affermava l'esistenza di un Dio padre, rivelato da un uomo divinizzato per la sua virtù, non sarebbero stati possibili nè S. Agostino nè S. Tomaso. La semplicità della concezione, accessibile e comprensibile a tutti, avrebbe tolta la necessità di ardue e complicate costruzioni dogmatiche. Ma quella dottrina, appunto per la sua semplicità, non poteva soddisfare le esigenze dello spirito greco-latino, sitibondo di fantasie metafisiche, e infervorato dell'idealismo platonico che Plotino, Porfirio e i neoplatonici avevano riacceso nel mondo del pensiero. Origene fu il primo e vero legislatore della metafisica cristiana ch'egli plasmò coi materiali del Neoplatonismo. Questa metafisica era una cosmologia in cui le idee, sotto la forma delle ipostasi divine, conservano quella stessa funzione che hanno nel sistema di Platone. La cosmologia origenica era già, per sè stessa, fantastica, complicata e misteriosa. Ma, alleandosi con l'ortodossia nicena, divenne ancora più ardua a comprendersi, o, diremo, la parola esatta, divenne più irrazionale, poichè, dal momento che quell'ortodossia negava affatto la subordinazione del logos a Dio, ed affermava l'assoluta unità di sostanza nelle persone, che pur si volevano conservare distinte, essa, come già dissi, intensificava il mistero. Da qui la creazione elaborata, in ogni sua parte, dalla gran mente di S. Agostino, di una religione metafisica, cosmologica, incomprensibile, la quale, perchè incomprensibile, dovette imporsi come un dogma che non si discute, di cui la Chiesa possiede sola la chiave. E così fu sepolta la pura, la divina ispirazione del Vangelo. La Chiesa divenne signora assoluta del pensiero umano, che solo in essa poteva trovare la conoscenza del vero, che fuori di essa non avrebbe incontrato che l'errore e la perdizione.

Mentre nel mondo del pensiero teologico e nelle grandi discussioni dei Concilî ferveva questo movimento pel quale si innestavano le idee platoniche sul tronco del monoteismo e si creava una dogmatica tutta a tesi incomprensibili e, appunto per questo, imposte come articoli di fede, il Cristianesimo, diffondendosi in tutti gli strati sociali, si sostituiva al Paganesimo, paganizzandosi e diventando idolatra. E così doveva essere, perchè le condizioni intellettuali dell'umanità non si erano affatto mutate, e, pertanto, rimaneva inalterato, nel pagano e nel cristiano, il modo di concepire la divinità e la sua azione sul mondo. I Santi e i Martiri presero il posto delle antiche divinità, e il culto si modellò sui riti politeisti, seguendo, sopratutto, la traccia dei Misteri. «Il Cristianesimo, dice il Müller, ha assorbito il Politeismo ed ha preso il posto che questo lasciava vuoto. Le rovine del mondo antico si ricompongono a nuova vita nella Chiesa. La vita religiosa del popolo e le cerimonie ecclesiastiche sono l'immediata continuazione della vita e delle cerimonie antiche. Non v'ha interruzione. L'aspetto del mondo rimane il medesimo. La religiosità del popolo si esprime, come già nel Paganesimo, nel regolare e corretto adempimento dei doveri rituali, e quanto più ricche sono le forme del culto, e tanto più soddisfatto vi si sente il popolo. Il Cristianesimo ha appena graffiata la pelle del mondo antico. Solo in pochi viveva la coscienza che il Cristianesimo non deve abbandonarsi a questa tendenza, che il cristiano è chiamato piuttosto ad un'intima ed immediata comunione con Dio, e questa coscienza li conduce all'ascetismo»182.

Costantino, volendo farsi della Chiesa un aiuto, e crearsene uno strumento di potenza, le diede ricchezze e privilegi, e indirettamente la trasformò radicalmente. Essa non fu più quella confraternita religiosa, composta di poverelli, spesso perseguitata, senza alcuna influenza mondana, che si appagava di un culto semplice, celebrato fra umili e domestiche pareti. Trionfante, sentì il bisogno, onde imporsi alle turbe, del lusso che attira, delle leggende che consolidano la fede. Essa approfittò, nella sua evoluzione, dello spirito dei tempi, si mondanizzò al contatto del Paganesimo, e ne prese molte delle abitudini. Da qui, il fasto, il lusso, la gerarchia numerosa che già si osserva nel quarto secolo. Sviluppò la sua liturgia, formulò, nei Concilî, i suoi dogmi, li sostenne con furore, ed istituì le sue feste. La vita del clero e del vescovo non poteva esser quella della Chiesa primitiva. Diventò corrotta e lussuosa. Ammiano descrive i vescovi cittadini che «arricchiti con le oblazioni delle matrone, percorrono le vie assisi nei cocchi, vestiti splendidamente, amatori di banchetti abbondanti, così da superare le mense regali»183.

La Chiesa accettò le divisioni dell'amministrazione romana, le prese le sue idee di gerarchia, e sentì il desiderio di avere un gran numero di funzionari. La preoccupazione delle cure mondane le fece dimenticare quell'amore della debolezza e della povertà che era stato in origine la sua forza d'attrazione. Una religione semplice, un Dio supremo, creatore del cielo e della terra, un redentore dell'umanità non potevano bastare ad uomini avvezzi alla molteplicità dei santuari e degli dei. La Chiesa, pertanto, fu condotta a riconoscere delle divinità secondarie e più umane a cui rivolgere le preghiere, e sentì la necessità di istituire un culto secondario a fianco di quello che si rendeva al Dio supremo. Così nacque il culto dei santi.

L'antica religione, con le sue numerose divinità, continuò, dunque, a vivere, sotto il velo di questo culto. Il santo raccolse intorno a sè quegli stessi adoratori che prima si rivolgevano agli antichi numi pagani. Il santo adempì tutti gli uffici loro. Come Mercurio, egli aiuta le imprese, custodisce le proprietà, come Esculapio ridona la salute. Il culto dei santi finì per diventare la sola e vera religione del popolo, al quale i dogmi restavano ignoti. È con questo culto che il Cristianesimo potè sostituirsi al Paganesimo, di cui prendeva le forme. In tutte le manifestazioni esteriori della religione il Paganesimo trionfa. Non c'è stato nemmeno un combattimento fra il Paganesimo ed il Cristianesimo per la maggiore o minor prevalenza della superstizione e del formalismo; il primo si è introdotto nel secondo alla chetichella, facendo continui progressi, man mano che i fedeli aumentavano, ed, al fine della conquista, si trovò che la Chiesa si era, senz'avvedersene, trasformata e che il suo culto esterno non era, in fondo, che la restaurazione del culto antico184.

La paganizzazione del Cristianesimo, che avveniva nella dogmatica e nel culto, si verificò, ben presto, anche nei costumi appena il Cristianesimo diventò religione riconosciuta e dominante e conquistò le masse. La tenacia con cui si curavano i beni, si volevano i godimenti della terra non rimase per nulla indebolita dalla conversione degli uomini al Cristianesimo. Esser pagani o cristiani, pel risultato morale, era tutt'uno. Si poteva quasi dire che il Paganesimo si era, in parte, purificato col gittare sul Cristianesimo alcuni dei suoi peggiori elementi. Ed era naturale che ciò avvenisse. Con gli imperatori cristiani, l'essere cristiano era una condizione necessaria al successo nella vita. Per restar pagani ci voleva della virtù ed una forte convinzione. Lo spettacolo che offriva la Corte dei Costantiniani, quella di Costanzo, per esempio, con gli intrighi che vi dominavano, con gli eunuchi che vi avevano signoria assoluta, con gli eccidî neroniani che vi si perpetravano, mostrava il naufragio morale a cui era fatalmente andato incontro il Cristianesimo, dal momento in cui, dall'essere la religione di una minoranza perseguitata, diventò la religione riconosciuta dello Stato. Finchè il Cristianesimo richiese ed usò tutte le forze di quella minoranza nella lotta di resistenza contro la persecuzione, esso moralizzò potentemente l'uomo, sollevandolo al sentimento di un'eroica virtù. Ma il Cristianesimo, allorquando vittorioso potè adagiarsi nella sicurezza e nella pace, lasciò l'uomo libero di ritornare all'esercizio delle sue passioni e di rivolgere al male tutte le energie che non erano più assorte in un combattimento supremo. Così avvenne che il mondo e l'uomo, per essere diventati cristiani, non si mutarono affatto. Anzi, a rendere peggiore la condizione degli animi e delle cose, si aggiunse un fenomeno affatto nuovo, quello dei partiti e delle ire teologiche. Le metafisiche, nel mondo antico, erano semplicemente delle opinioni. Ma il Cristianesimo ellenizzato fece della metafisica un dogma indiscutibile. Da qui la conseguenza dell'intolleranza dottrinale, perchè la fede nel dogma diventava la condizione della salvezza, e siccome ogni partito pretendeva di essere in possesso della verità assoluta, così si sentiva nel diritto e nel dovere di combattere, non solo con la ragione, ma con la violenza, l'errore degli altri. Lo spettacolo delle discordie teologiche era tanto scandaloso che Ammiano Marcellino, come vedemmo, non esitava ad affermare che i Cristiani si laceravano gli uni gli altri con la ferocia delle belve.

Se non che, nell'intima natura del Cristianesimo, era tanta forza, e quella sua natura rispondeva così efficacemente a determinate esigenze dell'anima umana che era inevitabile venisse una reazione contro il suo abbassamento alle condizioni della vita e del mondo. E la reazione prese forma e corpo nel monachismo. L'ascetismo, cioè, la rinuncia al mondo, per isolarsi e per sublimarsi nelle contemplazioni ideali, non era cosa ignota all'antichità. Ma la novità cristiana fu l'organizzazione di una società monacale che in sè realizzasse l'ideale cristiano nella sua purità. Si ebbero così due Cristianesimi; il Cristianesimo che, vivendo della vita di tutti, doveva corrompersi ed abbassarsi al livello dell'umanità che lo praticava, e il Cristianesimo che, appartandosi dal mondo, nella solitudine organizzata dei conventi, teneva acceso l'ideale delle aspirazioni e delle virtù di cui il Vangelo era il codice divino. Il monachismo, come ogni cosa umana, finì per traviare dalla purezza dell'ideale e per accordarsi con le esigenze mondane, diventando, esso pure, uno strumento di passioni e di interessi terrestri. Ma, in origine, fu una reazione salutare, la quale ha salvato il Cristianesimo, perchè ne ha tenuta viva la forza d'attrazione, quando fu spenta quella che gli veniva dall'esempio dell'eroismo perseguitato. Le esigenze della vita cittadina, domestica, civile, abbassavano il Cristianesimo al livello del Paganesimo a cui succedeva. Il monachismo creava un'organizzazione in cui quelle esigenze scomparivano, e, per tal modo, sosteneva il Cristianesimo nella sua altezza ideale. Quanta fosse l'efficacia dell'esempio monacale per promuovere la conversione al Cristianesimo, alla fine del secolo quarto, lo vediamo dal famoso racconto di Pontiziano, nelle Confessioni di S. Agostino, e dall'impressione che questi ne ha ricevuto185.

Il movimento monacale trovò appoggio e favore in Atanasio e nel partito ortodosso, mentre l'Arianesimo lo guardò con antipatia e con sospetto. Qui ci appare una delle ragioni per le quali ad Atanasio rimase la vittoria finale. L'Arianesimo rappresentava il razionalismo ma, insieme, l'impoverimento del Cristianesimo. L'idealità mistica e il sentimento morale vi andavano completamente perduti. Il Cristianesimo veniva adattato, senza freni e senza reazioni salutari, ai bisogni del vivere sociale ed agli interessi mondani. Diversa era l'attitudine dell'ortodossia. Ambrogio spingeva, è vero, Graziano e Teodosio sulla via dell'intolleranza, ma non esitava ad affrontare il violento e potentissimo Teodosio, per chiamarlo al pentimento delle sue colpe. Invece i vescovi ariani o semiariani, che avevano circondato Costantino e più ancora Costanzo, cercavano, nell'indulgenza pei delitti degli imperatori, una ragione di influenza e di successo. Il partito atanasiano conservava, assai meglio del partito rivale, il sentimento dell'essenza morale del Cristianesimo. Perciò, esso favorì il monachismo come una protesta contro la mondanità invadente, ed è per ciò che le più belle, le più grandi figure, in questo periodo di lotta teologica, si trovano tutte nelle schiere dell'ortodossia nicena.

Il monachismo, che s'iniziò in Egitto, dove trovava il terreno preparato dall'ascetismo praticato dai devoti d'Iside e di Serapide, poteva diventare un pericolo per la Chiesa, quando la protesta fosse diventata aperta ribellione. Ma l'ortodossia vittoriosa ebbe su di esso un'azione sapientemente moderatrice e lo contenne nei limiti di un'affermazione religiosa che conservò accesa e visibile la fiamma dell'ideale cristiano. Però, se il monachismo ha indubbiamente giovato a salvare il pericolante ideale cristiano, ha pure indirettamente contribuito a mondanizzare la Chiesa, perchè ha stabilito una divisione ben netta e precisa fra coloro che seguivano, in tutta la loro purezza, i principî cristiani e coloro che li adattavano agli interessi terrestri. Questo adattamento diventava, fino ad un certo punto, legittimato dall'esistenza, nel seno della Chiesa, di un'organizzazione che si era assunto l'ufficio di adempire, nella sua perfezione, la legge del Cristo, e che, pertanto, pareva autorizzasse tacitamente a trasgredirla coloro che di essa non facevano parte.

Questo così rapido corrompimento del Cristianesimo, diventato vincitore e costituitosi in autorità riconosciuta, è uno dei fatti più suggestivi, anzi, più chiaramente istruttivi che ci presenti la storia umana. Il Cristianesimo aveva posto un principio affatto nuovo e propriamente sublime, quello dell'eguaglianza degli uomini, da cui veniva il dovere dell'amore e del rispetto vicendevole, principio e dovere che avevano avuta la suprema sanzione nel supplizio ignominioso di un dio che si era sacrificato per la salvezza dell'umanità. Questo principio che era la negazione della base su cui si fondava la società antica ha attratto a sè le turbe innumerevoli degli oppressi e degli infelici, e ha dato a quella società una scossa a cui non ha saputo resistere. Ma il Cristianesimo si è poi dimostrato affatto impotente a rimodellare, su quel principio, una nuova società. La società cristianizzata non fu moralmente migliore della società pagana, di cui aveva allentata tutta la compagine politica e civile. S'era, naturalmente, addolcita la schiavitù186, ma la Chiesa, diventata potente, ben si guardò dall'abolirla. L'abolizione non venne dal Cristianesimo vittorioso, ma dalle invasioni barbariche, per le quali una nuova forma di servitù, la servitù della gleba, prendeva il posto della servitù personale187.

L'inettitudine del Cristianesimo vittorioso a trasformare il mondo e la società coi principî che pure erano il fondamento della sua dottrina ci dimostra che il progresso umano sulla via della civiltà deve conseguire da cause diverse di quelle contenute in una predicazione, in un insegnamento puramente morale. Quali siano queste cause cercheremo alla fine di questo libro. Per ora noi ci limitiamo a ricreare l'ambiente in cui si svolse il tentativo di Giuliano. Vedemmo come il Cristianesimo, appropriandosi il pensiero filosofico, lo avesse intensificato così da accendere intorno ad esso le più forti passioni, da farne la questione suprema, da sostituire, nel fondamento della fede, il dogma al sentimento. Se non che, siccome questo fervore di pensiero metafisico, questa brama di spiegazioni trascendentali non erano esclusivi al Cristianesimo, ma rispondevano ad una speciale condizione dello spirito umano in un determinato momento della sua evoluzione, così noi li ritroviamo anche nel campo nemico, dove si manifestavano in un sistema parallelo a quello della dogmatica cristiana, in un sistema che permetteva la trasformazione del Politeismo antico in una religione la quale, col suo simbolismo metafisico, poteva pretendere ed illudersi di combattere e di vincere il Cristianesimo. Di questa filosofia religiosa Giuliano era il più fervente discepolo. In essa egli trovava le ragioni, l'ispirazione e le armi per la sua guerra contro il prevalere del Cristo. Prima, dunque, di narrare le vicende di quella guerra, guardiamo, per un istante, la dottrina di cui il futuro apostata s'era segretamente nutrito, mentre intorno a lui risuonava il frastuono delle dispute che squarciavano la Chiesa nascente.

IL NEOPLATONISMO

La diffusione del Cristianesimo, il suo riconoscimento come religione di Stato, il suo progressivo adattamento alle esigenze ed alle condizioni del tempo, e, finalmente, le terribili lotte intestine che lo hanno dilaniato, durante l'elaborazione di un corpo di dottrina, affermato come ortodossia dogmatica, ecco gli elementi che compongono il quadro della società greco-romana, per tutto il corso del secolo quarto. Se non che la società non si lasciava trasformare senza qualche resistenza, e tentava di contrapporre alla costruzione metafisica e religiosa del Cristianesimo un sistema che, sostituendosi al Politeismo naturalistico e razionale, od, almeno, infondendo nelle sue forme uno spirito nuovo, tenesse in piedi l'antica compagine di tradizioni, di pensiero, di organizzazione sociale. Questo sistema fu il Neoplatonismo. Qui notiamo subito, come, del resto, abbiamo, più sopra, già veduto, che il Neoplatonismo, alla cui fonte Origene si era abbeverato, ponendo Dio nel soprannaturale, dichiarando che il misticismo era la sola via per la quale l'uomo potesse unirsi a un Dio incomprensibile appunto perchè soprannaturale, è stato la matrice da cui è uscita la teologia cristiana. Non erano neoplatonici gli Ariani, che guardavano con sfiducia e sospetto la frondosa ramificazione delle idee metafisiche intorno al tronco del Cristianesimo ed avevano la suprema preoccupazione di salvare il monoteismo evidentemente compromesso. Ma l'ortodossia la quale, mescolandosi all'origenismo temperato, mise poi capo, passando per Atanasio, Ilario, Basilio e i due Gregori, a S. Agostino, non fu che uno schietto Neoplatonismo. Fra il Neoplatonismo cristiano ed il Neoplatonismo ellenico correva, però, una differenza essenziale. Il primo presentava un nuovo Dio, il quale aveva una perfetta oggettività storica ed un'incomparabile efficacia d'attrazione; il secondo teneva in piedi le divinità antiche, ma le spogliava di ogni contenuto personale e le riduceva alla condizione di puri simboli. Era chiaro che, per questo rispetto, il vantaggio era tutto dalla parte del Cristianesimo. Ora, il grande interesse che presenta il tentativo di Giuliano è quello, appunto, di aver voluto, sulla base di una filosofia identica, in fondo, a quella del Cristianesimo, opporre al Dio cristiano gli antichi dei dell'Olimpo ellenico. Giuliano volle fare, nel Politeismo, ciò che il Cristianesimo aveva già fatto, cioè, unire la filosofia alla religione e creare una teologia, una dogmatica politeista, la quale, organizzandosi in una gerarchia ecclesiastica, potesse rivaleggiare col Cristianesimo nella ricchezza della dottrina cosmologica e mistica, e che, insieme, conservando in vita gli antichi numi, le abitudini e le tradizioni antiche, salvasse la civiltà ellenica, l'Ellenismo, com'egli diceva, dalla catastrofe che, per effetto del Cristianesimo, gli pendeva sul capo.

L'apparizione del Neoplatonismo e l'immensa azione che ha esercitato sullo spirito umano è un fenomeno di suprema importanza nell'evoluzione del pensiero e della civiltà. Il Neoplatonismo rappresenta il fallimento completo del razionalismo platonico ed aristotelico e di tutte le scuole che erano successe ai due grandi organizzatori della filosofia antica. Questa si era affermata sul concetto della distinzione assoluta della materia e dello spirito, del sensibile e dell'intelligibile, e, si era accinta, ragionando sull'idea, sullo spirito, sull'intelligibile, a ricostrurre idealmente il mondo, con una fiducia completa nella ragione astratta, nella solidità di creazioni ideali, innalzate coll'ammucchiamento di materiali logici cavati dalla miniera del pensiero, ma non esposti al fuoco dell'esperienza e dell'osservazione. Il risultato di questo immane lavoro altro non poteva essere che la formazione di miraggi razionali, che scomparivano quando l'osservatore cambiava il punto di vista, così che l'umanità, dopo lunga serie di secoli, sentì il bisogno di qualche cosa che meglio acquietasse le sue ansie e le sue aspirazioni. Allora, nell'anarchia dei sistemi che metteva capo ad uno scetticismo senza uscita o ad una rassegnazione eroica ma sconsolata, apparve il Neoplatonismo, il quale prese da Platone lo spirito, l'idea, Dio, ma non già per vedervi un principio essenzialmente razionale con cui muovere alla ricerca della verità, bensì per affermarlo come un principio, per eccellenza, soprarazionale e soprannaturale, in cui la verità giace irremissibilmente nascosta.

La conoscenza razionale, pel Neoplatonismo, non è che un gradino intermedio fra la percezione dei sensi e l'intuizione del soprannaturale. L'idea suprema non si ritrova già in ciò che costituisce il contenuto reale e conoscibile del pensiero, ma in ciò che ne è la base invisibile, il fondo inscrutabile. Il trascendente è posto come la suprema realtà. Le forme intelligibili non sono che i mezzi transitori pei quali l'energia dell'essere trascendente e senza forma si espande nel mondo. Tale affermazione del soprarazionale e del soprannaturale, come origine e ragione del mondo, aveva la necessaria conseguenza che l'uomo, non potendo avvicinarglisi col mezzo della ragione, si sentiva costretto a rivolgersi alla fantasia, la quale poi lo portava al misticismo ed alla superstizione, e siccome, nella vita umana, l'unione con Dio difficilmente si raggiunge con le sole forze dell'anima, così si riconosceva necessario l'aiuto esterno delle religioni positive. Pertanto, il Neoplatonismo divenne, sopratutto nello svolgimento che ebbe nel secolo quarto, una filosofia per eccellenza religiosa, una filosofia che venerava e voleva tener vive tutte le religioni antiche, rinnovandole, però, coll'interpretazione simbolica dei loro miti naturalistici. E il Neoplatonismo non sentiva che quel rinnovamento non voleva dire la restaurazione, ma, bensì, la rovina delle antiche religioni, le quali erano da lui forzate ad un ufficio inadatto alla loro natura, erano propriamente otri vecchie che dovevano scoppiare per la pressione del vino nuovo che vi si versava dentro. Infine, il Neoplatonismo, nel secolo quarto, era un Cristianesimo senza il Cristo, un Cristianesimo che non aveva una divinità storica e reale, e che metteva, al luogo di questa, i vuoti fantasmi di divinità del tutto esaurite, le quali ormai non potevano avere altra esistenza che quella di fantocci insulsi o di simboli incomprensibili.

Se non che, io qui vorrei fare un'osservazione che risulterà meglio chiarita nel progresso di questo studio, ed è che il Cristianesimo ha vinto il Neoplatonismo non solo per effetto delle sue virtù, ma anche per quello de' suoi vizi. Infatti, il Cristianesimo, fin dai primi suoi tempi, si era costituito disciplinarmente e si era creata un'organizzazione gerarchica. Fu l'esistenza di questa gerarchia che persuase Costantino a farsi un'alleata della Chiesa cristiana, la quale da quell'alleanza ebbe il suo riconoscimento, diventando uno degli elementi costitutivi del complicato e putrido organismo dell'impero romano-bizantino. Ma il Cristianesimo doveva necessariamente pagare la sua vittoria coll'infettarsi di tutti i mali di cui era afflitta la potenza mondana a cui si abbracciava, e noi già vedemmo come l'ideale della moralità cristiana andasse a rifugiarsi nei conventi e nei cenobî degli asceti. Il Neoplatonismo, il quale non aveva mai saputo organizzarsi, ed era rimasto allo stato di un'opinione, di un'aspirazione, di una dottrina personale, non offriva all'Impero nessuna forza, nessuna nuova risorsa, e l'Impero lo sprezzò. Il tentativo di Giuliano di interessare il Neoplatonismo nell'Impero, come lo zio Costantino vi aveva interessato il Cristianesimo, fu incompreso e considerato dagli uni come lo scherzo innocuo di un idealista, dagli altri come il delitto di uno sciagurato apostata. Ma il punto più curioso di questa storia è che il Neoplatonismo, essendo rimasto appartato nella solitudine dei suoi Misteri e delle sue meditazioni, aveva conservata un'apparenza di idealità che il Cristianesimo, al contatto del mondo, aveva necessariamente perduta. Pertanto, il tentativo di Giuliano di restaurare il Politeismo contro il Cristianesimo ebbe, per quanto la cosa possa parere strana, anche il significato di una restaurazione morale. Fu questa una delle ragioni, e non certo l'ultima, per cui quel tentativo cadde miseramente. I dissensi fra Giuliano e gli Antiochesi, così amaramente narrati nel Misobarba, vennero appunto dal fatto che il neoplatonico e severo imperatore voleva correggere e moralizzare la cristiana e corrotta città. E gli Antiochesi non avevano nessuna inclinazione a seguire le esortazioni del moralista imperiale, e trovavano assai più di loro gusto il cristiano Costanzo, con le sue turbe di eunuchi, di parassiti, di giocolieri, con le sue feste ed i suoi teatri, che l'ellenico Giuliano il quale divideva il suo tempo fra le cure dello Stato e i libri e si chiudeva in una specie di filosofico ascetismo.

L'insuccesso del Neoplatonismo religioso, tragicamente constatato nella catastrofe di Giuliano, non portò, come conseguenza, l'insuccesso filosofico, chè anzi il Neoplatonismo ebbe la sua rivincita nella teologia ortodossa. I suoi numi simbolici son caduti davanti al Dio cristiano, ma il Cristianesimo dogmatico si è imbevuto della sua dottrina e ne ha fatta la sua metafisica, e questa ha soffocato con le sue propagini l'albero divino del Cristianesimo evangelico, e gli ha impedito di portare i genuini suoi frutti.

Ma vediamo meglio cosa fosse, nella sua essenza, questa filosofia neoplatonica che fu il vitale nutrimento dell'apostata imperiale.

La decadenza del mondo antico, la dissoluzione delle sue basi morali e religiose, lo scetticismo filosofico prodotto dalla successione di sistemi i quali, non avendo nessun substrato di verità, si distruggevano l'un l'altro, tutte queste cause che agevolarono la diffusione del Cristianesimo, avevano, insieme, promosso un movimento parallelo nel pensiero greco verso una percezione immediata ed estatica della divinità, la quale ravvivava, simbolizzandolo, l'antico Politeismo e rispondeva alle esigenze ed alle aspirazioni morali che agitavano e tormentavano l'anima umana. Da questo movimento di pensiero e di spirito è uscito, nella prima metà del secolo terzo, il Neoplatonismo, il quale, nel nome e con elementi tolti alla dottrina di Platone, creava un nuovo sistema filosofico che poneva, a principio dell'universo e della natura, il soprannaturale, e trascinava poi la ragione a sprofondarvisi, abdicando ai suoi diritti. La storia del Neoplatonismo si divide in tre periodi; il primo, quello della fondazione del sistema e del suo svolgimento teorico, per opera di Plotino, va dal 200 al 270; il secondo, il più interessante per lo studio nostro, quello della sua elaborazione pratica e dell'applicazione al rinascimento del Politeismo, dal 270 al 400. Vi posero mano, successivamente, Porfirio, Giamblico e i suoi discepoli, fra i quali Giuliano; il terzo periodo, dal 400 al 529, è quello della scuola d'Atene, in cui, per opera specialmente di Proclo, il Neoplatonismo si spoglia dell'apparato mistico e diventa un sistema didattico, che ebbe una grande importanza storica, perchè fu con le sue forme che la filosofia greca, esigliata da Atene per un decreto di Giustiniano, passò nell'Oriente, dove più tardi fu raccolta e salvata dagli Arabi che la trasmisero alla scolastica medioevale.

Il fondatore del Neoplatonismo fu Ammonio Sacca di Alessandria, un cristiano riconvertitosi al Paganesimo. Egli non lasciò scritti ma il suo grande valore è dimostrato dagli scolari illustri ch'egli ebbe, il cristiano Origene188 e Plotino, il quale afferma di aver trovata la verità e la pace nell'insegnamento diretto del suo grande maestro. Ma, se Ammonio fu il creatore del Neoplatonismo, Plotino ne fu il rivelatore, coi numerosi scritti che ci pervennero ordinati e pubblicati dal suo allievo Porfirio.

Il sistema di Plotino è diretto a rialzare l'anima umana dalla degradazione in cui è caduta per essersi alienata dal principio da cui trae l'origine. L'ispirazione della sua filosofia sta in questo desiderio di una perfetta unione con la divinità, nello sforzo incessante di uscire dalle condizioni del finito e del limitato. Plotino vuol insegnare la via per cui l'uomo può ricongiungersi a Dio, vuol descrivere il processo pel quale l'universo, derivato dalla suprema unità, vi ritorna e vi si riconfonde.

Plotino pone l'unità assoluta della causa prima. Di questa causa prima, che è l'Essere per eccellenza, noi sappiamo solo che è infinita, che è all'infuori di ogni possibile determinazione, così che noi possiamo dire di essa ciò che non è, non già ciò che è. Come causa attiva, essa genera, pur rimanendo sempre eguale a sè stessa mentre la corrente del divenire sgorga da lei. Il molteplice deriva dall'uno per un processo dinamico di trasmissione di forza. L'Essere primo è la matrice da cui tutto viene, è lo scopo a cui tutto tende. Ma, se l'Essere è presente in tutto l'universo, l'universo costituisce una serie lineare di manifestazioni, lungo la quale la sua azione si attenua, mano mano che è maggiore la lontananza dall'origine, e finisce per spegnersi nel non-essere.

In tale serie, il primo posto è preso dal pensiero, dalla ragione, che è poi il logos filoniano e cristiano. Nell'atto che il pensiero generato, nell'uscire dall'unità dell'Essere, si volge ad esso e lo riflette, si formano un contemplante ed un contemplato, un pensante ed un pensato, un conoscente ed un conoscibile, il νοῦς e il κόσμος νοητός.

Fra l'idea ed il mondo dei fenomeni, Plotino pone lo spirito che, per una parte, è mosso ed illuminato dall'idea, per l'altra è a contatto col mondo corporeo da lui generato. Lo spirito è uno e molteplice insieme, uno in quanto è il soffio che anima l'universo intiero, molteplice in quanto raccoglie in sè tutte le anime parziali, le quali poi sono buone o cattive, a seconda che sentono o non sentono il desiderio di ricongiungersi e riconfondersi coll'unità divina.

Il mondo fenomenale si distingue, per Plotino, dal mondo soprannaturale, perchè, in opposizione a quello, è molteplice, disarmonico e contradditorio, una caricatura della vera realtà. La materia è il puro nulla che non può esser pensato se non astraendo da ogni forma e determinazione, è la negazione delle idee che sono le sole realtà, è l'origine del male, il πρῶτον κακόν. Ma Plotino, da vero panteista, non viene perciò al concetto gnostico e pessimista della creazione del male, fatta da un dio secondario, da un Arimane, in opposizione al dio supremo. Per lui, il mondo è perfetto così com'è, rappresenta un'evoluzione necessaria. Il male deve esistere onde esista il bene, deve esistere la materia onde l'anima, discendendo dall'unità ideale, possa sentire l'aspirazione di ritornarvi, e di chiudere, per tal modo, il ciclo dell'esistenza.

Ma come mai l'anima potrà risalire all'unità divina da cui è discesa? A ciò è indispensabile la virtù, la quale purifica l'anima e la riconduce all'idea. Ma non basta che l'uomo sia senza peccato per potersi propriamente ricongiungere a Dio. Ciò diventa possibile nel rapimento estatico dell'uomo puro. Il pensiero, per sè stesso è incapace di questo rapimento, perchè il pensiero non conduce che all'idea. Il pensiero non è che una preparazione all'unione con Dio. Solo nella condizione di perfetta passività e riposo può l'anima conoscere e toccare l'Essere primo. L'anima, pertanto, comincia a contemplare la molteplicità e l'armonia delle cose, poi si sprofonda in sè stessa ed arriva al mondo delle idee; finalmente, in un impeto supremo, dimentica ogni cosa, e si trova faccia a faccia con Dio, con la fonte della vita, col principio dell'essere, coll'origine del bene. Gode, in quel punto, la suprema felicità. Ma non può rimanervi a lungo. Solo quando sarà liberata dal corpo, la sua contemplazione non sarà più interrotta.

Plotino, da mistico entusiasta, ebbe, più volte, questi rapimenti che lo ponevano nell'immediata presenza di Dio. Il suo discepolo Porfirio, nella vita ch'egli scrisse del maestro, così narra: «A quest'uomo ispirato che sovente si sollevava verso quel Dio che è primo e che è al di là dell'intelligibile, Dio apparve sebbene non abbia forma alcuna e non sia visibile, perchè ha la sua sede nel pensiero e nel pensato. Egli non aveva che un fine nella vita, avvicinarsi ed unirsi a Dio, che è sopra tutti. Questo fine fu da lui raggiunto quattro volte, mentre che io era con lui, e non già per una potenza esterna, ma, bensì, per un'energia che non si esprimeva. Sul punto di morire, disse che si accingeva a portare il divino che è in noi nel divino che è nell'universo, ed esalò lo spirito»189.

Se non fosse l'intonazione panteista delle ultime parole, forse le più belle e più profonde parole che abbia pronunciate l'uomo morente, l'entusiasmo mistico di Plotino potrebbe esser quello di un S. Agostino, e la visione del filosofo neoplatonico ha una grande analogia con quel rapimento estatico pel quale, il più gran teologo dell'ortodossia, contemplando, un giorno, il cielo e il mare dalla finestra della sua casa d'Ostia, si sentì, d'un tratto, sollevato alla presenza di Dio.

La filosofia di Plotino ha, pertanto, un carattere essenzialmente religioso. Essa è, in tutte le sue parti, penetrata dal pensiero di Dio e dall'aspirazione di unirsi a lui. I punti di contatto col Cristianesimo sono evidenti per modo che, per certi rispetti, si ha l'identità dei concetti e delle tendenze, ciò che, del resto, si comprende primieramente per la piega che aveva preso il pensiero filosofico del tempo, e poi per la circostanza che i due fondatori della metafisica cristiana e della metafisica neoplatonica, Origene e Plotino, erano allievi del medesimo maestro, Ammonio Sacca. Ma pure, malgrado tanta analogia, esisteva fra i due sistemi, possiamo dire, fra le due religioni, un'antipatia profonda, conseguenza del fatto che il Neoplatonismo era il frutto del genuino albero ellenico, mentre il Cristianesimo era il frutto di quell'albero su cui si era innestato il monoteismo ebraico. Il Neoplatonismo era profondamente panteista. L'eterno processo evolutivo che dall'unità dell'Essere discende alla molteplicità dei fenomeni, per ritornare all'unità, questo processo che rappresenta, per Plotino, l'origine e il successivo annullamento del male, esclude il concetto di una creazione voluta e di un governo cosciente del mondo, esclude la responsabilità dell'esistenza del male, attribuita alla libertà umana, esclude la necessità di un processo di redenzione e di una fine del mondo. Il Cristianesimo, con le sue esigenze e con le sue promesse, appariva ai Neoplatonici come una antifilosofica negazione dell'eterna necessità, dell'ordine, dell'armonia dell'universo, come un irragionevole disconoscimento di quanto avevan detto di buono e di bello i grandi uomini del passato, come un'affermazione pessimista che portava con sè lo sconvolgimento dell'ordine universale. Il Cristianesimo drammatizzava la storia del mondo in un tragico processo di creazione, di colpa, di redenzione. Il Neoplatonismo leggeva, in quella storia, un inno di gloria per la necessità divina, inalterabile, perfetta dell'armonia del Tutto. Il panteismo neoplatonico s'inalberava davanti all'individualismo monoteistico del Cristianesimo. Vedendo Dio dovunque, trovava, nel politeismo e nella mitologia, dei simboli opportuni a dar forma alle varie manifestazioni della divinità. E, per quanto Plotino fosse lontano dalla stravaganza superstiziosa dei suoi successori, egli pure collegava la magia e la mantica al concetto ed al sentimento della continua presenza della divinità. Plotino voleva ravvivare i culti antichi, facendone dei simboli di un pensiero e di una aspirazione filosofica e religiosa. Il Cristianesimo annunciava un monoteismo preciso ed un Dio che aveva una determinata personalità storica, e poi si affaticava a rivestire e l'uno e l'altro con quei medesimi concetti filosofici che formavano la trama del pensiero neoplatonico. C'era, dunque, fra i due sistemi, eguaglianza nell'essenza del pensiero, e differenza nel modo di sentire la religione e di dar forma al pensiero nella manifestazione religiosa. Ed in questa differenza stava appunto la forza del Cristianesimo, il quale presentava all'uomo assetato di divino delle imagini determinate e precise, davanti a cui i vaghi ed oscillanti simboli del Neoplatonismo scomparivano

Nei discepoli e successori di Plotino apparve più manifesta la tendenza a promuovere, nel Neoplatonismo, un rinascimento ed una restaurazione delle antiche religioni, in opposizione al Cristianesimo. Il primo, tra quei discepoli, fu Porfirio, il quale raccolse e pubblicò le opere del maestro. Spirito geniale e chiaro, sebbene lontano dalla profondità speculativa di Plotino, egli fu il vero iniziatore del rinnovamento del Politeismo. Per lui le religioni tutte rappresentavano lo sforzo dell'anima umana che vuole uscire dal finito per ricongiungersi a Dio. Siccome tale ricongiungimento deve procedere per tre gradi, prima nello spirito, poi nell'idea e finalmente nell'Essere supremo, così il Politeismo, con la varietà dei suoi simboli dà il modo di rappresentare efficacemente questo graduale procedimento. Pur criticando i miti ed i culti irragionevoli e rozzi, ed affermando che il Dio supremo si onora col silenzio e coi puri pensieri, Porfirio voleva tener ritte tutte le antiche religioni, fermo nel concetto che, essendo la religione una manifestazione simbolica e di una verità necessariamente relativa, ognuno può, anzi, deve onorare la divinità secondo il costume del proprio paese. Porfirio, pertanto, riconosceva i diritti di tutte le religioni nazionali, delle barbariche come delle elleniche, ed anche dell'ebraica, considerata, appunto, come religione di una data nazionalità. Ma egli aborriva l'esclusivismo cristiano che, in nome di una verità assoluta, voleva abbattere tutte le forme di culto che non erano le sue, e rompeva tutte le tradizioni della filosofia e della coltura ellenica. Porfirio compose, anzi, un trattato, che andò perduto, contro il Cristianesimo, per dimostrare la mancanza di solidità della pretesa sua base storica e la scarsa credibilità dei suoi documenti. Egli considerava Gesù come un uomo pio, i cui insegnamenti erano stati completamente incompresi e guasti dai suoi discepoli che ne avevano fatto una divinità.

In questo indirizzo dato al Neoplatonismo che da speculazione pura si trasformava in religione positiva, Porfirio ha mosso i primi passi, ma il razionalismo assai chiaro da cui era guidato, lo fermò a quel punto, oltre il quale la religione diventa superstizione e magìa. Dice di lui, infatti, S. Agostino «Porphyrius quamdam quasi purgationem animæ per theurgiam, cunctanter tamen et pudibunda, quodam modo, disputatione, promittit. Reversionem vero ad deum hanc artem portare cuiquam negat, ut videas eum inter vitium sacrilegæ curiositatis et philosophiæ professionem, sententiis alternantibus, fluctuare». I suoi successori, primo fra i quali, Giamblico, e poi Edesio, Crisanzio, Massimo e finalmente Giuliano, andarono al di là del maestro. Con le formole panteistiche del Neoplatonismo e con le sue aspirazioni mistiche, pretesero di comporre e di opporre al Cristianesimo una religione simbolica, tutta appoggiata alla più irragionevole e ripugnante superstizione. Giuliano ha voluto fare di questo nuovo Politeismo una religione di Stato. Esisteva, come vedremo, fra le intenzioni morali ed intellettuali di Giuliano e la religione da lui praticata una contraddizione singolare ed, insieme, interessante. Questa contraddizione spiega come il tentativo del giovane imperatore fosse disperato, e dovesse metter capo alla vittoria definitiva del Cristianesimo.

Per avere un'idea precisa dei moventi che ispirarono Giuliano in quel tentativo, giova far la conoscenza della piccola consorteria neoplatonica che si adunava in Nicomedia e nelle vicine città. Giuliano, come già sappiamo, ne fece parte, durante gli anni del suo soggiorno in Nicomedia, e vi trovò la consacrazione definitiva delle tendenze che gli aveva inoculate il suo primo educatore, Mardonio. Le notizie che ci offre Eunapio, nelle Vite dei Sofisti, sebbene scarse, e dettate senza l'ombra del giudizio critico, riescono, tuttavia, a far rivivere, davanti a noi, quel piccolo e curioso mondo.

Il personaggio principale, anzi, il fondatore del Neoplatonismo trasformato in religione teurgica, fu Giamblico, scolaro di Anatolio e di Porfirio, vissuto ai tempi di Costantino, e, nella sua vecchiezza, conosciuto anche da Giuliano, se sono autentiche le lettere che ancor si conservano e che quest'ultimo gli avrebbe dirette. Dalla breve biografia che leggiamo in Eunapio190 parrebbe che Giamblico fosse propriamente considerato come un mago, un esecutore di miracoli, per verità molto sciocchi, e che in ciò consistesse il suo massimo valore. Ma Eunapio è un povero di spirito, ed egli impoverisce anche quelli che pure intende illustrare. Di Giamblico si conservano ancora alcuni scritti e molte testimonianze che permettono di fare di lui un giudizio più conforme al vero, e di meglio apprezzare l'importanza della sua produzione filosofica191. Certo, in lui appare cospicuo non tanto il filosofo a cui preme la logica dei ragionamenti dottrinali, quanto il teologo che mira a dare un fondamento speculativo alla religione ed ai suoi riti. Già Porfirio aveva mostrato la tendenza a guardar la filosofia dal suo lato fantastico e religioso, ma Giamblico si è fermato, con maggiore insistenza, a questo punto di vista. Se Porfirio, pel raggiungimento del suo scopo più religioso che filosofico, aveva creduto necessario l'aiuto degli dei, tanto più vi ricorreva Giamblico che riponeva scarsa fiducia nelle forze dell'uomo. Le chiare e semplici categorie del sistema plotinico non bastano a Giamblico. La sua filosofia diventa spaventosamente complicata e confusa per la moltiplicazione delle ipostasi dell'unità divina. Nel suo fantastico pensiero ogni momento razionale si concretizza in una ipostasi distinta. Pareva a Giamblico di non poter meglio rappresentare la divinità che moltiplicandola, suddividendola più che fosse possibile, e ponendo sotto figure distinte tutte le funzioni che esprimono la sua essenza ed i suoi rapporti col finito. Tale sminuzzamento dell'unità ideale, tale successiva degradazione dall'uno al molteplice è ciò che distingue il Neoplatonismo di Giamblico dal Neoplatonismo plotinico. L'importanza storica della dottrina di Giamblico sta nel fatto che il Neoplatonismo il quale, in Plotino, era stato un'affermazione ideale del trascendente e del soprannaturale, diventò una teologia mistica che si mise risolutamente a servizio di una religione positiva.

Nel gruppo degli scolari e successori di Giamblico pare che il più cospicuo fosse Edesio. Costui era stato destinato dal padre al commercio, e mandato in Grecia a far pratica. Ma ne ritornò filosofo, con grande sorpresa e sdegno del padre. Il giovane seppe però ottenere il perdono e la licenza di recarsi presso Giamblico a perfezionarsi nelle dottrine filosofiche. Dispersa la scuola di Giamblico, Edesio, seguendo le indicazioni di un miracoloso presagio, si era ritirato nella solitudine di una vita pastorale192. Ma i giovani che anelavano di essere da lui istruiti, andarono a disturbarlo nel suo ritiro, e, non permettendo che tanta sapienza fosse sciupata sulle rupi e in mezzo agli alberi, lo costrinsero a ritornare nel consorzio umano. Edesio acconsentì a malincuore, e, passando in Asia, si stabilì a Pergamo, dove aprì una scuola la cui fama, sempre secondo il credulo ed entusiasta Eunapio, toccò il cielo.

Le figure più salienti di quella scuola erano Massimo, Eusebio, Crisanzio e Prisco. Il primo, al dire di Eunapio che, giovanetto, aveva conosciuto Massimo già in tarda età, destava una profonda impressione in quanti lo vedevano per la bellezza della figura, il lampeggiare degli occhi, l'armonia della voce, la fluidità della parola. Ambizioso ed inquieto, ebbe una vita agitata, chiusa tragicamente. Egli ha esercitato su Giuliano un'azione potente, e, con Mardonio, può dirsi il vero autore dell'indirizzo religioso e filosofico del principe. Massimo era tutto infervorato di ritualismo magico, e fu uno dei più efficaci cooperatori della trasformazione del Neoplatonismo in religione teurgica. Era una specie di santo, provvisto della potenza di far miracoli. Interessante e sommamente istruttivo, per la rappresentazione dell'ambiente, è il contrasto che esisteva fra Massimo ed Eusebio. Quest'ultimo inclinava a razionalizzare il Neoplatonismo, e provava una viva antipatia per le superstizioni magiche e teurgiche in cui la filosofia si sprofondava, perdendo il suo carattere speculativo. Ma egli aveva paura di Massimo. Leggiamo in Eunapio che Eusebio, quando Massimo era presente, evitava di usare l'acutezza della propria logica, tutta ad artifizii ed intrecci dialettici. Ma, quando era assente, rifulgeva come un astro, scomparso il raggio del sole193. Il contrasto fra Eusebio e Massimo appare, in tutta la sua luce, nel singolare e sintomatico episodio dei rapporti fra Eusebio e Giuliano. Il giovane principe, assetato di sapienza, era venuto a Pergamo, attrattovi dalla fama di Edesio, e voleva che costui lo istruisse. Ma Edesio era e si sentiva vecchio. — Io vorrei poterti far da maestro, gli diceva, ma il corpo non risponde più ai voleri dell'anima. Io ti consiglio di rivolgerti ai miei scolari. Lì potrai proprio fare una scorpacciata di ogni scienza e dottrina194. Io vorrei che fosse qui Massimo, ma è andato ad Efeso, e Prisco partì per la Grecia. Ma ci sono Eusebio e Crisanzio, ascoltando i quali più non ti rincrescerà che io sia vecchio. — Giuliano naturalmente segue il consiglio. Ma si accorge di qualche cosa di oscuro e di inquietante nelle sue relazioni con quei due maestri. Infatti, Crisanzio, che era un ammiratore ed un seguace di Massimo, non pareva completamente d'accordo con la dottrina di Eusebio, sebbene non si compromettesse a contraddirlo. Quest'ultimo, un giorno, dopo aver istruito Giuliano nell'interpretazione degli antichi filosofi, gli dichiara che la verità è tutta lì, e che le magie e le incantagioni le quali illudono i sensi sono opera degli stregoni che ingannano coll'aiuto di potenze materiali. Giuliano, insospettito, e non riuscendo a comprender bene il significato ed il perchè di questo avvertimento con cui Eusebio chiudeva le sue spiegazioni, prende a parte Crisanzio — O caro Crisanzio, gli dice, tu che conosci la verità, dimmi cosa vuol dire questo epilogo delle spiegazioni di Eusebio. — Ma Crisanzio, che era uomo prudente per eccellenza e non voleva farsi dei nemici, si chiude in un profondo riserbo. — Faresti meglio, risponde, a chiederlo ad Eusebio stesso. — Ed Eusebio, interrogato direttamente da Giuliano, per fargli capire cosa egli intendesse per magia, gli fa questo racconto. «Massimo, diventato per la forza del carattere e dell'ingegno, spregiatore delle nostre dimostrazioni, precipitando in una specie di mania, un giorno, di buon mattino, ci riunì nel tempio di Diana, e si circondò di molti testimoni. Quando fummo raccolti, dopo esserci inchinati alla Dea — sedete, ci disse, o carissimi compagni, guardate ciò che va a succedere, e constatate di quanto io sia al di sopra di tutti. — Ci sedemmo, e Massimo bruciava un grano d'incenso, e cantava, fra sè, un certo inno, quand'ecco la statua comincia a sorridere, poi a ridere apertamente. Noi mandammo gridi di stupore a questa vista, ma nessuno si mosse e parlò, perchè subito si accesero le lampade che la dea porta in ambo le mani, e la fiamma apparve più ratta delle nostre parole. Noi ci ritirammo, colpiti, pel momento, di quello spettacolo miracoloso. Ma tu non devi ammirarlo come io non l'ammiro, e comprendere piuttosto che cosa ben più grande è la purificazione per mezzo della ragione»195. Quest'ultime parole di Eusebio rivelano uno spirito singolarmente acuto, uno di quei razionalisti imperterriti, rari sempre, rarissimi nell'antichità, quando ancor non esisteva la scienza positiva, i quali, davanti al miracolo, sanno negar fede alla testimonianza dei sensi. Ma Giuliano era tutt'altro uomo, e la sua condotta verso Eusebio vale più di qualsiasi altro indizio a illuminarci sull'indole del suo spirito. Aveva, infatti, Eusebio appena finito di parlare, che Giuliano, — addio, esclama, attendi pure ai tuoi libri, quanto a me tu mi indicasti ciò che cercava, — ed abbracciato Crisanzio, parte per Efeso, in cerca di Massimo, e, trovatolo, pende da questo nuovo maestro, e tenacemente si attacca alla sua dottrina. A Massimo, che, evidentemente, era un uomo che sapeva cogliere le occasioni per farsi strada, non parve vero di aver per allievo un principe costantiniano, perseguitato sì, ma pur sempre sui gradini del trono, e si pose con ardore ad istruirlo, ed a farsene un devoto e, non bastando da solo a soddisfare l'insaziabile curiosità del giovane, chiamava presso di sè l'amico Crisanzio, e, fra loro due, hanno fatto di Giuliano quel mistico entusiasta pel quale religione e filosofia si confondevano nella più credula superstizione. Diventato imperatore, Giuliano chiamò a Costantinopoli Massimo e Crisanzio. Massimo accorse immediatamente, ricevuto con straordinaria dimostrazione di rispetto da Giuliano. Ma Crisanzio, amante com'era del quieto vivere, e più previdente di Massimo, perchè meno ambizioso, non si lasciò smuovere, per quante preghiere gli mandasse Giuliano, il quale aveva cercato di aver dalla sua la moglie del filosofo. Intanto, Massimo, a Costantinopoli, viveva circondato e pressato dagli adoratori dell'astro sorgente, che non gli lasciavano un momento di pace, così che doveva cercar l'aiuto di qualcuno che lo sollevasse, in parte, dalle tante cure. Ed, ostinandosi Crisanzio nel suo rifiuto, venne il filosofo Prisco. E Massimo e Prisco non abbandonarono più l'imperatore, lo seguirono nella campagna di Persia, e noi li trovammo sotto la tenda, al fianco del ferito eroe, che, in sereni ed alti colloqui, si preparava alla morte. Caduto Giuliano, la vita di Massimo si protrasse in una tragica vicenda. Perseguitato, spogliato e torturato da Valente e dai suoi soldati, poi salvato da Clearco che lo rimise nelle grazie dell'imperatore, finalmente cadde in sospetto di aver partecipato ad una congiura e fu decapitato ad Efeso196. Massimo ha esercitata un'influenza grandissima e risolutiva sullo spirito inquieto e mistico di Giuliano, il quale lo riconosce nel suo discorso contro il cinico Eraclio, ed attribuisce al «sommo filosofo», che lo ha istruito, tutto il merito della sua iniziazione nella vera filosofia197. Questo Massimo, se è interessante per la sua fedeltà entusiastica a Giuliano, è, considerato nel suo insieme, un personaggio antipatico. Ciarlatano, superstizioso, gonfio di sè stesso, anelante al potere ed alla preminenza, con un'aria d'ispirato e di superuomo, egli destava intorno a sè odii e rancori, che, appena scomparso il suo protettore, lo hanno trascinato alla rovina. Eunapio racconta di lui un episodio tragicomico che, certo, non serve ad attenuare quel senso di repulsione che proviamo per questa specie di mago del Neoplatonismo, malgrado le terribili sciagure che lo hanno colpito verso il termine della sua burrascosa carriera. Mentre Massimo era torturato dagli sgherri di Valente, la moglie appassionata e coraggiosa era presente ed angosciata. Massimo le sussurra: — Moglie mia, va a comperarmi un veleno, dammelo e liberami. — Ed essa tosto se ne va, e ritorna col veleno, ma, non volendo sopravvivere al marito, chiede di bere prima di lui; beve, e, sul colpo, muore. Ma Massimo non bevve! — ὁ δε Μάξιμος ἕπιεν ουκέτι. —198.

Un altro personaggio importante, e poco simpatico, che stette fino all'ultimo al fianco di Giuliano, è Prisco, lui pure della scuola di Edesio. Dottissimo, così da avere in sommo della bocca tutta la dottrina degli antichi, bellissimo della persona, era uomo burbero e duro di modi. Non voleva discendere alle discussioni e serbava la sua sapienza, dentro di sè, come un tesoro, e chiamava scialacquatori coloro che con facilità parlavano di filosofia. Edesio pare fosse un amabile maestro che adoperava, nel suo insegnamento, il metodo socratico, parlava con tutti ed insinuava nei suoi discepoli la cortesia e un sentimento d'umanità199. Passeggiando, per le vie di Pergamo, accompagnato da una schiera di scolari, egli appiccava discorso con tutti, con la venditrice di legumi, col tessitore, col fabbro, col falegname. E, da tutti e da tutto, traeva argomento di saggi insegnamenti. Gli scolari godevano di tali conversazioni. Il solo Prisco si ribellava, ed osava chiamare il maestro traditore della dignità filosofica, ed un ciarlone che gonfiava l'anima di ciance, e non cavava un ragno da un buco. Era Prisco, dunque, un fior di pedante, e non può dirsi che il povero Giuliano sia stato fortunato nella scelta dei compagni filosofici che lo seguirono nel suo breve regno. Però la pedanteria non toglieva a Prisco la prudenza e la sagacia nella vita, così che, in ciò ben diverso dell'avventato ed ambizioso Massimo, riuscì a scampare dai pericoli che lo minacciavano dopo la caduta di Giuliano, e si ritirò in Grecia, dove visse fino a novant'anni, sempre chiuso nel suo fare misterioso e cupo, ma ridendo, in cuor suo, della debolezza umana200.

Sarebbe stata una gran fortuna per Giuliano se egli avesse potuto trarre a sè, invece del ciarlatanesco ed orgoglioso Massimo e del pedante e ripulsivo Prisco, l'amabile Crisanzio, il più equilibrato, il più dolce, il più sensato degli allievi di Edesio. Non è a dire che l'indirizzo filosofico di Crisanzio fosse buono e commendevole. Basterebbe a provare che non lo era la sua devozione per Massimo e pei riti teurgici. Nell'esordio della sua educazione filosofica, Crisanzio si era gittato con passione alla dottrina di Platone e di Aristotele, e vi era diventato così forte da non temere competitori, e da riuscire vittorioso in qualsiasi discussione. Ma poi, per l'influenza di Massimo, egli si sentì attratto dalle dottrine pitagoriche e da quei riti teurgici e divinatori che costituivano la religione neoplatonica, e, in breve, vi divenne tanto abile da potersi dire ch'egli vedeva il futuro meglio del presente, quasi fosse in continua relazione con gli dei201. Qui, anzi, nacque un dissenso fra lui e Massimo, perchè questi, nel suo orgoglio, pretendeva che la divinazione del futuro si piegasse alla sua volontà ed ai suoi desideri; Crisanzio, invece, seguiva umilmente gli indizî divini. Ma, con tutto questo, Crisanzio era un uomo di molto acume, e di chiaro buonsenso. Nella sua ostinata resistenza agli inviti del suo antico allievo, quando questi toccò il fastigio della fortuna, egli era guidato non solo dai presagi, che diceva non favorevoli al suo viaggio, ma ben anche da una sicura percezione dell'imprudenza e della leggerezza con cui l'imperatore si era accinto all'impresa di far rivivere l'Ellenismo contro il Cristianesimo. Di ciò Crisanzio ha dato una prova luminosa ed interessante, perchè, venendo da un amico e da un correligionario, è un'implicita condanna della condotta di Giuliano. Costui, per nulla offeso dai ripetuti rifiuti del suo maestro, volle dargli, prima di partire per la Persia, una dimostrazione di affetto e di fiducia, e lo nominava gran sacerdote di Lidia. Crisanzio accettò, ma esercitò il suo sacerdozio in un modo curioso, e, certo, poco consentaneo alle intenzioni di Giuliano. Mentre, in ogni parte dell'impero, si correva con ardore a rialzare i templi, egli non ne fece nulla, e non disturbò menomamente i Cristiani, così che quasi si può dire che, in Lidia, non si conobbe la restaurazione del Politeismo. Venne da ciò che allorquando, caduto Giuliano, le cose tornarono nello stato di prima, nella regione di cui Crisanzio aveva il governo spirituale, non fuvvi turbamento alcuno, anzi regnò una pace profonda, al cui confronto appariva ancor più singolare e meraviglioso il turbine di passioni e di vendette in cui era travolto il resto dell'impero202. Si comprende come, con tanta prudenza e con tanto buon senso, Crisanzio, pur rimanendo ellenista fedele, attraversasse tranquillamente un'epoca così agitata da dispute religiose, e campasse fino alla più tarda vecchiaia.

Un uomo che, certo, ebbe un'influenza risolutiva sullo spirito di Giuliano, al momento psicologico della sua ribellione a Costanzo, e che, probabilmente, mise la mano nella preparazione del pronunciamento militare che proclamò Giuliano imperatore, è il medico-filosofo, Oribasio di Pergamo, appartenente, lui pure, al cenacolo neoplatonico. Noi sappiamo che Oribasio fu il solo degli amici di Giuliano che potè accompagnarlo in Gallia. Egli lo volle con sè, come medico, ciò che gli fu concesso, perchè s'ignorava l'amicizia esistente fra i due. Già vedemmo la curiosa lettera nella quale Giuliano narra all'amico un sogno, in cui è chiaro il presagio della sua prossima fortuna, uno di quei lieti sogni che non vengono se non a chi vivamente desidera una cosa. Oribasio, insieme al fedele servo Evemero, erano soli nella confidenza delle misteriose e sacre cerimonie che Giuliano praticava insieme al gran sacerdote, da lui fatto venire a Parigi dalla Grecia. Finalmente Eunapio, che dice di riservarsi di narrare minutamente ciò che in quell'occasione aveva fatto Oribasio, in una storia di Giuliano la quale poi non ci è giunta, ha, nella vita di Oribasio, una frase complessa e pregna di significato, che si presta a varie interpretazioni, ma che pare accenni alla parte eminente avuta da lui nella ribellione di Giuliano, perchè dice che il valore di Oribasio era tanto che a lui riuscì di far Giuliano imperatore203. Avvenuta la catastrofe, Oribasio fu mandato in esiglio presso i barbari, ma, essendo prezioso a tutti, per la sua scienza medica, gli riuscì di restar a galla nel naufragio dell'ellenismo, ed anzi fu richiamato e rimesso in onore e nei possessi di cui era stato spogliato.

In questo gruppo di filosofi e di amici che erano stati o maestri o compagni di Giuliano e che poi gli si misero al fianco, durante la sua fortunosa carriera, l'uomo più equilibrato e sicuro era Sallustio, il fidato consigliere che già incontrammo, narrando la vita di Giuliano, e che meglio conosceremo, leggendo la lunga lettera che Giuliano gli scrisse al momento della loro separazione. Scrittore e filosofo tanto abile e profondo da saper comporre un chiaro e popolare riassunto delle dottrine neoplatoniche, «per l'uso di coloro che possono ancora esser guidati dalla filosofia e che non hanno l'anima insanabilmente corrotta»204 era insieme un uomo di altissimo valore morale, di grande competenza nelle cose militari ed amministrative, un uomo, infine, degno della fiducia che Giuliano riponeva in lui. Sallustio si rispecchia in questa nobile sentenza: «Gli uomini buoni ritornano agli dei, ma, se anche ciò non fosse, la virtù per sè stessa, ed il piacere e la gloria che vengono dalla virtù, ed una vita senza tristezze e senza padroni, bastano alla felicità del virtuoso».

Che un uomo, come Sallustio, abbia potuto affigliarsi al cenacolo neoplatonico e seguirne le dottrine, ci prova come, sotto alla fioritura di fantastiche superstizioni, le quali poi erano, in fondo, l'espressione del bisogno religioso dell'epoca, esistesse un nucleo di pensiero e di sentimento sano e verace. L'Ellenismo morente non dava solo bagliore di luce torbida come quella che emanava dalla fantasia esaltata di un Giamblico e di un Massimo, ma aveva ancora una forza moralizzatrice, la quale gli conservava il favore e la devozione di molti fra gli uomini migliori e più colti. Non è vero che il meglio della società, nel secolo quarto, fosse compreso nel Cristianesimo. Il Cristianesimo vittorioso ed imperiale aveva ormai attirato a sè il peggio. Ed alcuni fra gli uomini moralmente forti combattevano ancora per la conservazione della debellata, antica civiltà.

Insieme a questi maestri ed a questi uomini illustri, Giuliano avrà avuto, a Nicomedia, a Pergamo, ad Atene, presso di sè, compagni più modesti, il cui nome si è perduto, e che gli avranno fatto una specie di corte, attratti dalla dignità principesca ed anche dalla forza e dal calore del suo ingegno e del suo spirito. Alcuni dei biglietti e delle lettere di Giuliano paiono, infatti, scritti a compagni di studio. Tali erano indubbiamente Eumene e Fariano, ai quali Giuliano, dalla Gallia, manda questa lettera così affettuosa e sensata, in cui si sente il ricordo degli insegnamenti di Edesio e di Eusebio più che di quelli di Massimo e di Prisco. Questi ultimi diventarono dominatori esclusivi del suo pensiero più tardi, quando si trattò di contrapporre religione a religione, miracolo a miracolo.

«A Eumene e Fariano». — «Se alcuno vi disse esservi per l'uomo cosa più dolce e più utile del filosofare tranquillamente e senza sopraccapi, colui, ingannato, vi inganna. Se in voi rimane viva l'antica inclinazione, e non si è spenta, d'un colpo, come una fiamma già fulgida, io mi felicito con voi. Son già passati quattro anni e tre mesi dal giorno in cui ci separammo. Quanto avrei caro di constatare i vostri progressi in questo tempo! Quanto a me, se ancora parlo greco, c'è da stupire, tanto siamo imbarbariti da questi luoghi! Vi raccomando di non disprezzare gli esercizi di logica; non trascurate la retorica e la lettura dei poeti. Però sia maggiore il vostro interesse per la scienza, e ponete ogni sforzo nello studio di Aristotele e di Platone. Qui deve farsi tutto il vostro lavoro; qui la base, la fondazione, le pareti, il tetto. Tutto il resto è un accessorio. Ma anche a questo voi dovete attendere con maggior cura di quella che pongano gli altri nell'opera principale. Io, per la divina Giustizia, vi consiglio tutto ciò, perchè vi amo come fratelli. Foste un tempo miei compagni e assai diletti. Se mi darete retta, io vi amerò ancor di più, mentre sarebbe, per me, un dolore, se vedessi che non mi obbedite. E dove va a finire un dolore continuato, vi chiedo di non dirlo, perchè sento di poter farvi un miglior augurio»205.

Nel chiudere questo studio che ci ha mostrato l'ambiente intellettuale in cui si è svolto lo spirito di Giuliano, possiamo affermare, come conclusione, che il Neoplatonismo e il Cristianesimo son apparsi allorquando il sentimento di patria e di libertà politica, che aveva fatta la forza della società antica, si andava spegnendo, e la religione nazionale non aveva più efficacia, e cadevano le idee che erano state i puntelli della vita sociale, e diventava vivo il presentimento di un'imminente catastrofe e viva, insieme, l'aspirazione ad un rinascimento morale che ridonasse il valore, l'interesse, il significato alla vita. A soddisfare tale aspirazione, nacquero il Neoplatonismo ed il Cristianesimo, che cercarono, e l'uno e l'altro, di ridestare il sentimento del divino, riaccendendolo all'idea di una rivelazione e di una conseguente unione dell'anima umana con Dio. Ma il Neoplatonismo, che non voleva staccarsi dalle tradizioni del pensiero ellenico, cercava la rivelazione nell'ordinamento naturale del mondo, e da qui saliva al concetto del soprannaturale a cui si abbandonava in un'estasi di mistico rapimento. Il Cristianesimo trovava la rivelazione nella persona storica di Gesù, che rappresentava il logos, il Verbo incarnato, ed aveva unito l'uomo a Dio con un vincolo d'amore. Il Neoplatonismo voleva guarire i mali del suo tempo con una speculazione che comprendesse in sè tutti i tesori della filosofia greca, ne fosse quasi il compendio ed il vertice. Il Cristianesimo poneva un nuovo Dio, diffondeva la novella di una celeste redenzione, proclamava l'eguaglianza degli uomini nell'amore paterno di Dio. Il Neoplatonismo e il Cristianesimo erano, e l'uno e l'altro, gli indizii che sorgeva un nuovo ideale a cui le forme antiche sembravano insufficienti. Il Neoplatonismo ha tentato di adattarle, quelle forme antiche, al nuovo ideale. Il Cristianesimo le ha spezzate ed ha inaugurato un nuovo mondo ed una nuova umanità. Dalla eguaglianza del punto d'origine e degli scopi venne che il Neoplatonismo potè introdursi nel Cristianesimo e diventare il fattore principale della sua metafisica. Nella diversità delle vie, per le quali l'uno e l'altro volevano raggiungere quegli scopi, sta il profondo contrasto che ha fatto dei Neoplatonici gli ultimi e più ardenti difensori dell'Ellenismo contro l'azione dissolvente che il Cristianesimo esercitava.

L'ATTEGGIAMENTO DI GIULIANO

Quando Giuliano prese in mano le redini dell'impero, egli trovava il Paganesimo perseguitato ed oppresso, ed il Cristianesimo profondamente diviso in due partiti che si combattevano l'un l'altro, con crescente ferocia. Noi vedemmo come il tentativo di Costantino di fare della Chiesa unificata e concorde uno strumento d'impero avesse trovato, nella inconciliabilità dei partiti teologici, un ostacolo che la sua mano potente non era riuscita a togliere. I figli di Costantino, con le loro divisioni, diedero esca al fuoco della discordia, perchè, mentre Costante, l'imperatore d'Occidente, parteggiava per l'ortodossia nicena, Costanzo, l'imperatore d'Oriente, stava con gli Ariani. Diventato Costanzo solo imperatore, l'Arianesimo, sia pure in una forma mitigata, trionfava su tutta la linea. Costanzo esigliava dalle loro sedi i vescovi che rimanevano fedeli alla formola nicena ed univa in un'eguale persecuzione il paganesimo e l'ortodossia. Ma, in questa, militavano spiriti troppo alti ed impavidi, perchè si potesse ritenere duratura e senz'appello la loro condanna. Non era una pace quella che Costanzo aveva imposta alla Chiesa; era una tregua forzata, uno spegnimento momentaneo, in cui rimanevano accesi i tizzoni, propagatori di rinnovato incendio.

In mezzo allo spettacolo di discordie e di lotte intestine che offriva il Cristianesimo, e nella corruzione già dominante nella società cristiana, specialmente nella corte imperiale, Giuliano che, col fratello, era, per la tenera età, scampato dall'eccidio di tutta la famiglia costantiniana, perpetrato dal cugino Costanzo, veniva, come narrammo, educato, a Costantinopoli, da Mardonio che segretamente infondeva nell'animo del fanciullo l'ammirazione per l'antica coltura ellenica, ed, insieme, l'abitudine di considerare gli antichi come i veri maestri della virtù, di vedere nei loro esempi i modelli insuperabili del bello e del buono. Mandato nella solitudine di Macello, circondato da sacerdoti, in cui vedeva i suoi carcerieri ed i cortigiani dell'odiato Costanzo, il giovinetto, sotto il velo di una necessaria ipocrisia, si accendeva sempre più pei suoi ideali. Che era il Cristianesimo per lui? La religione dei suoi nemici, una religione che pareva avesse autorizzato e sanzionato un eccidio spaventoso, una religione che sapeva adattarsi ai viziosi e turpi costumi di una Corte scellerata e che, di più, era corrosa da lotte fraterne che turbavano la serenità degli spiriti e la sicurezza della dottrina. Ma, forse, la sua avversione al Cristianesimo sarebbe rimasta allo stato latente, se, dalla paura sospettosa di Costanzo, egli non fosse stato esigliato a Nicomedia. Qui, nel focolare del Neoplatonismo che già aveva compiuta, nella scuola di Giamblico, la sua evoluzione religiosa e superstiziosa, Giuliano trovò quel complesso di dottrine che gli rese possibile di organizzare il suo misocristianesimo in un sistema filosofico e pratico, mentre l'influenza di Libanio e dei retori che lo circondavano lo esaltava sempre più nella sua passione d'ellenismo.

Ora noi dobbiamo studiare quale fosse precisamente la dottrina di Giuliano, quali le sue norme direttive nell'impresa a cui si è accinto di restaurare il Paganesimo, quale lo scopo essenziale a cui egli mirava. Per questo studio, noi dobbiamo usare le opere stesse di Giuliano. È Giuliano che, con la sua voce, deve illuminarci sulle sue intenzioni e narrarci la storia del suo infelice e così interessante tentativo. Primieramente noi cercheremo di formarci un concetto delle idee filosofiche che costituivano il fondo del pensiero di Giuliano. Noi sappiamo ch'egli era un allievo di Giamblico e di Massimo, cioè di quei maestri neoplatonici che già avevano trasformato il sistema panteistico di Plotino in un superstizioso misticismo che si aggrappava all'antico Politeismo e tentava di ravvivarne i miti, alterandone l'intima natura. Noi vedremo quale sia stato il risultato di tale insegnamento sullo spirito di Giuliano. In secondo luogo, dovremo osservare la posizione di Giuliano in faccia al Cristianesimo, il modo con cui lo comprendeva e lo combatteva da un punto di vista dottrinale; e finalmente i suoi atti e la sua condotta come restauratore del Politeismo a religione di Stato. Lo studio che già abbiamo fatto della vita di Giuliano, delle condizioni della Chiesa ai suoi tempi, e della filosofia neoplatonica nelle sue tendenze e nei suoi principî essenziali, ci renderà agevole la ricostruzione della figura intellettuale del giovane imperatore.

Sarebbe un tentativo senza costrutto quello di fare un'esposizione precisa e sistematica della filosofia di Giuliano, perchè Giuliano non ha avuto un sistema ben chiaro e definito di idee, bensì, una congerie assai confusa, determinata dalla cornice di misticismo neoplatonico, in cui era contenuta. Il giovane imperatore, morto a trentadue anni, non ha avuto il tempo di dar forma precisa al suo pensiero, tanto più che, durante l'adolescenza e la prima giovinezza, la sua vita era stata sospesa ad un filo, ed egli si sapeva sempre sul punto di esser trucidato dal crudele e sospettoso cugino. Durante gli ultimi otto anni, improvvisato generale ed amministratore, era stato continuamente assorto nelle più gravi preoccupazioni, governare la Gallia, respingere le incessanti invasioni germaniche, poi tentar l'avventura dell'usurpazione del trono imperiale, e finalmente accingersi a quella guerra contro la Persia, nella quale doveva trovar la morte. È già cosa meravigliosa come, in una esistenza così breve e così agitata, egli abbia potuto pensare a scrivere tanto. Ma il suo pensiero ed i suoi scritti dovevano sentire gli effetti della vita tumultuaria ch'egli conduceva, e mancare, pertanto, di ordinata disposizione e di meditata correttezza. Egli stesso racconta di aver, più volte, composte le sue dissertazioni filosofiche di notte, onde approfittare del breve riposo dalle sue ingombranti occupazioni, frettolosamente, senza soccorso di libri, più per lo sfogo di un'anima traboccante di idee e di impressioni che per uno scopo letterario o didattico.

Ma una ragione più essenziale dell'aspetto congestionato e confuso che hanno le idee di Giuliano sta nella dottrina stessa a cui le attingeva. La filosofia regnante nel mondo ellenico dei suoi tempi era il Neoplatonismo, e noi vedemmo nel Neoplatonismo una dottrina la quale sull'orme di Platone, ma con fantasia sbrigliata e tumultuosa, cercava nell'aria rarefatta dell'ideale, o, diremo meglio, del soprannaturale, la spiegazione della natura e della realtà. Ora, il Neoplatonismo, appunto perchè affermava l'esistenza del soprannaturale e vi collocava la causa prima della natura, era una dottrina essenzialmente deista. L'ateismo di Epicuro e di Lucrezio che, nel concetto meccanico del mondo, escludeva l'azione del soprannaturale, non era riuscito a farsi strada. Il Neoplatonismo si trovava al polo opposto. Il problema, per la speculazione filosofica, non era già quello di spiegare l'esistenza dell'universo senza l'intervento di una causa prima, soprannaturale e creatrice, ma quello, bensì, di determinare i rapporti fra questa causa, che si affermava a priori, e l'universo esistente. Ora, non potendo il Neoplatonismo conservare il Politeismo schiettamente naturalistico degli antichi, perchè non rispondeva alle esigenze metafisiche e razionali del momento, e non potendo, d'altra parte, accettare il Cristianesimo, che, con la novità delle sue affermazioni, feriva tutte le tradizioni della coltura ellenica e, col suo monoteismo, inceppava le tendenze panteistiche della filosofia, esso compose un Politeismo simbolico e mistico, pretendendo trovarvi la rappresentazione dei processi creativi, e lasciando, insieme, ad ogni credente la più sfrenata libertà d'interpretazione. A quali eccessi di fantasia e di superstizione quella libertà potesse condurre, noi lo vedremo in Giuliano stesso. Ma qui vogliamo fare una considerazione, che troverà le sue prove nell'analisi del pensiero del nostro eroe. Parrebbe che, fra le follie e gli eccessi della metafisica neoplatonica da un lato e la corretta produzione della dogmatica ortodossa dall'altro, dovesse esistere un'inconciliabile opposizione. Eppure, in fondo in fondo, a ben guardare, l'opposizione è tutta nella fioritura esterna. Il tronco che sostiene e l'una e l'altra è il medesimo. Nell'una e nell'altra noi troviamo lo spiritualismo platonico, con le idee preesistenti al mondo, con gli intelligibili, come le chiama Giuliano. Nell'una e nell'altra, il Dio supremo, soprannaturale per eccellenza ed inconoscibile, crea il mondo, ciò che vuol dire dà un'esistenza materiale alle idee pure, mercè un mediatore divino, che si rivela agli uomini, il logos Cristo, nella metafisica cristiana, il dio Sole nella teologia di Giamblico e di Giuliano. Ecco, la fonte comune da cui si spiccarono le due correnti, discendendo per versanti diversi. La corrente cristiana s'inalveò ben presto nel letto del monoteismo ortodosso. Atanasio, Ambrogio, Agostino innalzarono, lungo il suo corso, argini tanto alti e sicuri, da renderle impossibile il traboccar fuori. La corrente neoplatonica, non trovando nessun letto predisposto ed arginato, si sparse in infiniti rigagnoli e finì per perdersi e sparire nelle sabbie del deserto metafisico.

Il Neoplatonismo, abbarbicandosi al Politeismo, avrebbe, dunque, voluto organizzarlo in un sistema simbolico che rappresentasse la creazione, cioè, la discesa del sovrannaturale nella natura. Ma la molteplicità dei miti era d'impaccio insuperabile alla razionalizzazione del Politeismo. Il Politeismo, nato dalla tendenza dei primi uomini a personificare, in determinate divinità, i fenomeni naturali, potè conservare la sua vita, anche in epoche che avevano completamente perduta la coscienza del suo significato primitivo, trasformandosi in religioni nazionali e locali. Ma, allorquando il sentimento ed il culto della patria si perdettero nella grandezza dell'impero romano, il Politeismo non ebbe più nessuna ragion d'essere e doveva perire. Gli sforzi dei neoplatonici, di Giamblico, di Massimo, di Giuliano, per ravvivarlo ed infondergli uno spirito filosofico, eran condannati ad essere infecondi e ad esaurirsi in artifizi pedanteschi e puerili.

Tuttavia il tentativo di Giuliano è uno degli episodi più interessanti della storia antica, primieramente perchè è sempre interessante lo studio dei moventi di un uomo di grande animo e di acuto ingegno, e tale era, certamente, il giovane imperatore, e poi perchè quel tentativo è la dimostrazione più chiara della inevitabilità della vittoria finale del Cristianesimo. Infatti, il movimento di Giuliano non fu un movimento di reazione, come sarebbe stato quello di ricondurre il Politeismo al significato di religione naturalistica, o di ripristinare il culto patriottico di Atene e di Roma. Giuliano non era un reazionario; non gli è applicabile la qualifica di romantico, che gli danno taluni, trovando una certa analogia fra lui e quegli scrittori della prima metà del nostro secolo che adoravano il Medio-Evo in piena modernità. Non è perdonabile allo Strauss, se non come un artifizio letterario, d'aver, in un libello famoso, adoperato il suo nome, per scagliare una frecciata a quel re Federico Guglielmo di Prussia che sognava di poter andar a ritroso del pensiero del suo tempo. Giuliano era un progressista; ma egli non voleva sacrificare al progresso la coltura antica, di cui era fervente ammiratore, e le tradizioni di civiltà che costituivano pel genere umano un tesoro inestimabile. Egli, pertanto, teneva in piedi il Politeismo su cui posava quella coltura e quella civiltà, ma, tenendolo in piedi, lo cristianizzava non solo sotto l'aspetto della metafisica, ma anche, come or vedremo, sotto quello della morale e della disciplina. Il tentativo di cristianizzare il Politeismo, pur di conservarlo in vita, non poteva esser apprezzato se non da coloro i quali dividevano l'amore di Giuliano per quel complesso di tradizioni, di gloria e di poesia che, con un nome riassuntivo, egli chiamava l'Ellenismo. Ma tale amore non era che di pochi. Nel quarto secolo, la barbarie, anche senza i barbari, era incipiente. Sulle masse, nelle quali era esaurito il sentimento della patria, l'Ellenismo non aveva presa alcuna, e, d'altra parte, gli uomini veramente religiosi, gli uomini che, per la pace dell'anima, sentivano davvero il bisogno di un Dio, come un Ambrogio, un Agostino, pur facendo proprie le idee fondamentali della filosofia neoplatonica, non potevano che ripudiarne i miti confusi e stolti, ed inorridivano davanti al ravvivamento di riti e di sacrifizî diventati ormai assurdi ed odiosi.

Fissati questi punti fondamentali, guardiamo un po' più da vicino il pensiero di Giuliano. Il suo sistema teologico è contenuto nelle due dissertazioni, intorno al Re Sole la prima, alla Madre degli Dei la seconda. Nella confusa esposizione della dottrina, non è facile determinare la rispettiva competenza di questi due personaggi, i quali, nella loro azione, s'intralciano l'un l'altro. Ma, a tale determinazione, non pensava, certo, nemmeno Giuliano, il quale, come egli stesso ci narra, ha scritto quei trattatelli, di notte, fra mille preoccupazioni di imperatore e di generale, con una ispirazione affrettata, venuta da qualche impressione fuggitiva. Il discorso sul Re Sole è dedicato a Sallustio, e fu scritto in tre notti, col solo aiuto della memoria. — Se l'amico Sallustio, egli dice, vuol avere qualche cosa di più profondo dovrà rivolgersi ai libri del divino Giamblico, nei quali troverà il termine dell'umana sapienza. Giuliano quel poco che sa, lo ha preso da lui. Nessuno, per quanto si sforzi di dire cose nuove, non riuscirà mai a dir cose che Giamblico non abbia dette. Sarebbe, dunque, inutile scrivere dopo di lui, quando lo si facesse con un intento scientifico; ma Giuliano ha voluto comporre un inno in onore del Dio, e ha cercato di parlare della sua natura, secondo le proprie forze e meglio che poteva —206. Seguiamolo nella sua affannosa esposizione.

La divinità suprema, il Dio intorno al quale l'universo si organizza è il Sole, il Re Sole, come egli lo chiama. In tale adorazione pel Sole, si sente, più ancora che un precetto dottrinario, un'ispirazione genuina e poetica, come appare dall'eloquente esordio della dissertazione.

«Io affermo che questo discorso sarebbe conveniente a tutte le creature

che respirano e striscian sulla terra

e partecipano alla vita, all'anima razionale ed all'intelligenza. Ma conviene a me più ancora che agli altri, perchè io sono un devoto del Re Sole. E di ciò io posso dare le prove più evidenti. Mi sia lecito, dunque, ricordare che, fin da fanciullo, io sentii un amore vivissimo pei raggi del dio, ed alla luce eterea mi rivolgeva con tutta l'anima, così che non solo avrei desiderato di guardar sempre il Sole, ma se, talvolta, di notte, io usciva sotto un cielo puro e senza nubi, dimenticando ogni altra cosa, mi abbandonava alle bellezze celesti, non comprendendo più ciò che mi si diceva e non badando a ciò che faceva io stesso. Si sarebbe detto che io avessi delle cose del cielo conoscenza e pratica e che taluno avesse, a me giovanetto, insegnata l'astrologia. Eppure, per gli dei, nessun libro che ne trattasse era giunto alle mie mani, e non sapeva nemmeno che esistesse quella scienza. Ma, perchè io mi indugio a dir tutto questo, mentre avrei cose ben più gravi a narrare, se volessi rivelare quali erano allora le mie credenze intorno agli dei? L'obblio copra quelle tenebre!»207.

Con questo inno entusiasta che manifesta un sentimento assai vivo della natura, e rivela la disposizione impressionabile del fanciullo, e con quel grido d'orrore al ricordo dell'educazione cristiana in cui era stato allevato, comincia Giuliano l'esposizione della sua teologia. Ora, se noi cerchiamo di chiarire il pensiero dello scrittore, liberandolo dalla terribile fraseologia di scolastica neoplatonica in cui si avvolge, noi troviamo un sistema trinitario che ha grande analogia col sistema della metafisica ebraico-alessandrina.

Per Giuliano esistono tre mondi: il mondo degli intelligibili, delle idee pure, dove regna il principio supremo del sommo bene, il mondo degli esseri o divinità intellettive, interposte fra le idee pure e la materia, come lo sono gli angeli nel cielo cristiano o l'uomo celeste nel sistema paoliniano. In questo mondo intellettivo, il Principio supremo regna per un'emanazione di sè stesso che è tutta spirituale, e che ha la più stretta analogia col logos di Filone e d'Origene. Finalmente il mondo visibile e concreto, in cui quell'emanazione assume una forma visibile anch'essa che, per Giuliano, è il Sole, nel Cristianesimo ortodosso il logos umanizzato.

Ora, se noi confrontiamo queste idee di Giuliano col prologo del quarto Vangelo, che è poi la base della metafisica cristiana, senza di cui il Cristianesimo, o non sarebbe stato, o sarebbe stato tutt'altra cosa, constatiamo meravigliati che, in fondo, l'acerrimo nemico del Cristianesimo si moveva nel medesimo circolo di idee in cui si trovavano coloro ch'egli combatteva. È sempre quel medesimo concetto fondamentale di un Dio supremo il quale emana da sè un principio razionale, per cui il mondo è creato, e che vi diventa attivo assumendovi una forma determinata e visibile. Quando Giuliano, dopo aver parlato delle due forme invisibili di Dio, dice — Questo disco solare che appare come terza forma di Dio è causa efficace di salvezza agli esseri sensibili —208 non abbiamo che a sostituire alla parola disco la parola logos per aver una frase prettamente cristiana. E si noti che la ragione per la quale Giuliano vede nel Sole la rivelazione del Dio è ch'egli considera la luce come il principio vitale e divino per eccellenza. «La luce — domanda Giuliano — non è forse la forma incorporea e divina di ciò che è potente senz'essere materiale?»209. Ebbene, l'analogia fra la luce ed il principio di vita e di salvezza, fra la luce ed il logos, la troviamo continuamente nei libri cristiani, ed è uno dei motivi su cui il quarto Vangelista ricama con maggior insistenza le sue variazioni. «In lui (nel logos) era la vita, e la vita era la luce degli uomini.... — La vera luce, che illumina ogni uomo era venuta nel mondo. Era nel mondo, e il mondo era stato generato da essa, e il mondo non la conobbe»210.

Il fatto è che tutte queste idee, le quali si attaccavano direttamente alla filosofia platonica, hanno costituita la miscela da cui è uscita la metafisica cristiana da una parte, il neoplatonismo dall'altra. Ma gli ingredienti sostanziali son sempre quelli. Alessandria fu il focolare nel quale, per opera di Filone e della sua scuola, lo spiritualismo platonico ebbe la sua saldatura col monoteismo ebraico. Il metafisico che scrisse il quarto Vangelo, affermando solennemente il monoteismo, salvò il Cristianesimo dalle eresie gnostiche che pullulavano dal lievito platonico. Ma, nella stessa Alessandria, lo spiritualismo platonico, non più saldato al monoteismo, diede origine al simbolismo mistico di Ammonio Sacca, di Plotino e di Porfirio, il quale non si diversifica dal pensiero cristiano che per la mancanza di una determinazione dogmatica nelle sue linee fondamentali, e per la conservazione della pluralità degli dei.

Ma, se vi ha una quasi identità di pensiero fondamentale fra il Cristianesimo ed il Neoplatonismo, v'ha, per un altro rispetto, una differenza, la quale fu la causa vera della prevalenza del primo sul secondo, ed è che il Neoplatonismo non è che una filosofia, il Cristianesimo è, sopratutto, una morale. Ci basti prendere questo discorso di Giuliano, che vorrebbe essere una specie di Vangelo neoplatonico, e porlo accanto al Vangelo di Giovanni. Nel primo, lo scrittore, dopo aver fatta la sua esposizione metafisica, si perde in una così confusa e non saprei dire se più pedantesca o più fanciullesca dissertazione sulle qualità del dio Sole e sui suoi rapporti con le altre divinità dell'Olimpo ellenico, da non riuscire, malgrado i suoi sforzi, se non a comporre un arruffio di idee e di parole che, certo, avrà lasciati storditi e poco convinti i lettori ch'egli voleva convertire alla sua religione solare. Il Vangelista, invece, nel suo prologo, pone alcune tesi solenni che suonano come squilli di tromba in un silenzio misterioso. Ma, chiuso il prologo ed affermata l'identità del Cristo Gesù col logos, la metafisica scompare. La relazione del Cristo con Dio è quella umana del figlio col padre, e tutta l'azione di Gesù non è che un esempio d'amore, come tutte le sue parole non sono che un inno, che un'esortazione all'amore. Certo, Gesù, nel quarto Vangelo, non parla come Gesù nei Sinottici. Risuona, nella sua voce, come un accento che non è terrestre. Il logos non è più nominato, eppure si sente che non è un uomo che parla. Ma, con tutto ciò, l'efficacia morale di quei discorsi, di quel continuo e soave appello ai sentimenti umani, è potente. Qui l'uomo, stanco di una mitologia esaurita, poteva ritrovare l'impulso a credere, ritrovare una fresca scaturigine di fede. Ma il simbolismo di Giuliano, se anche poteva sorridere a qualche fantastico sognatore, lasciava l'umanità indifferente ed incredula. Il carattere dominante di questa filosofia di Giuliano è l'oscurità che proviene, non già dalla profondità del pensiero, ma dalla congestione di idee non digerite, e dallo sforzo di voler dar forme determinate a concetti vaghi ed oscillanti.

Se havvi, in questa confusa filosofia, una teoria fondamentale è ancor quella platonica della preesistenza delle idee, di cui il mondo visibile, il mondo dei sensi, è la riproduzione avvenuta per mezzo di un dio creatore, che, per Giuliano, è emanato e staccato dal dio supremo, e si rivela agli uomini sotto l'aspetto del Sole. Le forme ideali devono preesistere alle forme reali. Infatti «quando la sostanza, che si rivela generatrice nella natura, si appresta a generare nella bellezza ed a deporre un figlio211, è necessario sia stata preceduta dalla sostanza eternamente generatrice nella bellezza ideale, la quale non produce ad intermittenza, perchè ciò che è bello, lo è, nel mondo ideale, da tutta l'eternità. Diciamo, dunque, ancora, che la causa generatrice nei fenomeni deve essere preceduta e guidata da un'idea innata nella bellezza eterna, che il Dio tiene e dispone intorno a sè, a cui distribuisce l'intelligenza perfetta, così, che, come con la luce dà agli occhi la vista, così, col modello ideale, che egli presenta e che è molto più luminoso del raggio etereo, dà a tutti gli esseri intelligenti la facoltà di conoscere e di esser conosciuti»212.

Questa teoria platonica della preesistenza delle idee, che è la conseguenza della distinzione delle due categorie dello spirito e della materia, si trova alla base della metafisica cristiana e dello spiritualismo ortodosso, e divenne più tardi il realismo della scolastica. Questa teoria ebbe un'ultima affermazione nella filosofia rosminiana. Trovare un nesso fra Giuliano e il Rosmini pare un colmo di stranezza, una specie di sacrilegio. Eppure, chi ben guardi, in fondo in fondo, il nesso intellettuale esiste, come esisteva fra Giuliano e quei teologi dei Concilî ch'egli aborriva e che poi lo hanno così ferocemente anatemizzato. È che gli uomini non si uniscono e non si dividono in ragione della somiglianza e del disaccordo delle loro idee. Si uniscono o si dividono, a seconda che il loro abito morale e le loro aspirazioni armonizzano o discordano. Il Cristianesimo e l'Ellenismo, per le idee e per le teorie che rappresentavano, si equivalevano. Nè poteva essere diversamente, dal momento che attingevano al medesimo serbatoio di idee, rispondevano ad un medesimo momento dell'intelligenza umana. Ma queste idee non erano che vesti le quali coprivano delle tendenze morali completamente diverse, alle quali si adattavano in modo da parere errore umano da una parte, rivelazione divina dall'altra. Eppure era sempre la medesima veste diversamente piegata, o, con altra imagine, la medesima vivanda diversamente condita! Il Cristianesimo, il quale poneva nel mondo uno scopo di finalità morale che, nel mondo stesso, non è raggiunto, perchè il mondo è pessimo, spostava l'interesse umano dalla terra al cielo, dal presente al trascendente, dalla vita all'oltretomba. L'Ellenismo che non comprendeva quello scopo di finalità morale, e pel quale, pertanto, il mondo è ottimo, voleva conservato al presente l'interesse dell'uomo, e conservato quell'immenso tesoro di tradizioni, di poesia e di gloria che si era accumulato nell'antichità e che il Cristianesimo vero aborriva e malediva. Lo spiritualismo platonico, che era il prodotto dell'ambiente intellettuale dell'epoca, serviva tanto all'uno che all'altro indirizzo.

Se non che il Cristianesimo, nel quarto secolo, si era ormai tanto diffuso ed era così profondamente entrato nelle abitudini sociali che anche i suoi nemici dovevano seguirlo ed assumerne talvolta il linguaggio. Da qui, in Giuliano, una specie di ardore nella preghiera, come una fiamma mistica, che gli antichi non conoscevano. Il discorso sul Re Sole finisce con un inno. Giuliano si atteggia a devoto. Se si sente, nelle sue parole, qualche cosa di artifizioso, di scolastico, se non c'è l'estasi di Plotino che si sprofonda e si annega in Dio, se non c'è lo slancio di S. Agostino, vibrante dell'emozione di un'anima rapita in una divina contemplazione, c'è pur sempre un sentimento religioso più profondo di quello che animava i cultori del Politeismo. «Mi concedano gli dei di celebrare più volte le feste sacre, e me lo conceda il dio Sole, re dell'universo, lui, che, procede, da tutta eternità, dalla sostanza generatrice del bene, e sta in mezzo agli dei intellettivi li riempie di armonia, di bellezza infinita, di sostanza fecondante, di intelligenza perfetta, e continuamente e senza fine d'ogni bene; lui che, dall'eternità, brilla nella sede destinatagli nel mezzo del cielo; lui che dà ad ogni essere visibile la bellezza dell'idea; lui che riempie tutto il cielo di tanti numi quanti ne comprende nella sua intelligenza; lui che, in virtù della sua continuità generativa e della potenza benefica emanante dal suo corpo circolare, armonizza la compagine di questa sede sublunare, prendendo cura di tutta la schiatta umana e, in special modo, di questo nostro Impero; lui che, dall'eternità, ha creata la nostra anima, facendola sua seguace. Mi conceda, dunque, tutto ciò di cui l'ho pregato, e mantenga, con benevolenza, la perpetuità dell'Impero. Conceda a noi di ben riuscire nelle cose divine ed umane, fin quando ci permetterà di vivere, e faccia durare la nostra esistenza fin quando a lui piaccia, e riesca utile a noi e giovevole alla prosperità delle cose romane... Ancora una volta, io supplico il Sole, re del Tutto, per la devozione mia, di essermi benevolo, di darmi una vita felice, un pensiero sicuro, un'intelligenza divina, e, infine, al momento destinato, una liberazione tranquillissima dalla vita, e mi conceda di ascendere e di restare presso di lui, possibilmente in eterno, e, se ciò fosse superiore ai miei meriti, almeno per molti periodi di anni numerosi»213.

Insieme al discorso sul Re Sole, Giuliano ci ha lasciato un altro trattato teologico, ed è il discorso, o inno, come si voglia chiamare, alla Madre degli Dei, che l'entusiasta imperatore scrisse, in una notte, a Pessinunte, mentr'era in marcia per la spedizione contro i Persiani. Lo scritto, faticoso e confuso come tutte le manifestazioni filosofiche e teologiche di Giuliano, comincia con una deliziosa e nota leggenda che Giuliano ci racconta con la genuina semplicità di un vero poeta. Qui vogliamo riprodurla, per mostrare come, sotto al pedantesco e retorico allievo di Libanio e di Massimo, esistesse uno spirito pieno di grazia e di sentimento. Dopo aver detto che i Greci tenevano in alto onore il culto di Cibele, la Madre degli Dei, egli ricorda che i Romani, al tempo della guerra contro Cartagine, cercarono, per consiglio della Pizia, di rendersela favorevole, e poi così continua: «Nulla mi vieta di aggiungere qui una piccola storia. Saputo l'oracolo, gli abitanti della religiosa Roma deliberano di mandare un'ambasceria a chiedere ai re di Pergamo, che allora possedevano la Frigia, ed agli stessi Frigi, il santissimo simulacro della dea. Ricevuto, quindi, il sacro carico, lo posero sopra una larga nave oneraria, capace di navigare sicuramente per l'ampio mare. Attraversati l'Egeo e l'Jonio, costeggiata la Sicilia, ecco arriva alle foci del Tevere. E il popolo usciva dalla città insieme al Senato, e lo precedevano i sacerdoti e le sacerdotesse, tutti e tutto nell'ordine conveniente, secondo i patrî riti. E ansiosi guardavano la nave che correva col vento in poppa, mentre intorno alla carena spumeggiavano le onde solcate. Quando fu sul punto d'entrare, tutti si prosternarono a terra, lì dove ognuno si trovava. Ma la dea, come desiderosa di mostrare al popolo romano che non è un sasso scolpito ed inanimato ciò che arriva dalla Frigia, ma un oggetto in cui sta una potenza grande e divina, appena la nave tocca il Tevere, ecco la ferma, e la tiene immobile come se, d'un colpo, avesse messo radice nel letto del fiume. La tirano contro corrente, e non si muove. Credendo che si fosse incagliata, tentano di spingerla, ma non cede alla spinta. Le si applicano tutti gli strumenti, ed è sempre immobile. Allora cade un terribile ed iniquo sospetto sulla vergine consacrata al santissimo sacerdozio, e si accusa Claudia — tale era il nome di quella santa — di non essersi conservata intatta e pura alla dea, che apertamente manifestava il suo sdegno. Claudia si copre di rossore, udendo il suo nome ed il sospetto, tanto era lontana dal turpe ed illecito fallo. Poi, quando vede che l'accusa contro di lei prendeva forza, slacciatasi la cintura, ne cinge la punta estrema della nave, e, come ispirata, comanda a tutti di trarsi indietro, e supplica la dea di non abbandonarla in preda ad iniqui oltraggi. Quindi, ad altissima voce, quasi desse un comando navale: — Madre santa, esclama, se io son pura, seguimi. — Ed ecco che la vergine non solo smuove la nave, ma la trascina, per lungo tratto, contro la corrente!... Io so, conclude Giuliano, che alcuni, fra coloro che si dan l'aria d'esser saggi, diranno che queste son fiabe da vecchierella. Ma io preferisco credere alle tradizioni popolari piuttosto che a questi eleganti, la cui animuccia potrà essere acuta, ma mi ha l'aria d'esser anche ammalata»214.

Il discorso intorno alla Madre degli dei è interessante perchè ci mostra il processo di interpretazione mitica che Giuliano, discepolo dei neoplatonici, applicava alle leggende antiche, onde razionalizzarle e renderle accettabili alla metafisica idealista e spiritualista che dominava nel pensiero del tempo.

Giuliano parte, nella sua interpretazione, dal principio fondamentale della filosofia platonica, già da lui affermato nel discorso sul Re Sole, cioè, l'esistenza di un mondo ideale di cui il mondo materiale è il riflesso. Le imagini degli esseri, come insegna Aristotele, esistono rispecchiate nell'anima, ma vi esistono idealmente ed in potenza. «Ma è pur necessario che le imagini, prima di esistere in potenza, esistano in azione. Dove le porremo? Forse nelle cose materiali? È chiaro che queste vengono per le ultime. Non ci resta, adunque, che di cercare delle cause ideali, preordinate alle materiali215, dalle quali l'anima nostra, subordinata e coesistente, riceve, come uno specchio le imagini degli oggetti, le idee delle forme, e le trasmette, per mezzo della natura, alla materia ed ai corpi materiali»216.

Ora, il mito di Cibele o della Madre degli dei è, per Giuliano, la rappresentazione simbolica del procedimento pel quale l'idea si concretizza nella materia e ritorna poi alla sua essenza primitiva. È noto che, secondo la leggenda, Cibele, innamorata castamente di Atti, gli aveva imposto di non conoscere donna alcuna. Ma Atti s'era invaghito della ninfa Sangaride, e, penetrando nell'antro, dimora di lei, le si era congiunto. Da qui lo sdegno di Cibele, a placar la quale, Atti aveva dovuto evirarsi, dopo di che egli era stato riammesso agli onori di prima. È noto anche che questa storia era, in origine, un mito naturalistico, che rappresentava il succedersi delle stagioni, mito che, come era avvenuto di tanti altri, era poi stato umanizzato e drammatizzato dalla fantasia orientale ed ellenica. Giuliano pretende di veder, in quel mito, l'espressione di un concetto filosofico, e, per riuscire a dimostrarlo, lo tormenta con una sottigliezza di interpretazione bizzarra e faticosa. Tuttavia, anche qui non è privo d'interesse il cogliere lo sforzo che questi rinnovatori del Paganesimo andavan facendo per introdurre nei miti antichi un pensiero che questi non potevano contenere, per versare propriamente del vino nuovo in vasi vecchi, già rotti e screpolati. Riportiamo qualche saggio di tale sforzo.

«Chi è, dunque, la Madre degli dei? È la scaturigine di tutti gli dei ideali e creatori che governano gli dei visibili; la dea che coabita e che genera col gran Dio; grande anch'essa dopo il grandissimo, la signora di ogni vita, la causa di ogni generazione, che subito perfeziona ciò che ha fatto; che genera senza sofferenze e crea, insieme al padre, tutti gli esseri; vergine senza madre, partecipe del trono di Dio, è madre di tutti gli dei, poichè accogliendo, in sè stessa, le cause di tutti gli dei ideali e sovrannaturali, divenne scaturigine di tutti gli dei conoscibili. Questa dea e questa provvidenza si prese d'amore per Atti»217. Atti rappresenta, nel mito, il principio creatore e generatore. Ora, la dea, nell'innamorarsi di Atti, gli ingiunge di generare solo nell'idea, non guardando che a lei che è il simbolo dell'unità, e di fuggire ogni inclinazione alla materia. Ma Atti non seppe restar fedele alla dea, e cadde quindi nella procreazione delle forme materiali. Ora, è per richiamare il principio generatore al mondo ideale, ed impedire che esso si corrompa e si perda intieramente nella materia, che la Madre degli dei, insieme al Sole, che è, con lei, il principio provvidenziale e che nulla può fare senza di lei, induce Atti all'evirazione, che rappresenta la limitazione nella decadenza materiale del principio generatore ed il suo ritorno al mondo ideale. Se non ci fosse questa limitazione, voluta dalla provvidenza, il principio generatore, delirante nei suoi eccessi materiali, si sarebbe esaurito diventando impotente per le funzioni ideali218. E Giuliano chiude la sua singolare interpretazione del mito con queste parole: «Il mito insegna a noi che, celesti per natura nostra, siamo venuti in terra, ad affrettarci a ritornare presso il Dio datore di vita, dopo aver mietuto, nel soggiorno in terra, la virtù e la pietà. Adunque, il segnale del richiamo che la tromba dà ad Atti, dopo l'evirazione, lo dà anche a noi che dal cielo cademmo in terra. Se Atti, coll'evirazione, limita l'infinità delle sue cadute, a noi pure gli dei comandano di evirarci, cioè, di limitare in noi stessi l'infinità materiale, e di tendere all'unità formale e, fin dove è possibile, all'unità essenziale. Che mai di più giocondo, di più ilare di un'anima che fugge dal turbine che in lei solleva l'insaziabilità dei desideri e l'impulso della generazione e che si innalza agli stessi dei? Ed Atti, che era uno d'essi, e che andava più in là di quanto conveniva, non fu abbandonato dalla Madre degli dei, che a sè ancora lo volle e lo fermò nell'infinità delle cadute»219.

Giuliano, dopo essersi dilungato nella bizzarra esposizione della leggenda divina, insiste sul carattere essenzialmente mitico della stessa. «Non supponga alcuno che io parli, come se tutto ciò fosse realmente avvenuto, quasi che gli dei non sapessero quello che facevano, o dovessero correggere i propri errori. Ma gli antichi, sia guidati dagli dei, sia pensando per sè stessi, scoprendo le cause degli esseri, le velarono di miti strani, affinchè l'invenzione, con la stranezza e con l'oscurità, ci spingesse alla ricerca della verità. Agli uomini volgari è sufficiente il simbolo irrazionale, ma per coloro che si distinguono per l'ingegno, la verità delle cose divine riuscirà utile, solo quando la scopriranno dopo averla cercata, coll'aiuto degli dei. Gli enimmi ci devono far riflettere che dobbiamo indagarli, onde raggiungere, coll'osservazione, la scoperta della suprema realtà, e ciò non già per rispetto e fiducia nelle opinioni altrui, ma bensì pel lavoro della nostra intelligenza»220. Il razionalismo rigoroso, che si rivela in questo brano, avrebbe dovuto condurre Giuliano a constatare la completa evaporizzazione delle sue divinità. Ma egli voleva tener in piedi una religione, perchè la dottrina neoplatonica, in cui era cresciuto, affermava l'esistenza del sovrannaturale e, quindi, la necessità di una religione positiva, e poi perchè egli voleva essere il restauratore di un culto e di una fede capace di tener testa al Cristianesimo. Da qui una singolare contraddizione nelle sue manifestazioni ed un difetto intrinseco nel sistema che gli rendevano impossibile la vittoria sul Cristianesimo, il quale aveva, invece, un dio così ben determinato, così chiaro, così storico, da poter accogliere in sè il principio mitico e metafisico del logos, senza perdere in nulla l'efficacia della sua persona. Ma pure Giuliano si sforzava di conservare agli dei, sui quali ragionava con una sottigliezza così pedantesca e fantastica insieme, una sufficiente realtà, per poterli adorare e supplicare. Già vedemmo le belle parole con cui comincia e finisce il discorso intorno al dio Sole. Ebbene, anche il discorso intorno alla Madre degli dei finisce con una preghiera di credente infervorato. «O Madre degli dei e degli uomini, che siedi sul trono di Dio, origine degli dei, tu che partecipi alla pura essenza delle idee ed, accogliendo da queste la causa del tutto, la infondi agli esseri ideali, dea della vita e rivelatrice e provvidenza e creatrice delle anime nostre, tu che hai salvato Atti e lo hai richiamato dall'antro in cui s'era sprofondato, tu che largisci tutti i beni agli dei ideali, e ne colmi il mondo sensibile, deh, voglia tu concedere a tutti gli uomini la felicità, di cui è vertice la conoscenza degli dei, fa che il popolo romano cancelli la macchia dell'empietà, e che la sorte favorevole gli conservi l'impero per molte migliaia d'anni, fa che io raccolga, come frutto della devozione per te, la verità della scienza divina, la perfezione nel culto, la virtù ed il successo in tutte le imprese politiche e militari a cui ci accingiamo, e un termine della vita senza tristezza e glorioso, insieme alla speranza di venire presso di te»221.

Non è questa forse una preghiera, la quale, omettendo e modificando qualche frase, più che altro, ornamentale, avrebbe potuto stare nella bocca di un cristiano? Non vi si sente, in fondo, un'identica ispirazione? Questa invocazione alla Madre degli dei viene, è vero, dopo un lungo discorso, nel quale la personalità della dea, passando attraverso i filtri delle spiegazioni mitiche, è intieramente svaporata, così che la preghiera a lei rivolta si perde nel vuoto. Ma, quando si ricorda che questa preghiera è stata scritta da un uomo che si era accinto alla più arrischiata delle imprese e che stava per affrontare i supremi pericoli, non si può vedere, in queste supplicazioni, una vana declamazione, ci si sente una parola che esprime un sentimento vero. Il sentimento si modifica nell'espressione a seconda della forma che assume, ma non era meno vivo il sentimento religioso in Giuliano che aveva fatto apostasia dal Cristianesimo di quello che fosse in molti di coloro che al Cristianesimo si convertivano.

La teoria del valore e del significato dei miti ha nel sistema di Giuliano una somma importanza, anzi, è la chiave di vôlta che gli impedisce di sfasciarsi. Nel panteismo neoplatonico, non potevano trovar sede le divinità e le favole del Politeismo. Dirò di più; il grande concetto plotinico, pel quale l'universo è l'estrinsecazione di un unico e supremo principio che si manifesta con le idee rispecchiate dalle forme concrete, poteva condurre ad una meditazione estatica sulla divinità, ma difficilmente avrebbe potuto accordarsi con una religione positiva. Ed infatti Plotino, come narra Porfirio nella vita del maestro, talvolta si sublimava nella visione divina, senza per questo partecipare a nessun culto determinato. Ma i suoi successori, spinti, in parte, dalle condizioni psicologiche del tempo, in parte dalla necessità di preoccupare un posto che altrimenti sarebbe stato preso dal Cristianesimo, vollero creare una religione positiva e, non avendo a loro disposizione nessuna figura divina determinata e storica, presero le antiche divinità del Politeismo, e pretesero che si rendesse loro un culto di sacrifizî e di preghiere, affermando insieme non essere quelle divinità che meri simboli di concetti filosofici. In questa strada nessuno è andato più avanti di Giuliano che era tutto, direi imbevuto di dottrina metafisica mal digerita, e che, insieme, come imperatore nemico del Cristianesimo, voleva porre in piedi una vera religione di Stato, la quale impedisse lo sfacelo dell'Ellenismo.

Giuliano non credeva affatto nella realtà oggettiva delle personificazioni del Politeismo. In un graziosissimo e scherzoso biglietto ad un amico egli scrive: «L'Eco per te è una dea ciarliera, e consorte di Pane. Io non dico di no. Poichè quand'anche la Natura mi insegnasse che l'Eco è un suono della voce che, ripercosso, passando per l'aria, ritorna all'orecchio, pure, consentendo alle credenze degli antichi e dei moderni non meno che alle tue, voglio concedere che sia una dea»222. Ma se Giuliano, come appare da queste parole, sapeva, con la sua acuta intelligenza, disciogliere il mito nella affermazione del fenomeno naturale, lo conservava come simbolo di concetti filosofici, e nulla gli stava tanto a cuore quanto il giustificare razionalmente tale trasformazione. La tesi, già toccata nel discorso intorno alla Madre degli dei, è ampiamente svolta in uno degli scritti più curiosi di Giuliano, il discorso contro il cinico Eraclio.

Questo discorso che contiene molte pagine piene di spirito e di garbo, ma che manca, come quasi tutti gli scritti di Giuliano, del fren dell'arte, è interessante specialmente per due ragioni, la prima perchè vi troviamo esposto il concetto che Giuliano, sull'orma dei neoplatonici, si formava del mito e del significato della leggenda mitologica, la seconda perchè, con una assai bella ed assai chiara allegoria, egli racconta la propria storia, dà la giustificazione della sua condotta e formola, come oggi si direbbe, il suo programma imperiale.

Dietro a questo discorso deve esserci un antefatto che non conosciamo, ma che si può imaginare con molta approssimazione alla verità. Giuliano, diventato imperatore, doveva incontrar l'opposizione di tre sorta di nemici; primieramente s'intende, dei Cristiani, poi di quei Pagani ai quali non garbava punto la trasformazione mitica che il neoplatonico imperatore voleva imporre all'antica religione, alle semplici, intelligibili ed umane favole d'un tempo, finalmente di tutti coloro i quali, interessati nella corrotta amministrazione dell'impero, sentivano il danno delle riforme iniziate dall'inquieto legislatore. Il cinico Eraclio stava fra coloro che non ammettevano l'interpretazione filosofica della mitologia ellenica, non comprendevano lo sforzo di Giuliano per infondere in quella uno spirito nuovo che le permettesse di fronteggiare il Cristianesimo. Il cinismo, fin dal tempo del suo fiore, con Antistene e con Diogene, era stato una filosofia essenzialmente pratica, che voleva insegnar all'uomo ad accontentarsi del meno possibile, a vivere in un'ascetica indifferenza per tutti i godimenti materiali. Essa stava lontana, in un atteggiamento sospettoso, dalle speculazioni metafisiche, e riduceva la sua dottrina filosofica a pochi aforismi morali. Ma, nel procedere dei tempi, ciò che il Cinismo aveva avuto di buono, il rigore della vita e dei costumi, passò allo Stoicismo, e il Cinismo degenerò in una caricatura, in una dottrina da ciarlatani che se ne servivano per ingannar la gente, e vi trovavano una fonte di illeciti guadagni. I neocinici erano naturalmente nemici di Giuliano, di cui odiavano l'indirizzo speculativo e la pura morale. Giuliano li ricambia di santa ragione. Nel discorso contro i Cinici ignoranti, come in quello contro Eraclio, egli ne smaschera i vizii, le bassezze, le turpitudini, dimostra la meschinità della loro dottrina, la quale avrebbe impacciata l'evoluzione mitologica che costituiva per l'Ellenismo l'elemento indispensabile della sperata vittoria. E Giuliano, infatti, con astiosa arguzia, vede nei Cinici degli alleati dei Cristiani, ed insiste sui tratti di somiglianza che, secondo lui, esistono fra le due sette223.

Eraclio aveva tenuto un discorso, in una grande assemblea, presente l'imperatore, nel quale, pare, aveva dato corso alle sue facoltà inventive, per comporre delle favole che offendevano, secondo Giuliano, il concetto della divinità. L'imperatore, sciolta l'assemblea, prende sdegnato la penna e scrive un'invettiva contro l'empio bestemmiatore, per dimostrare quale sia l'ufficio del mito, e come si devano interpretare le leggende relative agli dei. Il discorso, come dissi, è lunghissimo, pieno di allusioni che non sempre si possono comprendere e di spiegazioni mitiche tormentate e confuse. Ma è pur sempre interessante e sintomatica l'intenzione da cui lo scrittore è mosso di polemizzare, anche indirettamente, col Cristianesimo, creando dei simboli che potessero prendere il posto del dio cristiano. Ciò appar chiaro nella interpretazione ch'egli dà della storia d'Ercole e di Bacco. Come non vedere un tentativo di cristianizzare la figura d'Ercole plasmandola su quella di Gesù, quando egli dice che Ercole passava a piedi asciutti il mare, ed aggiunge: «Che mai era impossibile ad Ercole? Che mai non obbediva al suo divino e purissimo corpo? Gli elementi tutti non obbedivano, forse, alla potenza creatrice e perfezionante della sua intelligenza incorruttibile? Il sommo Giove... lo fece salvatore del mondo, poi lo sollevò sulle fiamme del fulmine, fino a sè, e gli comandò di venire come figlio presso di lui, sotto il segno divino del raggio eterno. Voglia Ercole essere propizio a me ed a voi!»224.

Tutte le spiegazioni che Giuliano dà dei miti posano sopra un concetto fondamentale ch'egli cerca di esporre, sebbene soggiunga che la sua vita di soldato e le urgenti occupazioni da cui è premuto non gli lasciano il tempo di maturare convenientemente le sue idee225. «La natura, egli dice, ama nascondersi, e la parte nascosta della sostanza degli dei non sopporta di essere gittata, con nude parole, nelle orecchie impure. Ma l'essenza ineffabile dei misteri giova anche non compresa; essa salva le anime e i corpi, e provoca la presenza degli dei. Così avviene coi miti, i quali, attraverso i loro velami, e per mezzo di enimmi, versano le cose divine nelle orecchie della maggior parte degli uomini, incapaci di riceverle nella loro purezza»226. In queste parole è contenuto il principio fondamentale che Giuliano ha attinto agli insegnamenti dei suoi maestri neoplatonici. Gli uomini sono nella maggior parte, incapaci di comprendere la verità divina. I miti sono la veste di cui si copre quella verità per diventare accessibile alla mente umana. Il filosofo deve scrutarli, onde cogliere il nucleo di scienza e di realtà soprannaturale che in essi è celata. Giuliano, certo, ha posto propriamente il dito sulla questione, quando afferma che le forme positive della religione non sono che simboli coi quali l'uomo cerca di render ragione a sè stesso dell'esistenza e della natura dell'universo. Ma il suo errore fu di credere di poter creare, con una teoria siffatta, una religione determinata. Egli non ha compreso dove stava la superiorità del Cristianesimo sul Neoplatonismo. La figura del Cristo si prestava, anch'essa, a tutte le interpretazioni simboliche, ma non si lasciava disciogliere perchè possedeva una vera e propria realtà storica ed oggettiva e, pertanto, rimaneva come un punto solido intorno a cui una religione positiva poteva cristallizzarsi. Nella mitologia di Giuliano, invece, ogni realtà scompariva e non restavano che delle confuse larve metafisiche, alle quali poi ripugnava il culto grossolanamente materiale con cui si voleva che fossero adorate.

Dissi che questo discorso contro Eraclio è interessante anche perchè Giuliano vi racconta la propria storia. Egli dice di voler mostrare coll'esempio come si deva comporre un nuovo mito, e narra una lunga parabola, la quale è trasparentissima e, sotto un velo leggero, ci presenta le cause e la giustificazione dell'usurpazione tentata da Giuliano e di tutta la sua condotta, ottenuto che ebbe l'impero. L'allegoria è chiara, narrata con eleganza e con snellezza, ed è rivelatrice della profonda onestà dell'anima di Giuliano e dell'altissimo concetto ch'egli si faceva dei suoi doveri. L'imperatore Costantino, al quale il nipote non poteva perdonare il rivolgimento avvenuto nelle condizioni del Cristianesimo, è da lui rappresentato come un uomo ignorante e violento che aveva accumulate immense ricchezze. Ma, mancando affatto d'ogni metodo di governo, credendo che la forza potesse tener il luogo della scienza e della virtù, non aveva nemmeno pensato ad educare i suoi figli per l'ufficio che avrebbero un giorno tenuto. Così avvenne che, lui morto, i numerosi eredi, venuti a discordia gli uni con gli altri, sparsero di rovine, di stragi e di delitti il podere paterno. Questo spettacolo toccò il cuore di Giove, il quale chiamò il Sole, per indurlo ad uscire dallo sdegnoso abbandono in cui aveva lasciata l'empia casa dell'uomo potente. Chiamate a consiglio anche le Parche, la Santità e la Giustizia, Giove rivela il suo proposito di salvare, in quella casa, un fanciulletto che sta per essere soffocato, se non si viene in suo pronto aiuto. Quel fanciullo dovrà essere il riparatore di tanti mali che Giove deplora. Il Sole è lieto di questa risoluzione del Padre, perchè egli vede ancora accesa, nel fanciulletto, una scintilla del fuoco divino, così che, insieme a Minerva, si accinge ad educarlo alla virtù ed al sapere. Ma, toccata l'adolescenza, il futuro salvatore, vedendo coi suoi occhi la grandezza dei mali, conoscendo la sorte toccata ai suoi parenti ed ai suoi cugini, stava per precipitarsi nel Tartaro, quando il Sole e Minerva lo addormentano e con un sogno lo distolgono dal suo proposito. Svegliatosi, egli si trova in un luogo deserto, dove gli appare Mercurio che gli addita una via facile e fiorita, la quale lo conduce presso un monte altissimo, sulla cui vetta sta il Padre degli dei. «Chiedi, dice Mercurio, ciò che vuoi. A te, o fanciullo, scegliere il meglio». «Giove padre, esclama il giovanetto, mostrami la via che conduce a te». Ed ecco il Sole gli si appressa e gli annuncia ch'egli deve ritornare fra i perversi da cui è fuggito. Piange il giovane e prevede la sua morte. Ma il Sole gli fa cuore e gli rivela ch'egli è destinato a purgar la terra da tutte le empietà che la contaminano. Egli deve confidare in lui, in Minerva, in tutti gli dei. L'erede, solo rimasto, di tutto (è l'imperatore Costanzo) circondato da pastori malvagi (e sono i vescovi), lascia andar tutto in rovina, sprofondandosi nei piaceri e nell'ozio. Pertanto egli stesso, il Sole, insieme a Minerva, per volontà di Giove, porranno lui, il giovanetto, al posto dell'erede e lo faranno governatore di ogni cosa. E la parabola finisce coi saggi consigli che il Sole e Minerva danno al loro protetto. Per verità se, invece dei nomi di divinità greche, si avessero quelli di angeli o di santi, si riconoscerebbe un'intonazione prettamente cristiana nelle ultime parole del Sole: «Va, dunque, con buona speranza, poichè noi saremo sempre con te, io e Minerva e Mercurio e con noi tutti gli dei che sono nell'Olimpo, nell'aere e sulla terra, finchè sarai rispettoso per noi, fedele agii amici, benevolo coi sudditi, imperando su di essi e guidandoli al meglio. Non renderti mai schiavo delle passioni tue nè delle loro.... Va, dunque, per tutta la terra, per tutto il mare, obbedendo, senza esitanza, alle nostre leggi, e mai nessuno, nè degli uomini, nè delle donne, nè dei famigliari, nè degli estranei ti induca ad obbliare i nostri comandi. Se tu li osserverai, sarai amato da noi, rispettato dai nostri buoni devoti, temuto dagli uomini perversi e male ispirati. Sappi che questo corpo carnale ti fu dato onde tu possa compire tale ufficio. Noi vogliamo purgare la tua casa, per rispetto de' tuoi avi. Ricordati che tu hai un'anima immortale, procreata da noi e che, se tu ci seguirai, sarai fra gli dei e contemplerai, insieme a noi, il Padre nostro»227.

Che singolare figura è mai questa dell'imperatore Giuliano! Come mai dal ceppo di Costantino è uscito questo nobile e generoso rampollo? V'ha in questa lunga parabola, di cui qui non ho dato che lo scheletro, l'espressione di un sentimento alto e puro, che non poteva venire che da un'anima profondamente onesta ed aperta al buono ed al bello. E si guardi lo strano fatto! Furono, appunto, i Costantiniani scellerati che favorirono il Cristianesimo e fu il solo Costantiniano generoso ed onesto che tentò il salvataggio del Paganesimo! È che il Cristianesimo, in più di tre secoli di esistenza, roso dalle eresie, diventato ricco e potente, s'era trasformato in una istituzione mondana, in una religione tutta di forme, ed aveva perduta gran parte della sua efficacia morale. Tanto è vero che già, come reazione contro la crescente mondanità del Cristianesimo, era apparso nel suo seno l'ascetismo monacale, in cui rivivevano, in parte, gli ideali dei primi tempi cristiani. Il Cristianesimo ufficiale, in cui gli Ariani si accapigliavano cogli Atanasiani, ed avevano la supremazia negli onori e nelle ricchezze, era già in avanzata corruzione, quando i favori imperiali, togliendolo dai pericoli e dalle difficoltà dell'esistenza, ne accelerarono il pervertimento. Non bisogna dimenticare che Costantino fu uno sciagurato, reo dei più gravi delitti, primo fra i quali l'uccisione del figlio Crispo. Ma egli era un avventuriero fortunato, abile, dal colpo d'occhio sicuro, il quale comprese che, dopo l'insuccesso completo della persecuzione di Diocleziano, la più sistematica di tutte, all'impero non rimaneva altra uscita che di allearsi col nemico che non aveva potuto vincere. Da qui l'editto di Milano e poi l'istituzione di una Chiesa dello Stato ed il Concilio di Nicea. Costanzo, che era scellerato non meno del padre, senza avere neppur l'ombra del suo ingegno, contribuì grandemente al progressivo inquinamento del Cristianesimo. Giuliano, davanti a tale spettacolo, si ribellò. Il Cristianesimo, fatto partecipe dell'autorità imperiale, non l'aveva moralizzata; s'era, anzi, prestato al suo corrompimento. «Il podere va in rovina — esclama Giuliano, nella sua allegoria. — Pochi sono i pastori onesti; per la maggior parte sono predatori e feroci. Divorano e vendono le pecore del padrone e rovinano le sue mandre». Ora, Giuliano era un idealista, il quale aveva passata la sua prima gioventù fra i terrori di una morte sempre imminente, nell'odio dei cortigiani cristiani che circondavano lo sciagurato cugino, nello studio, nel culto appassionato della letteratura e della filosofia greca e di tutto quel complesso di tradizioni, di dottrina, di gloria che egli comprendeva sotto il nome d'Ellenismo. Egli, pertanto doveva sentirsi nascere in cuore prima il sospetto, poi l'aborrimento per la religione che voleva prenderne il posto e che si atteggiava a terribile nemica di ciò ch'egli adorava. Nell'inesperienza delle forze vere che reggono il mondo, inebbriato dai fantastici dottrinari che gli stavano al fianco, Giuliano credette di poter portare rimedio ai mali di cui era testimonio con un ritorno all'antico, accompagnando questo ritorno con una riforma la quale piegasse l'antico alle esigenze dello spirito nuovo. Ora, quando si considera il valore intellettuale veramente grandissimo di Giuliano, valore che si rivela in tutta la sua azione di generale, d'amministratore, di scrittore, non può esser giudicato leggermente il suo tentativo, quasi fosse una follia romanzesca e giovanile. Giuliano per l'animo e per l'ingegno, valeva incomparabilmente di più degli imperatori cristiani che lo hanno preceduto e che lo hanno seguito. Eppure mentre questi si sono abbandonati alla corrente, egli solo ha tentato di andare a ritroso. Bisogna, dunque, dire che questo movimento di Giuliano rispondesse a qualche cosa, a qualche aspirazione, a qualche idea grande e realmente sentita. Il vero è che l'iniziativa di Giuliano fu l'ultimo sforzo, e il solo sforzo razionalmente fatto, per salvare la civiltà. Dissi più su che Costantino, visto l'insuccesso della persecuzione di Diocleziano, aveva creduto conveniente per la salvezza dell'impero di allearlo col nemico che non poteva debellare. Ma Costantino, uomo rozzo ed ignorante, non poteva comprendere che il Cristianesimo, nella sua essenza, era l'antitesi più recisa dell'antica civiltà per cui se, alleato coll'impero, avrebbe avuta un'azione più lenta nella sua efficacia distruggitrice, non l'avrebbe, per questo, resa, a lungo andare, meno esiziale. Nell'abbraccio col Cristianesimo l'impero doveva rimaner soffocato. Il Cristianesimo, imprimendo alle energie morali un indirizzo opposto a quello che avevano avuto nel mondo greco-romano, creando nuove aspirazioni e distruggendo le antiche, dissolveva propriamente la società e preparava gli elementi di una nuova formazione. Giuliano comprese, o almeno genialmente intuì, che, per salvare l'impero non si doveva abbracciare il Cristianesimo, come aveva fatto Costantino, e nemmeno perseguitarlo, come Diocleziano, ma bisognava crear qualche cosa che rispondesse, in parte, a quelle esigenze le quali trovavano soddisfazione nel Cristianesimo, e che, nel medesimo tempo, conservasse le basi del pensiero e della civiltà antica. Per questo, egli ha iniziato quel movimento che io ho chiamato la cristianizzazione del Paganesimo. Certo, questo movimento era destinato a non riuscire, per due ragioni. Prima di tutto, il mondo voleva una religione. Non potendo più credere nel Politeismo antropomorfico e nazionale, non avrebbe creduto nemmeno nel Politeismo mitico, così confuso ed ingarbugliato, che Giuliano prendeva dal Neoplatonismo e con cui si illudeva di poter soddisfare le aspirazioni religiose dei suoi contemporanei. Sarebbe stato più facile persuaderli ad adorare ancora Apollo, auriga del sole, che il nuovo dio Sole, in cui la dottrina mitica vedeva una rivelazione luminosa della Trinità creatrice. In secondo luogo, quale fosse il valore intellettuale e morale del movimento, esso veniva troppo tardi. Noi non abbiamo nessuna statistica la quale ci dica in quale proporzione si dividessero i Cristiani e i Pagani, nel quarto secolo, nel mondo romano. Ma basterebbe la promulgazione dell'editto di Costantino a persuaderci che i Cristiani dovevano essere in numero enorme. Certo, il Politeismo resisteva ancora, specialmente nelle campagne, come lo dimostra il nome stesso di pagani, inventato dai Cristiani. Ma questi avevano ormai il sopravvento ed occupavano gli uffici e le alte cariche. La conversione non era più solo una quistione di coscienza e di fede, ma un affare ed un atto di abilità. Ora, era evidentemente impossibile fermare una spinta che era stata impressa da secoli, sospendere una frana che, rotolando dal monte, si era enormemente ingrossata. Forse, il Cristianesimo si poteva arrestare al suo apparire. Malgrado l'incomparabile energia di Paolo che lo aveva divelto dalla natia Palestina, per portarlo in tutto il mondo, malgrado la geniale fantasia del quarto Vangelista che aveva saputo impadronirsi del pensiero antico, il Cristianesimo, senza lo scellerato e stolto capriccio di Nerone, si sarebbe, forse, spento nell'oscurità. Fors'anche, il tentativo di Giuliano, di riformare il Politeismo, iniziato, due secoli prima, con più prudente temperanza speculativa, da un Trajano, da un Antonino, da un Marco Aurelio, avrebbe potuto interrompere il progresso della propaganda cristiana. Ma, ai tempi di Giuliano, l'impresa era del tutto disperata. Il non averlo compreso dimostra quale anima entusiasta fosse nel giovane imperatore, e come egli s'ingannasse sul valore di ciò che voleva distruggere e di ciò che voleva sostituire. Ma, in ogni modo, l'idea da cui era mosso, lo scopo a cui tendeva, gli venivano da un animo generoso e innamorato di cose grandi e belle. La sua impresa fu l'ultimo guizzo di un mondo che andava morendo.

Può parer singolare che nella bella allegoria, che ci ha dato il motivo di questa digressione, Giuliano si atteggi apertamente a restauratore della fortuna dell'impero, compromessa dai suoi antecessori, mentre non accenna che a parole coperte alla sua guerra al Cristianesimo e non fa nessuna esplicita dichiarazione. Certo, quei pastori che sciaguratamente consigliano il padrone e gli rovinano il gregge sono cristiani e probabilmente son vescovi; le empietà di cui il Sole raccomanda a Giuliano di purgare la terra sono le chiese e le tracce del culto cristiano. Più chiara e più acerba è l'allusione alla distruzione dei templi antichi, sostituiti nella venerazione dei devoti dalle sepolture dei martiri. «Si distrussero dai figli i templi, già prima disprezzati dal padre e privati degli ornamenti, che i loro stessi antenati vi avevano posti. In luogo dei templi distrutti, costrussero dei sepolcri e vecchi e nuovi, spinti come da una voce interna e dal fato stesso, poichè, dopo breve tempo, essi dovevano aver bisogno di molti sepolcri, in punizione di aver trascurati gli dei»228. Qui Giuliano accenna, senz'ombra di equivoco, a Costantino ed ai suoi figli. Tuttavia, questa cura singolare di non parlare apertamente dei Cristiani in un'allegoria che è data come il programma del suo governo, è indizio che l'imperatore voleva andare, per gradi, nella sua azione e non si arrischiava di comprometterla con dichiarazioni che gli avrebbero sollevate potenti opposizioni. Ciò dimostra, anche, ch'egli sentiva, in petto, le difficoltà dell'impresa e che, almeno quando scriveva questo discorso, comprendeva la necessità di muovere il passo con molta prudenza.

Giuliano, essendo stato, fin dalla fanciullezza, perfettamente chiuso ad ogni influenza che lo potesse piegare ed aprirgli l'anima al fascino del Cristianesimo, era nelle condizioni di spirito e di pensiero necessarie per poterlo scrutare criticamente e per analizzare, da un punto di vista affatto oggettivo, gli elementi di cui si componeva, le tradizioni su cui si appoggiava. Infatti, il Cristianesimo partecipa necessariamente a quella condizione caratteristica di tutte le religioni, di essere, cioè, intangibili, perfette, provate, evidenti per chi ci crede a priori, e di sfasciarsi, come nebbia al sole, per chi le guardi senza la lente di una fede preventiva. Tutte le religioni, passate e presenti, hanno la certezza di un fatto constatato per chi le professa, e paiono addirittura assurde a chi ne sta fuori. Non c'è uomo, per quanto pieno di sè stesso, il quale non si senta costretto ad ammettere che, talvolta, possa aver ragione chi ha un'opinione diversa della sua. Ma non c'è Cristiano al quale possa mai passar pel capo la possibilità di credere nella religione di Maometto o di Budda, e che non sappia addurre le più evidenti ragioni per dimostrarne l'irragionevolezza assoluta. Ma non c'è Maomettano o Buddista il quale non si trovi, in faccia al Cristianesimo, nelle medesime condizioni in cui il Cristiano è in faccia a loro, e che sia sprovvisto di ragioni per non credere in ciò in cui crede il Cristiano. Questi crede che il Cristo sia risorto, perchè lo trova affermato in un dato libro, il Maomettano crede che Maometto abbia avuta una rivelazione divina, perchè lo trova affermato in un altro libro. Ma la fiducia nell'uno o nell'altro di questi libri non può che essere l'effetto di un sentimento a priori. Chi non ha tale sentimento trova subito che le prove dell'una o dell'altra affermazione non sono sufficienti.

Che qualsiasi religione appaia irrazionale a chi non crede a priori è la conseguenza del fatto che la religione si assume un compito che è superiore alla ragione, quello cioè di rappresentare i rapporti esistenti fra un essere soprannaturale, che si suppone esistere fuori del mondo, e il mondo che sarebbe da lui creato. Per eseguire un tal compito, superiore alla ragione, l'uomo non può che adoperare la propria ragione. Ma è chiaro che adoperar la ragione per rappresentare ciò che è al di sopra e al di fuori della ragione non può condurre che ad una rappresentazione la quale dovrà rivelarsi irrazionale a chi la guardi senza la lente di una fede preventiva. A noi pare irrazionale la religione dei Giapponesi; ma ai Giapponesi pare irrazionale il Cristianesimo. Un vecchio scrittore giapponese, Hakusaki, il quale, nel 1708, conobbe un missionario italiano, andato al Giappone, lasciò scritto che questo straniero era un uomo saggio e buono, ma che diventava matto quando parlava di religione. «Che dobbiamo pensare, scrive Hakusaki, dell'idea che un dio non ha potuto redimere un'umanità perduta da un peccato (di cui, del resto, non si vede la gravità), un'umanità che è opera sua, punita per aver trasgredita una legge che era pure sua opera, se non facendosi uomo, tremila anni più tardi, sotto il nome di Gesù e soffrendo una morte ignominiosa? Che storia puerile! Un giudice sovrano non può, forse, addolcire le pene da lui promulgate od anche far grazia al condannato, senza, per questo prendere il suo posto in mezzo ai tormenti?».

Il ragionamento di Hakusaki, che pare tanto evidente a chi non crede, non ha neppur l'ombra dell'efficacia per chi porta in sè stesso la fede, come un elemento costitutivo della propria organizzazione morale. Non comprende, affatto, il fenomeno essenziale della religione chi s'illude di poterlo combattere con logici ragionamenti. Questi ragionamenti che sembrano al razionalista armi invincibili, sono pel credente un telum imbelle. Il credere non è l'effetto di un'operazione, ma, bensì, di una disposizione della mente. E questa disposizione rimane intangibile a qualsiasi dimostrazione razionale. Un ragionamento analogo a quello di Hakusaki è stato fatto dai polemisti pagani, ma, davanti a quel ragionamento, insorgeva la coscienza dell'umanità assetata di redenzione, ansiosa di una palingenesi che la facesse uscire dalle tenebre del peccato e della sventura. L'inesplicabilità del processo di redenzione diventava una ragione di credere in esso, appunto perchè la ragione appariva insufficiente, impotente a redimere l'uomo. Fu lo scandalo della croce che ha convertito Paolo. Ricordiamo le sue grandi parole: «Non ha forse Dio istupidita la sapienza del mondo? Poichè il mondo non conobbe Dio per mezzo della sapienza, volle Dio salvare i credenti colla stoltezza dell'annuncio. Gli Ebrei chiedono dei prodigi, i Greci cercano la sapienza, noi annunciamo Cristo crocifisso, uno scandalo per gli Ebrei, una stoltezza pei Greci, ma per noi eletti, Ebrei e Greci, Cristo forza di Dio e sapienza di Dio». Ed agli Hakusaki del suo tempo, Tertulliano rispondeva coi meravigliosi paradossi: Crucifixus est dei filius; non pudet, quia pudendum est. Et mortuus est dei filius; prorsus credibile est, quia ineptum est. Et sepultus resurrexit; certum est, quia impossibile est229.

Giuliano, che era cresciuto in un ambiente nel quale non si credeva al Cristianesimo, non durava fatica a porre il dito sulle contraddizioni dottrinarie e storiche delle tradizioni cristiane. E, siccome egli non era immunizzato dall'antidoto della fede, quelle contraddizioni erano per lui una prova evidente della debolezza del Cristianesimo. Egli s'illudeva che bastasse additarle, perchè il Cristianesimo cadesse, e non comprendeva che tutte le sue dimostrazioni critiche, urtando contro la rupe della fede, non riuscivano nemmeno a scalfirla. La critica della religione non attecchisce se non là dove il pensiero scientifico ha tolta, o, almeno, attenuata la necessità di avere una religione positiva, cioè, nell'uomo moderno. Ma nulla era più lontano dal tempo e dalle abitudini intellettuali di Giuliano che il pensiero scientifico. Ciò è tanto vero che egli, pur pretendendo di abbattere, con le armi della critica, il Cristianesimo, metteva in piedi una religione che all'assalto di quelle armi non avrebbe resistito neppure un istante.

Giuliano, essendo dunque perfettamente libero da ogni predisposizione di sentimento favorevole al Cristianesimo, si accinse a fare, contro di esso, la sua opera di critico demolitore. Compose un trattato contro i Cristiani, in cui discuteva le ragioni del Cristianesimo, dal punto di vista della storia e della filosofia, e cercava di provarne l'essenziale debolezza. Questo trattato andò completamente perduto, al pari di quelli di Celso e di Porfirio, scritti col medesimo scopo. Libri siffatti dovevano essere, pei Cristiani, troppo irritanti, perchè questi potessero tollerarne la conservazione; la loro distruzione è la conseguenza naturale di una spiegabile intolleranza. Però, del trattato di Giuliano, come di quello di Celso, si potè rintracciare qualche reliquia sufficiente a darci un'idea del lavoro. Tanto Celso, quanto Giuliano, ebbero due potenti confutatori. Il primo fu discusso e contraddetto da Origene, il secondo da Cirillo d'Alessandria verso la metà del secolo quinto. Ora, dal testo dei confutatori è possibile ricostruire, almeno in parte, il testo confutato. Teodoro Keim ha fatto questo lavoro pel trattato di Celso; il Neumann lo ha fatto pel trattato di Giuliano, con uno di quegli sforzi meravigliosi di critica che sono resi possibili dalla moderna erudizione. Se non che dell'opera stessa di Cirillo, che pare constasse di una ventina di libri, non rimangono che dieci, e questi dieci sono intieramente dedicati alla confutazione del primo libro dell'opera di Giuliano che pare fosse composta di tre. Non è dunque che un frammento che il Neumann è riuscito a ricostruire. Ma questo frammento è prezioso e basta a darci un'idea dell'indirizzo polemico del suo autore.

Il trattato contro i Cristiani sarebbe stato scritto, a quel che narra Libanio, nella sua orazione funebre, durante il soggiorno dell'imperatore in Antiochia. Noi sappiamo che Giuliano dimorò in Antiochia, dall'Agosto del 362 al Marzo del 363, tutto intento ai preparativi per la funesta spedizione di Persia. Ebbene, in mezzo a tali gravissime preoccupazioni, l'infervorato giovane, approfittando delle lunghe notti invernali, narra Libanio, scriveva, per dimostrare ridicola e vana la fede dei Cristiani, un libro che, sempre al dire di Libanio, era più poderoso di quello stesso che aveva dettato, al medesimo scopo, il vecchio di Tiro, cioè, Porfirio230. Certo, la circostanza di aver scritto, in un momento ansioso, un libro così grave, trovando, insieme, il tempo di comporre la brillante satira, il Misobarba, è la prova più luminosa della singolare versatilità di Giuliano e della sua profonda conoscenza del nuovo e del vecchio Testamento. Vogliamo anche ammettere, con Libanio, che il trattato di Giuliano riuscisse più erudito di quello stesso di Porfirio, ma ci pare assai probabile che l'esistenza del trattato di Porfirio abbia giovato potentemente al suo successore, pel quale poi erano sacri tutti gli insegnamenti e tutte le parole dei suoi maestri neoplatonici. Ci pare proprio incredibile che, senza il libro di Porfirio, che gli doveva servire di falsariga, Giuliano riuscisse, nei pochi ed agitati mesi della sua dimora in Antiochia, a comporre il suo.

Come dicemmo, il Neumann, dal testo di Cirillo, è riuscito a ricomporre la trama del primo libro di Giuliano. Si comprende come il lavoro del critico, per quanto acutissimo, non possa essere, in parte, che un lavoro ipotetico, poichè non è possibile di avere nessun dato preciso nè sulla interezza nè sull'ordine delle citazioni contenute nel testo della scrittura confutante. Però, la lettura del libro di Giuliano, quale risulta dalla ricostituzione che ne ha fatta il critico, pur lasciando qualche dubbio sui dettagli dell'ordinamento, ci dà una chiara nozione dei concetti fondamentali su cui si svolgeva l'argomentazione di Giuliano e del valore dell'argomentazione stessa. Noi troviamo anche qui quella singolare miscela di acume, di spirito, di critica razionale e, insieme, di pregiudizio e di superstizione che è caratteristica di Giuliano e che già abbiamo constatato negli altri suoi scritti. Però, a giudicare dal frammento che possediamo, il trattato contro i Cristiani doveva esser l'opera più pensata di Giuliano, quella in cui l'acutezza del critico demolitore si esercitava sicuramente, perchè più libera da preconcetti filosofici e scolastici. Se il Cristianesimo avesse potuto esser demolito dall'analisi critica delle sue basi e dei suoi documenti, il libro di Giuliano avrebbe fatto l'ufficio di un piccone robusto.

Noi dobbiamo esaminarlo, questo libro, non già pel suo valore intrinseco, ma perchè, come documento storico, ha un grande interesse e contiene, esposte da Giuliano stesso, le cause razionali della sua apostasia. Qui l'apostata attacca direttamente il Cristianesimo. Gli imperatori antecedenti lo avevan combattuto col ferro e col fuoco. Egli crede possa bastare il vigore dei suoi ragionamenti. Certo, in alcuni punti, non gli manca l'acume e la dottrina. Ma un giudice veramente imparziale ed illuminato, leggendo la critica di Giuliano, avrebbe potuto dirgli: Medice, cura te ipsum.

Il libro così comincia: «Pare a me conveniente esporre a tutti gli uomini le ragioni da cui fui convinto che la stolta dottrina dei Galilei è un'invenzione messa insieme dalla perversità umana. Non avendo in sè nulla di divino e, servendosi della inclinazione dell'animo verso ciò che è mitico, fanciullesco e irrazionale, riuscì a far passare per vere le sue favole prodigiose. . . . . . . . . . . . . .

«Vale la pena di esaminare brevemente donde e come venne a noi primieramente l'idea di Dio. Quindi confrontare ciò che intorno alla divinità si dice, presso i Greci e presso gli Ebrei e, dopo ciò, interrogare coloro che non sono nè Greci nè Ebrei, ma appartengono all'eresia dei Galilei, per qual motivo preferirono alla nostra la dottrina degli Ebrei, e di più perchè non stettero fermi su questa, ma se ne separarono per seguire una via propria. Non accettando nulla di ciò che noi Greci abbiamo di bello e di buono e nulla di ciò che gli Ebrei ebbero da Mosè, presero, invece, i vizî che agli uni e agli altri furono attaccati come da un demone perverso, l'empietà dall'intolleranza ebrea, la vita scostumata e turpe dalla nostra leggerezza ed intemperanza, ed osarono chiamar tutto ciò la religione perfetta»231.

In questo piccolo proemio son posti i due punti fondamentali su cui si svolge tutta la polemica di Giuliano, primieramente la superiorità del politeismo ellenico nel monoteismo ebraico, che egli crede essere un'applicazione errata di un principio essenzialmente vero; in secondo luogo la contraddizione in cui cadono i Cristiani, i Galilei, come egli sempre li chiama, con intenzione di disprezzo, i quali, mentre affermano di derivare la loro dottrina e la loro idea del divino dalla religione ebraica, la offendono poi nei suoi concetti più essenziali.

Giuliano era un polemista assai abile ed arguto e sapeva cogliere prontamente il punto debole dell'avversario. Per combattere il monoteismo ebraico egli si ferma sul suo difetto propriamente fondamentale, che è di avere un Dio, per sua natura, esclusivamente nazionale. Il Dio degli ebrei non è il Dio del genere umano, è il Dio di un dato e piccolo popolo. Ora, dice Giuliano, è possibile assumere un Dio siffatto a Dio unico di tutta l'umanità? È possibile che il creatore di tutti gli uomini abbia serbati i suoi favori ad una così esigua, impercettibile minoranza? Questo ragionamento è la chiave di volta di tutta la confutazione giulianea. A lui riesce assai facile dimostrare, coi testi alla mano, come Mosè abbia inteso propriamente far del suo Dio il Dio esclusivo degli Ebrei. E poi continua: «Che Dio, fin dal principio, siasi curato solo degli Ebrei e ne abbia fatto il popolo eletto, non lo dicono solo Mosè e Gesù, ma anche Paolo. Costui, a seconda della convenienza, cambiava le sue convinzioni intorno a Dio, come i polipi cambiano il colore della pelle, a seconda degli scogli a cui si attaccano, ed or sosteneva che solo agli Ebrei è data l'elezione divina, ed ora voleva persuadere i Greci a farsi devoti a lui, dicendo: — «Dio non è solo Dio degli Ebrei, ma di tutte le genti, sì, di tutte le genti. — Ma, in questo caso si dovrebbe domandare a Paolo, perchè mai Dio largì solo agli Ebrei il dono profetico, e Mosè e il crisma e la legge e i miracoli? E, infine, mandò loro anche Gesù. A noi, invece, nessun profeta, nessun sacerdote, nessun maestro, nessun messo della sua tardiva benevolenza? Anzi, egli non si curò per miriadi o, se volete, per migliaia d'anni, di tutti coloro che dall'Oriente all'Occidente, dal Settentrione al Mezzogiorno, nella loro ignoranza, adoravano gli idoli, e non avrebbe fatta eccezione che di una piccola schiatta, la quale, da meno di duemila anni, abita la Palestina. Se egli è Dio e creatore di tutti perchè ci ha trascurati?... E dovremo ammettere che di questo Dio dell'universo, voi soli, o solo taluni della vostra razza, siate riusciti a formarvi un concetto razionale?».232

Questi argomenti di Giuliano non sono privi di acume. Ma è cosa sintomatica dell'ambiente intellettuale, in cui Giuliano scriveva, ch'egli non si accorgesse che il sistema da lui posto innanzi, come l'espressione della verità, era altrettanto irrazionale e assai più puerile di quello ch'egli combatteva. Il politeismo neoplatonico, quale era uscito dalle elucubrazioni di Giamblico, di Massimo e degli altri entusiasti successori di Plotino, era un politeismo di secondo grado. Affermava un Dio supremo, unico, creatore di tutto, ma, sotto questo Dio, si collocavano degli Dei minori, per mezzo dei quali avveniva il processo creativo, e nei quali Giuliano vedeva poi le divinità protettrici delle diverse nazionalità. Egli, quindi, non aveva difficoltà a riconoscere anche il Dio ebraico, ma ne faceva una di queste divinità secondarie, con le quali credeva di poter spiegare le diversità esistenti da popolo a popolo, delle quali altrimenti non riusciva a trovar ragione. Certo, non è il caso di soffermarci a dimostrare quanto siano fanciullesche queste fantasie. Ma è interessante il leggere almeno una pagina di Giuliano per veder come, laddove manchi la conoscenza sicura e scientifica della realtà, la mente umana erri, senza bussola, nel mare dell'imaginazione, e si lasci subito riavvolgere dalla nebbia ch'essa crede d'aver dissipata. «Confrontate — dice Giuliano, dopo aver confutato il monoteismo ebraico — a questa dottrina la dottrina nostra. I nostri maestri affermano che il creatore è padre e re dell'universo, ma ch'egli distribuisce i popoli fra divinità etniche o locali, ciascuna delle quali tiene il governo a seconda della propria natura. Poichè nel padre tutto è perfetto ed unico, ma negli dei parziali variano le facoltà le une dalle altre. Così, Marte governa i popoli bellicosi, Minerva i bellicosi e sapienti insieme. Mercurio i prudenti più che gli audaci; infine i popoli condotti da divinità nazionali seguono la tendenza essenziale di ognuna di esse. Ora, se l'esperienza non confermasse la nostra dottrina, essa sarebbe un'invenzione od un artifizio stolto, la vostra, invece, dovrebbe lodarsi. Ma se, invece, l'esperienza di tempi infiniti sta a prova di ciò che affermiamo, mentre nulla concorda con le vostre idee, perchè conservate tanta smania di dispute? Ditemi, di grazia, quale sia la causa per la quale i Celti ed i Germani sono coraggiosi, i Greci e i Romani civili ed umani, ma, insieme, d'animo fermo e guerresco, gli Egizî più prudenti e più industriosi, i Siri imbelli e molli, timidi e leggeri, ma pronti nell'apprendere? Se di tale diversità fra i popoli non si vuole vedere causa alcuna e si afferma che essa si verifica automaticamente, come mai si potrebbe poi credere che il mondo sia governato dalla Provvidenza? Che se, invece, si vogliono porre delle cause, mi si dica e mi si insegni, come farle risalire ad un solo creatore. È chiaro che la natura umana ha posto a sè stessa le leggi che le erano adatte, civili ed umane laddove dominava la benevolenza, rozze ed inumane dove tale era l'indole dei costumi. Poichè i legislatori ben poco aggiunsero, coll'educazione, alla disposizione primitiva.... Perchè dunque tale differenza fra i popoli nei costumi e nelle leggi?»233.

In fondo, la difficoltà contro cui s'urtava Giuliano esiste realmente, quando si ponga una creazione voluta, con una finalità prestabilita. L'inesplicabilità dell'organizzazione dell'universo, quando lo si imagini pensato a priori da una volontà cosciente, è sentita da Giuliano in tutta la sua realtà. È veramente acuta, ed originale nell'antichità, l'osservazione che non sono le leggi che fanno gli uomini, ma gli uomini che fanno le leggi, ciò che viene a dire che la morale non ha nulla d'assoluto; è un fenomeno relativo alle condizioni preesistenti degli uomini e dei tempi. Che tutto ciò sia inesplicabile, data una volontà creatrice e cosciente, che l'ammettere questa volontà sia un cadere in una rete di contraddizioni è tanto chiaro che gli uomini hanno finito per trovare che il solo modo di uscire dalla difficoltà era di porre il mistero, poi chiudere gli occhi ed ingoiarlo. Ma Giuliano non voleva accontentarsi di spiegazioni che non spiegavano, e, pertanto, ne cercava una che fosse, o che, almeno, gli paresse soddisfacente. Ma siccome la difficoltà è assolutamente insuperabile, perchè il concetto antropomorfico della divinità, il quale impone di cercare la causa della creazione, è anche quello che impedisce di trovarne una che sia ragionevole, così egli cade necessariamente in una spiegazione tanto scipita da essere la prova più evidente del completo esaurimento in cui era finito il Politeismo.

L'origine di queste divagazioni neoplatoniche è il Timeo di Platone. Giuliano, nel suo trattato, non manca di porre a raffronto la cosmologia platonica con quella di Mosè, per trarne argomento a dimostrare la maggiore ragionevolezza della creazione per gradi e per gerarchie divine, proposta da Platone, in confronto alla creazione per atto diretto di un creatore unico, ed è evidente che la sua teoria degli dei etnici e locali è una variazione del tema platonico. Chiarita, secondo Giuliano, la posizione del monoteismo ebraico in faccia al politeismo ellenico, e dimostrato l'errore degli Ebrei di considerare come Dio unico e supremo quello che non era che un Dio secondario e parziale, il polemista passa a svolgere il secondo dei suoi concetti fondamentali, e vuol dimostrare il torto dei Cristiani che non seppero stare nè con gli Ebrei nè coi Greci e l'insostenibilità della loro pretesa di derivare da una religione della quale la loro dottrina è la più aperta negazione. «Voi siete come le sanguisughe, — dice Giuliano ai Cristiani; — avete succhiato, da ogni parte, il sangue infetto e avete lasciato il puro.... Voi invidiate agli Ebrei l'ira e l'odio, e rovesciate i templi e gli altari, e trucidate non solo coloro che rimangono fedeli alle patrie leggi, ma anche gli eretici che pur professano i vostri stessi errori, solo perchè, nella loro piangente adorazione del morto234, non seguono, in tutto il vostro rito. E tutto questo è opera vostra, poichè nè Gesù nè Paolo ve lo hanno comandato. E la ragione è che essi non hanno sperato mai che voi arrivaste a tanta potenza. Erano ben contenti, se riuscivano ad ingannare qualche ancella o qualche schiavo, i quali, a loro volta, ingannassero donne ed uomini del valore di Cornelio e Sergio, dei quali se uno solo è ricordato fra gli illustri dell'epoca dite pure che io sono, in tutto, un mentitore»235.

Ma almeno si fossero i Cristiani serbati fedeli alla dottrina ebraica. No, afferma Giuliano; essi si allontanarono da questa più ancora che dalla nostra. L'empietà cristiana si compone della superbia ebraica e della leggerezza ellenica. Prendendo dalle due parti non ciò che hanno di buono ma ciò che hanno di peggio, si hanno tessuta una veste di vizî. «A dire il vero, voi vi siete compiaciuti di esagerare la scioperataggine nostra, e avete creduto bene di adattare i vostri costumi a quelli degli uomini più abbietti, mercanti, esattori, ballerini e ruffiani»236.

Chi mai potrebbe supporre, a priori, che i Cristiani, la cui religione aveva la sua ragion d'essere in una reazione contro l'immoralità del mondo greco-romano, fossero in tre secoli, diventati più immorali di coloro che avrebbero dovuto correggere, così che il polemista pagano poteva combatterli in nome della morale offesa? Non vi ha prova maggiore per illustrare la tesi che la morale non è un elemento esterno che si introduce, dal di fuori, nell'uomo; è bensì il prodotto di tutto il suo essere intimo. Il Cristianesimo apparve moralizzatore, nei primi tempi, perchè i Cristiani, durante le persecuzioni, rappresentavano una selezione. Quando il Cristianesimo vittorioso si generalizzò dovette adattarsi all'ambiente dell'epoca, e si corruppe. Non fu il Cristianesimo che ha moralizzata la società; fu la società che ha corrotto il Cristianesimo.

Ma, continua Giuliano insistendo sulla differenza esistente fra Cristiani ed Ebrei, i Cristiani riconoscono di esser diversi degli Ebrei contemporanei, ma affermano di essere rigorosamente Ebrei secondo i precetti posti dai profeti e secondo quelli di Mosè. E Giuliano entra in una discussione che dimostra la conoscenza esatta e minuta ch'egli aveva della letteratura ebraica. Egli afferma, con la testimonianza dei testi, che Mosè non poteva predire la venuta del dio Gesù, dal momento che assolutamente non ammetteva che un solo ed indivisibile Dio. Egli ha parlato di profeti, di angeli, di re, giammai di un dio che discendesse in terra. Giuliano coglie in contraddizione i Cristiani perchè, onde andar d'accordo con Mosè, fanno discendere Gesù da Davide e, insieme, lo fanno concepito dallo Spirito Santo. Perciò essi hanno inventata la genealogia davidica di Giuseppe, ma non seppero far concordare i due Vangeli che la presentano. Che se poi i Cristiani pretendessero di credere anch'essi in un solo Dio, cadrebbero nella più aperta contraddizione col testo del Vangelo di Giovanni, che da nessun'arte d'interpretazione potrà mai essere messo d'accordo coi testi mosaici237.

Ma, anche nei riguardi del culto e dei sacrifizi, i Cristiani si distaccano dagli Ebrei non meno che dai Greci. Infatti, secondo Giuliano, Mosè stabilisce nel Levitico una procedura di sacrifizî che per nulla si distingue da quella dei sacrifizî greci. E, se anche fosse esatto, ciò che Giuliano afferma non essere, che gli Ebrei più non sacrificano, ciò dipenderebbe solo dalla circostanza che non esiste più il tempio di Gerusalemme, che era il luogo dove solo potevano compiersi i riti solenni. Ma i Cristiani, che non hanno questa obbligazione di colleganza fra il rito ed una sede determinata, non hanno ragione alcuna di non compiere le cerimonie prescritte. Il vero è che gli Ebrei, salvo il principio dell'unicità di Dio, si assomigliano in tutto ai Greci, mentre i Cristiani si allontanano dagli uni e dagli altri. Non ammettono le forme del culto che i Greci e gli Ebrei concordemente vogliono; non riconoscono l'infinita pluralità del politeismo ellenico, ma, affermando una trinità divina, non riconoscono nemmeno il monoteismo ebraico238.

In tutta questa argomentazione è chiaro che Giuliano, quando vuol dimostrare che i Cristiani hanno torto di non voler sacrificare come i Greci e gli Ebrei, è un polemista meschino e pedantesco, ma, quando afferma che i Cristiani, con la loro trinità divina, offendono, insieme, il monoteismo rigoroso degli Ebrei e il politeismo largo dei Greci, e si collocano in una posizione razionalmente non sostenibile, egli è, almeno nell'apparenza, nel vero. È tanto nel vero che il dogma della trinità, come vedemmo, non fu accettato se non con ripugnanza grande dagli spiriti conseguenti alle premesse del monoteismo, e fu il tizzone che accese le terribili lotte che, dal terzo al quinto secolo, hanno squarciato il Cristianesimo nascente. E finì per essere accolto come un mistero inscrutabile.

Giuliano passa poi a dimostrare come i Cristiani, affermando che la legge ebraica fosse perfettibile, si pongano nella più aperta contraddizione con ciò che ha scritto Mosè, così che è del tutto insostenibile la loro pretesa di vedere nella religione d'Israele l'origine e la base del Cristianesimo. Ma c'è di più. Ed è che i Cristiani, non paghi di porsi in contraddizione con gli Ebrei da cui si dicono usciti, contraddicono sè stessi, poichè, nei Vangeli, egli dice, vi sono affermazioni inconciliabili fra loro, e la dottrina del logos incarnato nel Cristo, rappresentante una persona divina, che è un'invenzione di Giovanni, invano la cercate in Matteo, in Marco, od in Luca. Questa argomentazione è condotta in modo da dimostrare che il polemista imperiale conosceva assai bene la letteratura cristiana e, se non fosse la passione d'odio che lo accieca, si potrebbe quasi dire che, talvolta, nel suo metodo, c'è il sentore della critica moderna239.

Ma, certo, questo sentore non c'è nell'invettiva contro i Cristiani pel loro culto pei sepolcri. Non si accontentano, egli dice, di adorare il morto Gesù, vogliono adorare anche quelli che son morti dopo di lui, ed hanno ingombrato ogni luogo di sepolcri e di monumenti, sebbene in nessun loro libro si dica che sia dovere di aggirarsi intorno ai sepolcri e di adorarli. Con queste parole Giuliano accenna al culto che i Cristiani professavano pei loro martiri, a cui innalzavano santuari sulle rovine dei templi abbandonati o distrutti. Questo culto lo irritava in un modo particolare, e la ragione della sua irritazione va cercata in parte, forse, in un sentimento estetico, ma, forse, più ancora nella grande efficacia che quel culto esercitava sull'imaginazione dei credenti. Egli, dunque, con cavilli pedanteschi, si affatica a dimostrare che quel culto non era voluto da Gesù che adoperava i sepolcri come termine di confronto di cose turpi, ed afferma che i Cristiani onorano i sepolcri, solo per cavarne una potenza di malefizî magici240.

Ma i Cristiani fanno ciò che Dio e Mosè e i Profeti hanno riprovato, e poi si ricusano di sacrificare agli altari, quando l'episodio di Caino e di Abele, rettamente interpretato, dovrebbe persuaderli che Dio aggradisce i sacrifizî di offerte viventi. E perchè i Cristiani non si circoncidono? Paolo ci parla della circoncisione del cuore. Ma il comando di Dio, nella Genesi, è troppo esplicito, perchè sia possibile eluderlo, senza mancare alla legge. E Gesù ha dichiarato di venire non ad alterare la legge, ma a compirla. — «Ah, voi dite che vi circoncidete nel cuore! — esclama Giuliano con acerba ironia. — E avete ragione, perchè fra voi, lo si vede, non esiste nessun malvagio, nessun scellerato! Bella davvero la vostra circoncisione del cuore!». Il vero è che i Cristiani disobbediscono apertamente ai precetti del loro stesso Maestro241.

Giuliano finisce il primo libro del suo trattato, il solo di cui siansi conservate le reliquie, ritornando sull'accordo esistente, secondo lui, fra il politeismo ellenico ed il monoteismo ebraico, e sull'identità dei riti e dei procedimenti di sacrifizio e di predizione vigenti nelle due religioni. Egli illustra questa sua affermazione con la storia di Abramo, coi processi di interpretazione, pei quali il patriarca riusciva a comprendere le promesse di Dio ed i segni celesti che ne assicuravano l'adempimento, e trova che tutto ciò ha una grandissima analogia coi processi della mantica greca, e che è un gran torto dei Cristiani l'averli abbandonati. Giuliano dimostra anche qui la singolare conoscenza ch'egli aveva della letteratura biblica ed, insieme, l'arguzia di uno spirito educato ad una logica tutta formale. Ma qui si constata, ancora una volta, l'assoluta mancanza di scienza positiva e la spaventosa superstizione di questi riformatori del Politeismo. È cosa dolorosa il vedere un eroe, come Giuliano, un uomo di così meravigliosa versatilità intellettuale da riuscire a scrivere un trattato, come questo, di erudizione teologica, in mezzo alle preoccupazioni di una guerra gigantesca da lui personalmente condotta, cadere in sì miserabili pregiudizî, mostrare una così puerile fiducia nell'esercizio di riti stolti, di sacrifizî sanguinosi, di presagi meteorici, e finir col dire: «La verità non si può riconoscere dalla pura parola; bisogna che alla parola segua un segno efficace, il quale, con la sua apparizione, garantisca pel futuro l'avvenimento della predizione242».

Qui, certo, c'è un enorme peggioramento in confronto di Marco Aurelio, degli stoici, di Platone, di tutta, infine, la filosofia greca. La causa di ciò sta nell'influenza del Neoplatonismo, il quale aveva collocato il soprarazionale ed il soprannaturale al luogo degli dei naturalistici del Politeismo antico, e lo aveva imposto, come un incubo al mondo ed alla natura, senz'esser riuscito a determinarlo in un essere supremamente morale come aveva fatto il Cristianesimo. Venne da ciò che il soprannaturale, ravvivando, per un istante, con un soffio artificiale, gli dei naturalistici del mondo antico, ne rese più intensa l'azione in tutti i momenti della vita, ed ha fatto della superstizione la chiave di vôlta della religione. Anche il Cristianesimo non seppe tenersi immune dalla superstizione, anzi vi cadde spaventosamente, e non potè in parte liberarsene che all'aurora della scienza positiva. Però, per quanto oscurata, l'idealità morale di una figura divina, come quella di Gesù, potè servire quale un farmaco che risanava lo spirito infermo di errori e di paure stolte. Ai tempi di Giuliano, il Cristianesimo poteva considerarsi come una reazione contro la follia della superstizione politeista. Quando si passa dal soprannaturale di Giuliano a quello di Ambrogio o di Agostino si ha l'impressione di una vera liberazione, e si comprende come il tentativo di restaurazione politeista, per quanto giustificato e nobilitato dall'amore della coltura ellenica, non avesse neppure la più lontana probabilità di vittoria243.

Noi non possiamo confrontare il trattato di Giuliano con quello di Porfirio che, come dicemmo, è perduto, ma possiamo farlo con quello di Celso che ci fu conservato, almeno in parte, nella confutazione di Origene, sulla quale Teodoro Keim ha fatto il medesimo lavoro di ricostituzione che il Neumann esegui, più tardi, per lo scritto di Giuliano, sulla confutazione di Cirillo244.

Questi due attacchi filosofici contro il Cristianesimo, eseguiti a circa due secoli di distanza l'uno dall'altro, poichè lo scritto di Celso appartiene agli ultimi anni di Marco Aurelio, ci mostrano come il fondo della polemica fosse rimasto sempre eguale. È sempre la filosofia platonica che vede nel Politeismo un'esplicazione molto più larga e più vera delle sue idee fondamentali sulla divinità e sul mondo che nel ristretto monoteismo ebraico e cristiano; è sempre l'accusa mossa ai Cristiani d'essersi separati dagli Ebrei da cui pretendono di derivare; è sempre la dimostrazione dell'impossibilità di accettare le leggende su cui il Cristianesimo si fonda. Se non che, durante i due secoli che corsero da Celso a Giuliano, lo spirito greco, privo com'era dell'àncora sicura della conoscenza oggettiva e dello spirito scientifico, si era slanciato, a vele spiegate, nel gran mare del misticismo, e si era costituita, come vedemmo, nel Neoplatonismo, una filosofia religiosa, basata sull'idea dominante e schiacciante del soprannaturale. Pertanto, la differenza filosofica fra Giuliano e Celso è che il primo va molto più avanti del secondo nell'interpretazione simbolica del Politeismo, ed è in possesso di una dogmatica mitica che manca al suo predecessore. D'altra parte, ai tempi di Giuliano, il canone del Nuovo Testamento era già stabilito e d'uso corrente, cosa che ancor non era, od almeno appena cominciava ad essere, ai tempi di Celso, e ciò dava una maggiore padronanza a Giuliano delle fonti del Cristianesimo e gli permetteva di servirsi del quarto Vangelo per dimostrare la contraddizione di quelle fonti, cosa che Celso non poteva fare, o, almeno, non ha fatto. Aggiungiamo poi che Giuliano, educato nel Cristianesimo, aveva una profonda conoscenza non solo del Nuovo ma anche del Vecchio Testamento e l'adoperava nella sua polemica con un'abbondanza di citazioni ed una sicurezza che, certo, non poteva domandarsi a Celso, la cui mente era rivolta a tutt'altri studi, e che, dopo tutto, combatteva il Cristianesimo, di cui ancor non sentiva la minaccia, come una disprezzabile stoltezza. Lo scritto di Celso è l'opera di un letterato che si diverte nella sua confutazione; lo scritto di Giuliano, quella di un polemista che combatte per la vita. Se non che, Celso era uno spirito filosofico ben più largo e più geniale di Giuliano e, se questi lo vince nell'argomentazione a base di ermeneutica dei testi, Celso gli è di molto superiore nell'acume intuitivo delle vaste speculazioni, senza dire che non ci dà lo spettacolo di quella spaventosa superstizione che è la macchia più grave di Giuliano e del suo Politeismo neoplatonico. Celso considera il Cristianesimo come una dottrina che ha portato gli antichi ed invecchiati miti della divinizzazione di un uomo sopra una figura non degna di esserne ornata. Egli afferma che l'idea di una redenzione avvenuta in un punto della storia non si accorda colla giustizia e coll'amore divino, che non può esser limitato ad un'efficacia tanto parziale. Celso oppone alla teologia della salvezza l'immutabile ed eterno ordinamento della natura, in cui il male ed il peccato, determinati dalla materia, hanno il loro posto necessario, e l'uomo non appare per nulla affatto come lo scopo del mondo. In queste negazioni della posizione antropocentrica dell'uomo, antropomorfica della divinità, Celso potrebbe quasi dirsi un precursore del pensiero moderno. Egli esce in queste parole: «L'universo non è fatto per gli uomini, come non è fatto pei leoni, per le aquile o pei delfini, ma tutto contribuisce a rendere questo mondo, come opera di Dio, perfetto e completo in ogni sua parte. Pertanto, le cose non sono disposte per essere proprietà le une delle altre, bensì per essere un'opera complessa, per essere, infine, l'Universo. E Dio è nell'Universo, e mai la Provvidenza non lo abbandona, e mai l'Universo diventa peggiore, e Dio, attraverso il tempo, mai non si ritira in sè stesso, e mai non si irrita per causa degli uomini, come non si irrita per causa delle scimmie o delle mosche. E non minaccia mai gli esseri, dei quali ognuno, per sua parte, ha la propria sorte determinata»245.

Ecco una pagina che Giuliano, col suo antropomorfismo soprannaturale, non avrebbe mai scritta. Come pure non avrebbe mai scritta la frase profonda di Celso, il quale, dopo aver accennato alle strane ed incredibili divinizzazioni, constatate, presso i più diversi popoli, di uomini vissuti in mezzo a loro, divinizzazioni identiche a quelle che i Cristiani hanno fatto di Gesù, esclama: «Tanto può la fede, quale essa sia, purchè posseduta in prevenzione»246. Frase in cui sta propriamente la chiave che apre i segreti della storia delle religioni, e della quale Celso stesso, forse, intuiva ma non comprendeva tutta la profondità.

Noi, dunque, abbiamo visto come Giuliano cercasse di rovinare il Cristianesimo, dimostrando la debolezza della sua base storica e le contraddizioni in cui cadeva con le premesse da cui pretendeva discendere. Ma, se Giuliano si fosse limitato a questo lavoro negativo, il suo tentativo non avrebbe avuto nulla di speciale in confronto a ciò che avevan fatto Celso e Porfirio e forse altri ancora rimasti ignoti. Ora, Giuliano voleva fare qualche cosa di più. Voleva tener ritto il Politeismo antico, che per lui rappresentava l'Ellenismo, la civiltà, la coltura ellenica, contro la novità cristiana che minacciava distruggerlo, ma, per tenerlo ritto, voleva cristianizzarlo nella morale e nella costituzione ecclesiastica. Sentiva la necessità di ravvivare la società con uno spirito nuovo, e credeva di poterlo infondere nelle forme vecchie, nella cui rovina egli vedeva la catastrofe della civiltà. Qui sta propriamente l'originalità del movimento tentato da Giuliano. Questo feroce nemico del Cristianesimo faceva propaganda di tutte le virtù che il Cristianesimo insegna, la temperanza, il rispetto delle cose sacre, l'onestà nella vita pubblica e privata, l'odio della ricchezza, la cura delle cose dello spirito, l'amore del prossimo e, sopratutto, la carità. Il Cristianesimo era così poco riuscito ad infondere queste virtù nella società del Basso Impero che, diventando religione ufficiale, aveva dovuto rinunciarvi, ma, insieme, aveva creato il monachismo come una serra calda in cui quelle virtù si conservassero sotto la fervida azione di un ascetismo rigoroso. Giuliano pretese di rifar, lui, l'opera del Cristianesimo, affidandola al Politeismo, a cui dava l'ufficio di moralizzare la società. Egli cadeva nell'errore comune a tutti i riformatori religiosi e morali, quello cioè, di credere che una società, come un individuo, si moralizzi con gli insegnamenti e con le prediche. La moralizzazione non può essere che la conseguenza di un determinato ambiente intellettuale in cui l'individuo e la società vengono a trovarsi. Non fu la Riforma che ha moralizzato i popoli germanici, ma la Riforma è stata, essa stessa, l'effetto di una disposizione preesistente nel carattere e nelle abitudini di quei popoli, i quali avevano vivo il sentimento della dignità umana, sentimento che, nei popoli latini, si era del tutto estinto. Perciò il Cristianesimo, non essendo riuscito a moralizzare il mondo, perchè il mondo non era maturo pel suo grande principio della solidarietà umana, aveva semplicemente scosse le basi della civiltà. Ebbene, Giuliano voleva salvare il Politeismo per salvare, insieme, la civiltà ellenica, e voleva, malgrado il suo odio pel Cristianesimo, in cui vedeva il nemico acerrimo di quella civiltà, cristianizzare il Politeismo per farne uno strumento di rigenerazione morale. L'irragionevolezza dell'impresa non deve nascondere la nobiltà dell'illusione in cui viveva Giuliano e la grandezza dello scopo a cui tendeva con tutte le forze del suo versatile ingegno.

Quali fossero, sotto il rispetto pratico, le intenzioni di Giuliano, nell'organizzazione del suo Politeismo cristianizzato, si rileva da tre importanti documenti, il lungo frammento di lettera ad un ignoto247, la lettera ad Arsacio, sacerdote di Galazia248, e un frammento di altra lettera a Teodoro, per investirlo di un alto ufficio sacerdotale249. Quest'ultimo frammento si crede possa essere unito al primo, così da formare un tutto interrotto da breve lacuna. Esaminiamoli con attenzione, perchè contengono la parte più curiosa della riforma di Giuliano. E qui noi vedremo uno spettacolo strano; un condottiero eroico, un avventuriero audace che scende ai più minuti dettagli di organizzazione ecclesiastica e che scrive delle pastorali, le quali mostrano come egli prendesse sul serio la sua missione di riformatore religioso. È che Giuliano metteva in tutto ciò che faceva una singolare serietà ed oggettività di proposito. Napoleone che, fra le preoccupazioni del soggiorno di Mosca, prepara il regolamento del Teatro francese è, certo, un esempio di meravigliosa versatilità. Ma Napoleone era un colossale egoista. Le cose non lo interessavano se non in quanto si riferissero a lui od al suo dominio. Non aveva che un ideale, sè stesso, e, pertanto, la sua intelligenza era uno strumento che non lavorava che per lui. Ma Giuliano era altra tempra d'uomo. Egli si era creata una missione nel mondo, e il compierla era per lui il più imperioso dei doveri. Tutta la singolare versatilità del suo ingegno era applicata a quello scopo ideale. In Giuliano l'uomo pratico era ammirabile, ma quest'uomo pratico era posto al servizio di un idealista fervente. È questo un connubio che dà alla figura del giovane imperatore un così strano e, direi quasi, enigmatico risalto.

Il frammento di lettera al sacerdote ci mostra come Giuliano volesse avere un sacerdozio pagano il quale realizzasse l'ideale di virtù che il clero cristiano si poneva davanti agli occhi, salvo a non seguirlo.

Al principio del frammento noi troviamo una violenta e crudelmente ironica allusione ai Cristiani. «Su coloro che non venerano gli dei impera la schiatta dei demoni malvagi, dai quali molti di quegli empi son resi furenti, così che cercano di morire, quasi fossero certi di volare al cielo, quando dalla violenza si spezzi la loro vita. Altri abitano i deserti invece delle città, sebbene l'uomo sia, per natura, un animale socievole e domestico, dominati anch'essi dai demoni malvagi che li trascinano in quella misantropia. E quegli empi si abbandonano volontariamente ad essi, ribellandosi agli dei eterni e salvatori.» Ecco, dunque, come Giuliano giudicava i martiri e gli eremiti, i quali pure rappresentavano, in tutta la sua forza e purezza, l'ideale cristiano. È che questo ideale contrastava radicalmente coi concetti fondamentali del pensiero e della civiltà antica. Il Cristianesimo partiva dall'aborrimento del mondo presente e passeggero per arrivare alla conquista del mondo soprannaturale ed eterno. Ed è perciò che il Cristiano genuino professava l'abbandono e la rinuncia alle cose del mondo, ed aspirava alla morte per rendersi sempre più puro dalle turpitudini della vita terrestre e per affrettare il raggiungimento della felicità promessa. È per questo che il Cristiano genuino, il Cristiano dei primi tempi, volava al martirio; è per questo che, allorquando il Cristianesimo, diventato potente ed entrato nell'organismo sociale, si piegò alle necessità della vita e si corruppe, si disegnò subito una reazione contro questo movimento fatale e nacque il monachismo, il quale, nelle sue origini, rappresentava la rinuncia completa alle transazioni volute dalla convivenza sociale, e conservava intatto il principio ispiratore del Cristianesimo. Ora, l'uomo antico, pel quale la realtà era tutta nel presente, mentre le visioni dell'oltretomba non erano, invece, che larve e sogni, non riusciva a comprendere quel principio che pur costituiva l'essenza del Cristianesimo, il quale a lui pareva il prodotto di un vero pervertimento del giudizio, una follia che sconvolgeva l'ordine sociale, e contrastava con la natura e coi fini dell'uomo. E Giuliano che era rimasto un uomo antico, un greco schietto, non poteva che sentire una cordiale antipatia per la tendenza pessimista del genuino spirito cristiano, e giudicava pazzi furiosi e pericolosi tanto i martiri che, ai suoi tempi, non c'erano più, quanto gli eremiti ed i monaci che cominciavano a popolare, nel nome del Cristo, le solitudini dell'Oriente.

Fatto questo piccolo sfogo contro i Cristiani, Giuliano procede nelle sue raccomandazioni ai sacerdoti. Questi devono dare l'esempio dell'obbedienza alle leggi divine; da quell'esempio gli uomini impareranno ad obbedire alle leggi dello Stato. Ora, secondo Giuliano, il primo dovere dei sacerdoti è di essere caritatevoli. E qui pare proprio di udir parlare un buon Cristiano. C'è una specie d'unzione, nel suo discorso, che rivela un'influenza ignota alla schietta antichità. Gli dei, dice Giuliano, danno continue prove del loro amore per gli uomini. E gli uomini, non vorranno amarsi ed assistersi fra di loro? Si vogliono accusar gli dei della miseria che si verifica nel mondo. Ma, se chi ha volesse dare agli altri, in proporzione delle sue sostanze, la miseria più non sarebbe. Lui, Giuliano, è sempre stato contento del bene che ha potuto fare, e ne ha trovato un vantaggio anche per sè. Ed a coloro che gli potrebbero osservare esser facile a lui, imperatore, dar questi consigli, ricorda di essere stato, lui pure, povero, e d'aver fatto parte ai bisognosi del suo esiguo avere. E qui egli esce in queste parole, le quali, più ancora che cristiane, sono propriamente evangeliche, e potrebbero essere attribuite a Gesù, sebbene scritte dal suo più feroce nemico. «Dobbiamo render comuni le cose nostre a tutti gli uomini, più liberalmente ai buoni, e poi a tutti i tapini ed a tutti i poveri, quanto richiede il bisogno loro. Direi anzi, per quanto possa parere un paradosso, che è cosa santa dar vesti ed alimenti anche ai nemici, perchè noi diamo all'uomo non diamo al carattere250». E continua, con parole quasi ancora più belle: «Ed io credo che si devono usare tali provvidenze anche a coloro che si trovano in carcere. E questo amor del prossimo non è d'ostacolo alla giustizia. Fra i molti rinchiusi in carcere, alcuni saranno colpevoli ed altri innocenti. Ora, ciò che noi dobbiamo temere non è già di usare pietà ai malvagi per causa degli innocenti, ma bensì di agire senza pietà verso gli innocenti per causa dei malvagi». Di queste gemme che sembrano cavate dalla intatta miniera evangelica, ne troviamo sparse in tutte le opere di Giuliano. Così egli dirà: «A me par meglio, per ogni rispetto, salvare un malvagio con mille buoni, che rovinare i mille buoni per un solo malvagio»251. E in altro luogo: «Quali ecatombe possono valere la santità, di cui il divino Euripide cantava, chiamandola — Santità, santità, veneranda dea! — ? Non sai forse che tutte le cose, e grandi e piccole, offerte agli dei, con spirito di santità, hanno la medesima efficacia, e che, senza quello spirito, non solo il sacrifizio di cento buoi, ma il sacrifizio di mille altro non è che un vano sciupìo?»252. Parole ammirabili, tanto più ammirabili in bocca di un imperatore, e che pur caddero nel vuoto. Perchè delle parole analoghe a queste, o almeno ispirate ad un analogo sentimento, in bocca di Gesù, hanno portata la rivoluzione nel mondo? Perchè l'umile ed ignorato Maestro di Palestina ha sollevata l'umanità, e il potente imperatore ha parlato al deserto? Non per altra ragione se non per questa che, per cambiare l'orientazione dello spirito umano, per fare della pietà un dovere e per dare, almeno per un istante, alla debolezza la vittoria sulla forza, ci voleva l'apparizione di un dio, e di un dio che, col suo esempio e con la sua persona, illustrasse i suoi insegnamenti. L'errore di Giuliano fu nel non aver compreso che a lui mancava la forza per compiere quel rinnovamento morale che era nei suoi ideali. Si richiedeva un dio per potervi riuscire. Ma gli dei del Paganesimo erano completamente esauriti e vuotati d'ogni realtà. Ci voleva un dio nuovo. È vero che l'accettazione di questo dio avrebbe portata con sè la rovina di quel tesoro prezioso che era l'Ellenismo. Ma era un sacrificio inevitabile. Rinnovare l'Ellenismo, voleva dire togliergli la sua ragion d'essere.

Giuliano presenta anche un altro argomento a sostegno della sua propaganda di carità, ed è l'unità della specie umana, per cui gli uomini son tutti fratelli253. Poi procede a raccomandare la venerazione e il culto delle imagini divine, appoggiando i suoi precetti alla necessità che hanno gli uomini, creature corporee, di rappresentare sotto forma materiale anche gli esseri spirituali254. Qui Giuliano entra in un lungo e sottile ragionamento, rivolto sopratutto contro l'obbiezione che i profeti degli Ebrei avevano opposta al culto degli idoli, pretendendo di dimostrarne l'irragionevolezza col fatto della distruggibilità degli idoli stessi. Ma allora, esclama acutamente Giuliano, che diranno i profeti degli Ebrei del loro tempio che è stato tre volte abbattuto, e che oggi ancora non è rialzato? E Giuliano, il quale, nella guerra contro i Cristiani, diventati molti e potenti, favoriva gli Ebrei, ormai pochi ed innocui, poichè in essi trovava degli alleati naturali, osserva ch'egli non accenna a quel fatto per recar offesa agii Ebrei. Tutt'altro, tanto è vero che, anzi, stava pensando di ricostruirlo, lui, il tempio di Gerusalemme, in onore del dio che vi si adorava. Egli usa di quell'esempio solo per dimostrare agli Ebrei che tutto ciò che è creato dall'uomo deve perire e che, pertanto, è vana l'obbiezione dei loro profeti. L'errore di costoro, degno di vecchierella imbecillita, soggiunge Giuliano, sempre nell'intento di accarezzare gli Ebrei, non toglie nulla alla grandezza del loro dio, perchè un dio grande può avere degli interpreti inabili. E tali furono i profeti e i sacerdoti degli Ebrei, i quali non seppero purificare l'anima loro con le dottrine da cui pure erano circondati, nè aprire gli occhi inciprigniti, nè dissipare la nebbia che li avvolgeva, in mezzo alla quale la luce pura della verità appariva loro come qualche cosa di indistinto e di spaventoso. Oh quanto inferiori, esclama Giuliano, ai nostri poeti sono quei maestri della scienza di Dio!255.

Se non che, continua Giuliano, non basta onorare i templi e le imagini degli dei, bisogna anche curare la dignità ed il benessere dei sacerdoti, i quali, pregando e sacrificando per noi, sono gli interpreti nostri presso gli dei. Ma, se il carattere sacerdotale basta, per sè stesso, a creare negli uomini il dovere di rispettarlo, impone, insieme, a chi lo porta, dei doveri speciali. Quali sono questi doveri? Il sacerdote deve condurre una vita esemplare, una vita che possa essere, in tutto, modello agli altri uomini. Egli deve, prima di tutto, onorare e servire gli dei, come se gli dei fossero presenti e lo vedessero, anzi, spingessero il loro sguardo, più potente di qualsiasi raggio, fino ai nostri più segreti pensieri. Non deve il sacerdote nè dire nè udir nulla di turpe; non basta ch'egli si astenga dalle empie azioni, ma anche dalle parole e dall'udizione di discorsi siffatti. Non deve leggere autori licenziosi; fugga sopratutto dai comici antichi. Si attenga solo ai filosofi, scegliendo quelli che si sono educati al rispetto degli dei, Pitagora, Platone, Aristotele, Crisippo e Zenone256. E anche da questi prenda solo quegli insegnamenti che si riferiscono alla vera natura degli dei, lasciando tutte quelle favole, inventate dai poeti, nelle quali gli dei appaiono come se si odiassero e combattessero a vicenda, quelle favole che hanno fatto tanto torto ai poeti stessi, e che furono abilmente usufruite prima dagli Ebrei, e poi dai miserabili Galilei. E Giuliano insiste, con forza, sulla convenienza di sceglier bene le letture del sacerdote. «Da quel che si legge viene negli animi una certa inclinazione, e da questa, a poco a poco, nascono i desideri, e poi, ad un tratto, sorge una gran fiamma, contro la quale bisogna prepararsi prima».

Fra le letture pericolose e da sconsigliare, Giuliano pone Epicuro e Pirrone e ringrazia gli dei che hanno lasciato distruggere una parte dei loro libri. Nulla di più sintomatico di questo decreto di Giuliano che pone all'indice Epicuro. In fondo in fondo, il principio che guidava Giuliano, l'odio pel razionalismo portato nella conoscenza e nell'interpretazione dell'universo, è quello ancora che è legge per la Congregazione dell'Indice che siede al Vaticano. Ciò vuol dire, come vedremo meglio al termine di questo studio, che la rivoluzione voluta da Giuliano era affatto superficiale, perchè egli partecipava all'indirizzo intellettuale del suo tempo, ed avversava il concetto scientifico non meno dei metafisici neoplatonici e dei teologi cristiani.

Il sacerdote, continua il pio e rigoroso imperatore che prendeva sul serio il suo ufficio di pontefice massimo, deve non solo astenersi dai discorsi e dai libri sconvenienti, ma anche, e più ancora, dai pensieri tentatori, perchè è il pensiero che trascina la lingua. Egli deve conoscere tutti gli inni in onore degli dei, e fare le sue preghiere, pubblicamente e privatamente, tre volte al giorno, o, almeno all'alba ed al tramonto. Durante il periodo del suo servizio nel tempio, che, in Roma, è di trenta giorni, egli deve stare nel tempio, purificarsi coi riti prescritti, non andare nella sua casa privata, nè sulla piazza, non vedere i magistrati se non nel tempio, vivere filosofando e servendo gli dei. Compiuto il periodo e ritornato alla vita comune, potrà visitare qualche amico ed assistere anche a qualche banchetto, scegliendo però le case dei cittadini più stimati. Potrà anche recarsi qualche volta sulla piazza, conferire coi magistrati ed occuparsi di opere di beneficenza. Quando è nel servizio divino, il sacerdote deve usare vesti splendidissime; ma, fuori del tempio, deve vestirsi come è consueto e senza sfarzo; poichè sarebbe assurdo ch'egli adoperasse a scopo di stolta vanità ciò che riceve per onorare gli dei. Il portare in mezzo alla gente i vestimenti sacri è un offendere gli dei, senza dire che, al contatto degli impuri, quegli oggetti sacri rimangono contaminati257.

Il sacerdote non deve mai assistere ad uno spettacolo teatrale. Se fosse stato possibile ricondurre il teatro al culto puro di Bacco, Giuliano lo avrebbe tentato. Ma ciò non potendosi più fare, bisogna completamente astenersi dal frequentarlo. Il sacerdote non solo deve star lontano dal teatro, ma non deve farsi amico o lasciar venire alla sua porta nessun attore o danzatore. Egli potrà entrare agli spettacoli sacri, ma solo a quelli ai quali è vietato alle donne non solo di prender parte ma anche di assistere258.

Nella scelta dei sacerdoti non si deve guardare alla posizione ed alla ricchezza dei candidati, ma solo a due cose, che, cioè, il futuro sacerdote sia un uomo amante di Dio ed amante del prossimo. Sarà indizio del suo amor di Dio, se egli indurrà tutti i suoi di casa al culto degli dei; sarà indizio del suo amor del prossimo, se egli, di buona voglia, soccorrerà i poveri anche col poco di cui può disporre. E qui Giuliano esce in queste curiose e sintomatiche parole: «Dobbiamo aver gran cura di questo esercizio di filantropia, perchè qui forse troveremo il rimedio ai nostri mali. Dopochè si accorsero che i poveri erano trascurati dai sacerdoti sprezzanti, gli empi Galilei scaltramente si applicarono a questa filantropia, e diedero forza alla peggiore delle azioni coll'apparenza delle provvide cure. Come coloro che tendono agguati ai fanciulli, li persuadono a seguirli coll'offrir loro, due o tre volte, la focaccia, poi, quando son riusciti ad allontanarli dalla casa, li gittano su di una nave, e li rapiscono, e così per un pezzettino di dolce presente, diventa amara tutta la loro vita futura, nel medesimo modo costoro, cominciando da quello che essi chiamano l'amorevole servizio dei pasti in comune, trascinarono molti nell'empietà...»259.

Qui s'interrompe la lettera di Giuliano, come è giunta a noi. Probabilmente i copisti non hanno voluto riprodurre le frasi ingiuriose che l'imperatore avrà scagliato contro i Cristiani.

A questo frammento, va, forse, unito, come dicemmo, l'altro frammento che costituisce la lettera 63ª, nell'epistolario di Giuliano. In essa, l'imperatore, dopo aver fatta ad un certo Teodoro professione d'amicizia e commentata la circostanza di aver avuto il medesimo maestro, probabilmente Massimo, gli dice di volergli affidare un ufficio di molta importanza, nel quale l'opera sua potrà essere di grande giovamento, ed egli potrà procurare a sè stesso soddisfazioni nel presente e speranze ancor maggiori per l'avvenire. E, per avvenire, Giuliano intende l'al di là della morte. Egli dice, a questo proposito, di non esser di coloro i quali credono che le anime si sperdano insieme col corpo, sebbene di ciò non si possa avere nessuna certezza, e si debba lasciarne la cura e la conoscenza solo agli dei. E poi continua:

«Ma qual'è quest'ufficio che io dico di volerti affidare? Quello d'essere a capo di tutti i servizî sacri dell'Asia, sorvegliare i sacerdoti d'ogni città, e distribuire ad ognuno ciò che gli spetta. Il superiore deve prima di tutto usar buoni modi, ed aggiungere poi la cortesia e l'amorevolezza per coloro che ne son degni. Chi offende gli uomini e non è rispettoso per gli dei ed è prepotente deve esser corretto con franchezza o punito con severità. Di ciò che convenga fare per il culto in generale, fra breve tu sarai istruito insieme agli altri. Ma fin d'ora voglio dirtene qualcosa. E tu farai bene ad obbedirmi. Io non parlo da temerario di queste cose, come lo sanno gli dei, ma sono, quanto è possibile, prudente e fuggo le novità, direi quasi, in tutto, ma, in modo speciale, nelle cose divine, convinto che convenga serbarsi fedeli alle antiche leggi che, come è manifesto, ci furono date dagli dei. Infatti, se ci venissero dagli uomini non sarebbero tanto sagge. Ora, siccome sono state trascurate e guaste dal prevalere dell'avarizia e del vizio, bisogna rifarsi da capo e tornarle in onore. Quando, dunque, io osservava le molte nostre trascuranze verso gli dei, e vedeva cacciato in bando, in causa degli impuri e viziosi costumi, il rispetto a loro dovuto, io mi addolorava fra me stesso, tanto più constatando come coloro che seguono il precetto della pietà (ebraica) erano tanto ardenti di zelo, da incontrar per essa la morte, da soffrire ogni privazione ed anche la fame, piuttosto che assaggiare carne di porco o di animali soffocati. E noi siamo, invece, tanto negligenti in tutto quanto si riferisce agli dei, da dimenticare le patrie consuetudini, da ignorare, anzi, che siano mai esistite. Ma gli Ebrei i quali, fino a un certo grado, possono dirsi devoti a Dio, perchè adorano un dio veramente potentissimo e benefico, il quale governa il mondo e che noi pure veneriamo, ma con altri nomi, mi pare agiscano bene non trasgredendo le loro leggi. In ciò solo essi peccano, cioè, nel non riconoscere gli altri dei, per venerarne uno solo, e nel credere di essere stati i prescelti fra tutte le nazioni, sollevati a tanta stoltezza dalla loro vanità barbarica. Quelli poi che professano l'empietà galilea, affetti da una malattia.....».

Qui il frammento s'interrompe, ma è ragionevole la supposizione che una qualche frase, ora perduta, lo unisse al testo che abbiamo più su analizzato. Ritorneremo su questo frammento, quando avremo guardato il terzo dei documenti relativi all'organizzazione della Chiesa politeista, ma notiamo subito come qui si ritrovi, in tutta la sua forza, l'espressione della simpatia che Giuliano nutriva per gli Ebrei. Abbiamo già visto, nel trattato contro i Cristiani, quali fossero le ragioni teoriche su cui egli posava quel suo sentimento. Ma qui troviamo una nuova ragione, ed è la tendenza profondamente conservatrice e tradizionale degli Ebrei e, sopratutto, della loro religione. Ora, Giuliano, che pure, nell'essenza della sua azione, era un riformatore, perchè il suo Politeismo, come vedemmo, è tutt'altra cosa del Politeismo naturalistico dei primi tempi, ed anche del Politeismo nazionale di Atene e di Roma, era, nella forma, un rigido conservatore. Egli voleva conservar intatta tutta la compagine esterna della civiltà ellenica e nulla gli era tanto odioso, nel Cristianesimo, quanto la pretesa di sconvolgere tutto e di far casa nuova nello spirito umano. La protezione e la simpatia per gli Ebrei costituivano una buona carta nel gioco di Giuliano contro i Cristiani, ed egli l'adoperava con singolare abilità. Per verità, se v'era popolo che aborrisse il Politeismo, il popolo ebraico era quello. Ma gli Ebrei aborrivano più ancora i Cristiani, e, pertanto, diventavano, per Giuliano, degli alleati preziosi. La restaurazione del culto di Jahve a Gerusalemme non avrebbe recato nessun danno alla sua propaganda, ma sarebbe stato un fiero colpo al Cristianesimo, il quale pretendeva di essere l'erede dell'ebraismo. Inoltre, Jahve era un dio localizzato. Per quanto gli Ebrei dell'epoca ellenica e romana, volessero estenderne il dominio e l'adorazione a tutto il mondo, quel dio aveva il suo santuario a Gerusalemme, e restava quello che era sempre stato, il dio di un popolo determinato. Ora, un dio localizzato non faceva paura a Giuliano, perchè in quella localizzazione era implicita la possibilità di altri dei, presso altri popoli ed in altri santuari.

Il documento più singolare della politica di Giuliano verso gli Ebrei, l'abbiamo nel manifesto diretto a quel popolo, nel momento in cui l'imperatore era sulle mosse per la spedizione di Persia. Riportiamolo nella sua integrità, perchè è uno degli scritti più sintomatici della fine abilità di questo mistico entusiasta, di questo eroico avventuriero:

«Giuliano al popolo degli Ebrei».

«Ancor più grave che il giogo della vostra antica schiavitù è diventato per voi l'obbedire a decreti non pubblicati, e il versare una somma indicibile d'oro a profitto dell'erario. Io stesso l'ho constatato coi miei occhi, ma me lo dimostrarono ancor meglio i ruoli conservati presso di noi. Perciò io frenava ogni nuova imposta a vostro carico, e di forza fermai la sconvenienza di simile abuso, e diedi al fuoco i ruoli che vi riguardavano, conservati nel nostro tesoro, di modo che diverrà impossibile d'ora innanzi scagliare contro di voi tale minaccia d'iniquità. Di tutto ciò non fu tanto colpevole il mio cugino Costanzo, degno di memoria, quanto quei barbari nella intenzione ed empî nell'anima che sedevano alla sua mensa, e che io, prendendoli nelle mie mani, ho annientato scagliandoli nel baratro, così che più non sia, presso di me, nemmeno la memoria delle loro scelleraggini. Di più io voglio pregare il vostro fratello Giulio, il venerando patriarca, ed esortarlo a metter fine a quell'imposta che voi chiamate apostolica ed a non permettere che alcuno tormenti il popolo coll'esazione di simile tributo. Così il mio regno sarà per voi intieramente libero da cure, e, godendo la pace, innalzerete preci ancor più vive pel mio regno a Dio ottimo e creatore, che si è degnato di incoronarmi con la sua destra immacolata. Poichè avviene che coloro i quali sono assorti in qualche cura, hanno la mente distratta e non pensano ad alzare al cielo le mani supplichevoli. Coloro, invece che son liberi di cure si allietano di fare, con tutta l'anima, preghiere e supplicazioni pel bene dell'impero a Dio grande e potente onde indirizzi il nostro regno nella via dell'ottimo, come noi desideriamo. Questo voi dovete fare, affinchè, condotta a buon fine la guerra contro i Persiani, io possa ricostruire, col mio lavoro, la santa città di Gerusalemme da voi fondata, che da tanti anni desidero vedere, e, in essa, insieme a voi, fare omaggio all'onnipossente»260.

Ma ora ritorniamo alle pastorali di Giuliano.

Di singolare importanza, per la conoscenza delle intenzioni di Giuliano, è la lettera da lui diretta ad Arsacio, gran sacerdote di Galazia. Eccola:

«L'Ellenismo non opera nel modo che noi vorremmo, per colpa di coloro stessi che ne fanno parte. Eppure la situazione è per gli dei splendida e grande, migliore di quanto potevasi sperare. Poichè chi mai avrebbe osato sperare, in breve tempo, una tanta e tale conversione? Ma noi non dobbiamo credere che ciò possa bastare, e chiudere gli occhi al fatto che al progresso dell'empietà hanno grandemente giovato l'amorevolezza con gli ospiti, la cura dei sepolcri e l'ostentata santità della vita. Ebbene, è necessario che noi pure prendiamo a cuore tutto ciò. E non basta che tu lo faccia; ma lo devono fare tutti i sacerdoti della Galazia. Tu devi o rimbrottarli o persuaderli ad essere zelanti, oppure destituiscili dal servizio divino, se mai non conducessero agli dei le mogli, i figli, i servi, e tollerassero che servi e figli e mogli non venerassero gli dei e preferissero l'ateismo alla pietà. Poi esorta il sacerdote a non frequentare il teatro, a non bere nelle taverne, a non darsi a nessun'arte ed occupazione o riprovevole o turpe. Onora gli obbedienti, scaccia gli indocili. Istituisci in ogni città numerosi ospizî, onde i viaggiatori approfittino della nostra filantropia, e non solo coloro che son dei nostri, ma chiunque abbia bisogno di aiuto. Come tu possa provvedere a questo, sarà affar mio. Io disposi che ogni anno siano dati alla Galazia trentamila modii di frumento e sessantamila sesti di vino. Un quinto di tutto ciò conviene sia dato ai poveri che fanno servizio nei templi, il resto agli ospiti ed a coloro che chiedono di essere mantenuti da noi. Poichè è vergognoso che degli Ebrei nessuno chieda soccorso, che gli empi Galilei alimentino, insieme ai loro poveri, anche i nostri, e che questi debbano parer privi d'ogni nostro soccorso. Esorta, dunque, gli Ellenisti a contribuire a tale servizio, e i villaggi greci a dare agli dei la primizia dei frutti. Cerca di abituare gli Ellenisti a queste beneficenze, insegnando loro che così si faceva anticamente. Infatti, Omero fa dire ad Eumene — da Giove ci vengono gli ospiti ed i poveri. — Pertanto, non lasciamo che gli altri ci vincano nelle virtù che sono nostre, e vergogniamoci della nostra inerzia, e procediamo sempre più nella pietà verso gli dei. Se io udissi che tu fai questo, ne sarei lietissimo.

«Va di rado a visitare i magistrati in casa loro. Comunica con essi, il più delle volte, per lettera. Quando entrano nella città, nessuno dei sacerdoti vada loro incontro, e, se si presentano ai templi, l'incontro avvenga nell'atrio. Nessun soldato li preceda nel tempio. Segua chi vuole; poichè, dal momento che il magistrato ha toccato la soglia del tempio, egli è divenuto un individuo qualsiasi. Tu solo, lo sai, comandi dentro il tempio; così vuole la legge divina»261.

In questa lettera si presenta davvero un curioso fenomeno ed è quello di un uomo che odia ferocemente degli avversari, coi quali, invece, dovrebbe andar d'accordo, perchè ha comune con essi il pensiero e la morale: tanto che, non potendo negare che essi seguono un indirizzo che, assai meglio di quello de' suoi amici e partigiani, si avvicina al suo, non esita a dichiararli impostori, e si illude di coprire, con tale accusa, la verità. Ma perchè quest'odio cordiale contro gente con la quale egli avrebbe dovuto andar d'accordo e ch'egli poi, malgrado le sue feroci declamazioni, cercava di imitare? Qui non possiamo che ripetere la considerazione che vien fuori da tutto lo studio che stiamo facendo. Giuliano sentiva che il dio, venuto dalla Palestina, anzi, dalla Galilea, come egli diceva, cacciando in fuga, in nome di nuovi ideali, gli dei sorti dal sacro suolo dell'Ellade, avrebbe radicalmente rovinato l'Ellenismo. E l'Ellenismo, con tutto il suo complesso di tradizioni e di coltura, stava troppo a cuore di Giuliano perchè egli potesse rinunciarvi, perchè non dovesse considerare come suoi nemici coloro che ne scuotevano la base. Volendo, pertanto, opporsi all'avanzarsi del dio galileo, che egli pur sentiva meglio rispondente ai bisogni dell'umanità, e ben più vivo di tutto l'antico Olimpo, Giuliano ha tentato di cristianizzare gli dei della Grecia, e di portare nel Politeismo le abitudini e l'indirizzo morale di cui il Cristianesimo era o, diremo meglio, avrebbe dovuto essere il propagatore. In tale impresa d'impossibile riuscita, il giovane entusiasta mostra una singolare intensità di convinzione e di volontà, certo, degne di rispetto, ma che non ci impediscono di sorridere quando, come in questa lettera tanto curiosa, noi lo vediamo parlare ai sacerdoti di Bacco e d'Afrodite con un accento e con esortazioni che non sarebbero state fuor di luogo sulle labbra di un Ambrogio o di un Agostino predicanti al clero ed ai fedeli delle loro città.

Giuliano voleva, dunque, istituire una Chiesa pagana, la quale si plasmasse sugli esempi o, più ancora, sui precetti della Chiesa cristiana. Ma egli voleva anche che fosse indipendente, ed, anzi, al di sopra del potere dello Stato, come appunto voleva essere la Chiesa cristiana, almeno nelle sue manifestazioni di ortodossia atanasiana. Questo era un concetto del tutto nuovo nell'ellenismo. Nel mondo greco-romano, il tempio, il sacerdote erano stati al servizio del potere politico. Ed era ben naturale che ciò fosse, dal momento che la religione era un'istituzione per eccellenza nazionale e politica. Roma voleva il culto degli dei, non già per qualche ragione metafisica o sentimentale, ma solo perchè nel culto delle divinità nazionali vedeva un'affermazione della potenza dominatrice dello Stato romano. Ma il Cristianesimo genuino staccava la religione dallo Stato, e ne faceva un'istituzione che gli era superiore ed indipendente. Ora, dalla lettera ad Arsacio, si vede che Giuliano tendeva a dare una eguale posizione al Politeismo riformato, ed a considerare la religione come un potere a cui l'autorità dello Stato doveva inchinarsi. Ed era, anche questa, una conseguenza della trasformazione metafisica che gli dei antichi avevano subìta nell'elaborazione del misticismo neoplatonico. E, quindi, noi possiamo concludere che, se Giuliano, invece di due anni, avesse regnato venti o trenta, e se, per un'ipotesi impossibile, il suo tentativo di restaurazione pagana fosse riuscito, il mondo non ci avrebbe guadagnato nulla. La dottrina e la religione di Giuliano, basate anch'esse sul soprannaturale, avrebbero condotto inevitabilmente ad una teocrazia. Solo che, invece di una teocrazia cattolica, avremmo avuta una teocrazia mitriaca.

In questa lettera, del resto, si sente lo scoraggiamento del riformatore che non è compreso e che ha, nella riuscita della sua impresa, minor fiducia di quella che lascia trasparire. Il tentativo di Giuliano doveva cadere ai primi passi, perchè era essenzialmente illogico e portava con sè un'insanabile contraddizione. Se il Politeismo avesse avuta la possibilità di cristianizzarsi, non sarebbe sorto il Cristianesimo. L'ispirazione fondamentale del Politeismo era radicalmente opposta a quella del Cristianesimo. Il Politeismo voleva la glorificazione del mondo e della vita terrestre, il Cristianesimo l'abbominio dell'uno e dell'altra. Il Politeismo non guardava che alla terra, il Cristianesimo non guardava che al cielo. Il Politeismo era la religione della forza e del godimento, il Cristianesimo la religione della debolezza e della sventura. Dall'uno e dall'altro di questi punti di partenza venivano norme di condotta, abitudini, tendenze insegnamenti del tutto diversi. Era possibile, anzi era inevitabile che il Cristianesimo, al contatto con la società del tempo, si corrompesse, così che le virtù, che avrebbero dovuto da lui scaturire, si trovassero costrette a rifugiarsi nell'ascetismo monacale. Ma era cosa assolutamente impossibile che il Politeismo abbandonasse ciò che costituiva l'intima sua essenza per assumere forme e tendenze che a questa erano fondamentalmente ripugnanti. Il Politeismo cristianizzato non poteva essere che il Cristianesimo. Ed è perciò che la restaurazione politeista, iniziata da Giuliano, contro cui Gregorio di Nazianzo e Cirillo di Alessandria hanno versato tanto inutile sdegno, non è stata che una meteora passaggera, la quale si è spenta, senza lasciare dietro a sè nemmeno il più leggero pulviscolo.

L'AZIONE DI GIULIANO CONTRO IL CRISTIANESIMO

Finchè Giuliano visse sotto le minacce di Costanzo o come suo rappresentante nel Governo della Gallia, egli tenne celate le sue idee, la sua fede ed i suoi eventuali propositi, dato che un giorno avesse in sua mano la somma delle cose. Durante tutti quegli anni di necessario infingimento, il giovane entusiasta, che, in mezzo alle cure della guerra e del governo, non dimenticava mai lo studio e la meditazione, s'infervorava nel suo amore per l'Ellenismo, nel suo desiderio di poterlo salvare dalle minacce del Cristianesimo invadente, con un ardore intimo, reso, direi quasi, più intenso dall'impossibilità di espandersi apertamente. Ma egli non si è mai compromesso con un atto che potesse poi creargli, nella pericolosa posizione in cui si trovava davanti a Costanzo, difficoltà insuperabili. Anzi, noi abbiamo veduto come, già creato imperatore dai suoi soldati, mentre però ancora non s'era risoluto alla guerra civile e sperava in un accordo con Costanzo, partecipasse, con una prudenza tanto grande che può dirsi simulazione, alla festa solenne dell'Epifania.

Ma, quando, svanita ogni illusione di accordo, Giuliano si gettò nell'avventura, che doveva parer disperata, di marciare contro Costanzo, egli depose la maschera, e, risoluto di giocare il tutto pel tutto, si rivelò restauratore della religione antica. Non è ben chiaro ch'egli facesse atto pubblico di fede politeista, prima della sua partenza dalla Gallia, ma, durante il viaggio dalla Gallia a Sirmio, diede apertamente, con una certa ostentazione, alla sua spedizione il carattere di un'impresa posta sotto il patrocinio degli dei. Giuliano stesso ce lo dice, in una lettera da lui diretta al suo venerato maestro, il filosofo Massimo, e scritta, appunto, mentre egli era in marcia verso i Balcani. In mezzo alle cure urgenti da cui è premuto, Giuliano è grato agli dei che gli permettono di poter scrivere a Massimo, e che spera gli permetteranno di rivederlo. Egli protesta, e chiama in testimonio gli dei, di esser diventato imperatore contro la sua volontà262. Poi, con quella facilità e grazia di descrizione che gli è naturale, racconta l'incontro da lui fatto, con un inviato di Massimo stesso, e gli esprime tutta l'ansia che aveva provata al pensiero dei pericoli ai quali il maestro e l'amico del Cesare ribelle poteva esser esposto. Infine chiude la lettera parlando del favore con cui gli dei accompagnano la sua impresa che si compie senza violenza e con grande facilità, e così finisce: «Noi adoriamo gli dei apertamente, e la maggior parte dell'esercito che mi accompagna è devoto ad essi. Noi sacrifichiamo in faccia a tutti, ed offriamo agli dei il dono di molte ecatombi. Gli dei mi comandano di santificare ogni mia azione, ed io obbedisco con tutta l'anima, ed essi mi assicurano grandi frutti della mia impresa, pur che si persista»263. Qui si sente la fiducia e l'entusiasmo del riformatore che è ai primi suoi passi, ed a cui tutto par facile e pieno di speranze. Basteranno pochi mesi a fargli perdere le illusioni, così da indurlo a scrivere quello sfogo di amarezza che è il Misobarba!

Morto il cugino, Giuliano, proclamato imperatore, pel consenso di tutti, fatto il solenne ingresso in Costantinopoli, diede alla sua volontà la sanzione della legge. «Scomparso — scrive Ammiano Marcellino — ogni pericolo ed acquistata la facoltà di fare tutto ciò che volesse, Giuliano aperse i segreti del suo cuore e, con chiari e precisi decreti, stabilì che si spalancassero i templi, si presentassero le vittime agli altari, si restituisse il culto degli dei»264.

Che Giuliano prendesse queste risoluzioni, appena avuta la piena libertà d'azione, era nell'ordine naturale delle cose. Ma quale è stata la sua condotta nei rapporti col Cristianesimo, in cui vedeva un odiato nemico col quale iniziava un duello mortale? Qui è il punto più interessante dello studio che stiamo facendo sulla persona e sulle azioni dell'imperatore Giuliano. La prima mossa ch'egli fece indicò chiaramente l'indirizzo che intendeva di prendere. Mentre provvedeva alla riapertura dei templi ed alla restaurazione del culto pagano, chiamava nel suo palazzo i capi della Chiesa cristiana, divisa, come sappiamo, in due partiti che si detestavano a vicenda, ed, in presenza della plebe cristiana, ammessa anch'essa al cospetto dell'imperatore, li ammoniva cortesemente, affinchè, sopite le discordie, ognuno servisse la propria religione, senza paura di nessun divieto — ut, discordiis consopitis, quisque, nullo vetante, religioni suæ serviret intrepidus265. Con questo discorso ai Cristiani di Costantinopoli, Giuliano riprendeva quel principio di tolleranza religiosa che, inaugurato da Costantino col decreto di Milano, poi da lui dimenticato, doveva spegnersi con Giuliano per non risorgere che dopo quindici secoli di completo oscuramento. A tale principio, Giuliano è rimasto fedele in tutta la sua breve carriera. I polemisti e gli storici cristiani, Gregorio di Nazianzo, Socrate, Sozomene, Rufino, si battono i fianchi per porre in cattiva luce l'azione dell'imperatore, ma non riescono, in nessun modo, a farne un persecutore. Certo, qualche atto di violenza è avvenuto, durante il breve suo regno. Ma era la conseguenza inevitabile delle passioni partigiane e delle abitudini del tempo. L'acerbo Gregorio insinua che Giuliano era lieto di lasciar mano libera al popolo, per riservare a sè stesso la parte più nobile di chi vuol convertire con la persuasione, e afferma che il suo scopo era di far violenza ai Cristiani, senza però dare ad essi l'opportunità di atteggiarsi a martiri266, ciò che, in realtà, equivale al riconoscimento, da parte del polemista, che non è constatabile nessuna violenza, voluta dall'imperatore. Rufino deve pur ammettere che Giuliano, più astuto dei suoi predecessori, invece delle inutili crudeltà, applicava le lusinghe, i premi, le esortazioni. E Socrate che usa la parola persecuzione, dichiara ch'egli comprende, sotto quel nome, qualsiasi atto che possa disturbare, anche nel più lieve modo, delle persone tranquille267.

Certo, gli storici ecclesiastici ci narrano alcuni episodi, da cui risulterebbe giustificata la taccia di persecutore attribuita a Giuliano. Ma, non bisogna dimenticare che quegli storici scrivevano un secolo dopo la morte di Giuliano, quando la leggenda si era già formata, e che, privi, com'erano, di ogni senso critico, quanto più una notizia era inverosimile, e tanto più era loro accetta. Di alcune di quelle storie il carattere leggendario è troppo evidente, perchè si possa, in alcun modo, prenderle sul serio; di altre, che forse contengono qualche elemento di verità, non si deve far risalire la responsabilità all'imperatore. Che Giuliano, avuto il potere in sua mano, tendesse ad usarne a vantaggio della causa ch'egli difendeva, che, pertanto, nei suoi giudizî, non adoperasse coi due partiti, una bilancia assolutamente eguale, che le sue preferenze pei Pagani si rivelassero con segni manifesti, lo si può riconoscere e si può anche scusare, perchè, infine, Giuliano era un uomo che mirava ad un determinato scopo, ed era inevitabile che, nello studio per raggiungerlo, si lasciasse trascinare qualche passo più in là di quello che una rigorosa imparzialità avrebbe voluto. Ma questa non può dirsi persecuzione. La persecuzione consiste nel ricercare e nel punire gli avversari solo perchè avversari, nel prendere l'iniziativa di atti diretti a distruggerli, nell'usare la violenza come arma regolare e legittima. Ora, di ciò non è traccia nella condotta di Giuliano. Se fu presa, durante il suo breve regno, qualche misura di rigore, ciò fu opera quasi sempre di prefetti che interpretavano, a loro modo, l'intenzione dell'imperatore, e, quello che più conta, fu la conseguenza di tumulti e di disordini, di cui i Cristiani avevano la colpa principale. Così, dato anche che fosse esatta la notizia, in parte evidentemente leggendaria, riferita da Socrate, del martirio di Teodulo e di Taziano, per ordine del prefetto della provincia di Frigia, bisogna notare che quei due, infiammati di zelo, si erano posti alla testa di una sommossa di Cristiani e, penetrando in un tempio appena riaperto nella città di Mero, avevano spezzate tutte le statue degli dei268. Pretendere che il governo di Giuliano assistesse impassibile ad azioni come questa, e chiamarlo persecutore, perchè un suo magistrato ne ha puniti gli autori, è cosa da polemista, non è cosa da storico.

Giuliano, come tutti i riformatori si sarà illuso che il giorno in cui egli potesse manifestare la sua idea ed inaugurare un'era nuova, il mondo gli sarebbe caduto ai piedi. Ma, invece, toccato il potere, egli trovò un'inaspettata resistenza e sentì che l'impresa era assai più ardua di quanto imaginasse. Da qui un turbamento nel suo giudizio, ed un sentimento di irritazione che diede una certa asprezza alla sua azione, nell'ultimo periodo nel suo regno. Ma non si può dire ch'egli rinnegasse mai i principi razionali a cui s'era ispirato e che partecipasse al cieco pregiudizio che aveva promosso la spietata e stolta persecuzione degli imperatori precedenti. Del resto, la moderazione di Giuliano è riconosciuta, esplicitamente, come osservammo, dallo stesso Socrate, il quale dice che Giuliano, avendo constatato che le recenti vittime della persecuzione di Diocleziano erano onorate dai Cristiani e che, col loro esempio, li eccitavano ad affrontare il martirio, prese una via diversa. Depose la crudeltà di Diocleziano, ma non per questo si astenne dal perseguitare, perchè, soggiunge Socrate, «io chiamo persecuzione il disturbare, in qualsiasi modo, la gente tranquilla»269.

Ora i modi con cui Giuliano disturbava la gente tranquilla ed esercitava la sua persecuzione sarebbero stati, secondo Socrate, il famoso divieto ai Cristiani di insegnare lettere greche — e di questo parleremo, più avanti, — il non volere nella reggia, presso la sua persona, dei soldati cristiani, il non voler affidare ai Cristiani il governo delle provincie, il cercar di persuadere, con le blandizie e coi doni, i Cristiani oscillanti a ritornare al culto degli dei, e, finalmente, l'essersi procurato un tesoro di guerra, per la spedizione di Persia, col mezzo di multe inflitte ai Cristiani che si ostinavano a non convertirsi. Di questi modi di persecuzione, è chiaro che solo l'ultimo potrebbe dirsi propriamente riprovevole, sebbene sempre assai lontano dall'abituale atrocità degli imperatori che davvero avevano perseguitato. Ma di questo provvedimento tirannico non abbiamo nessuna prova contemporanea, nessun accenno nè in Libanio, nè in Ammiano, nè in Giuliano stesso. Che ci sia stato qualche atto di prevaricazione è assai probabile, ma una propria e vera legge che ponesse i Cristiani in una difficile condizione finanziaria non esistette che nella fantasia degli storici posteriori.

Sozomene, come al solito, si attiene all'esposizione di Socrate, amplificandola ed intensificando il colorito leggendario. Le scene di martirio, da lui narrate, anche se fossero veritiere, non si potrebbero far risalire alla responsabilità dell'imperatore, senza porre in contraddizione con sè stessi Socrate e Gregorio, i quali riconoscono la tolleranza di Giuliano, pur attribuendola ad un calcolo perfido. Una notizia interessante che troviamo in Sozomene è quella dell'abolizione dei privilegi di cui godeva il clero cristiano, abolizione che, certo, sarà stata considerata acerba persecuzione. Giuliano tolse ad esso l'esenzione di cui godeva delle imposte e le prebende di cui era stato investito da Costantino e da Costanzo, ed obbligò i suoi membri a rientrare, se chiamati, nei consigli comunali, ciò che era quasi sempre un forte gravame, per la responsabilità dei singoli consiglieri nel pagamento delle tasse e delle spese municipali, un gravame a cui i cittadini cercavano ansiosamente di sfuggire. Questa persecuzione amministrativa è lamentata da Sozomene, come poco meno dannosa della crudeltà degli antichi imperatori. Ma la storia imparziale deve pur riconoscere che il meno che Giuliano potesse pretendere, dal momento che voleva restaurare il Paganesimo, era di togliere i privilegi dei Cristiani e di porre tutti i cittadini sul piede dell'eguaglianza270.

La tolleranza di Giuliano è dimostrata e commentata da Libanio, nel discorso necrologico, in modo da non lasciar dubbio che essa costituisse propriamente, per l'imperatore, un principio fondamentale di condotta. Dopo aver narrato come Giuliano rendesse i dovuti onori alla salma del suo nemico Costanzo, Libanio ci dice ch'egli inaugurava il culto degli dei «rallegrandosi di coloro che lo seguivano, deridendo gli oppositori, tentando di persuadere, ma non lasciandosi mai indurre a far violenza»271. Eppure, continua Libanio, non gli mancavano gli eccitamenti a rinnovare le sanguinose persecuzioni d'un tempo, ma Giuliano stette fermo, convinto che «non è col ferro e col fuoco che si può imporre la rinuncia ad un falso concetto degli dei, poichè se anche la mano sacrifica, la coscienza rimprovera272 ed allora si ha un'ombra di conversione, non già un cambiamento di opinione273. E poi avviene che, più tardi, costoro ottengono il perdono, mentre quelli che furono uccisi, vengono onorati al pari degli dei. Persuaso dunque di tutto ciò, e vedendo che dalla persecuzione la causa dei Cristiani ha giovamento, se ne astenne. Coloro che volevano il bene, egli li addusse alla verità, ma non fece violenza a quelli che amavano il male274..... Egli godeva nel visitare le città che avevano conservati i templi, e le credeva meritevoli dei suoi benefici; quelle che, in tutto o in parte, si erano staccate dal culto degli dei, egli le riteneva impure, ma dava loro, come agli altri sudditi, ciò di cui avevano bisogno, certo non senza dispiacere»275.

Giuliano, nella sua carriera, non ebbe che un solo momento di rigore eccessivo, al dire dello stesso Ammiano, un momento in cui lasciò libero sfogo allo sdegno che gli si era accumulato nel cuore. Entrato in Costantinopoli, trovò il palazzo imperiale pieno dei cortigiani di Costanzo. Costoro formavano una casta che, fattasi opulenta con le spoglie dei templi e con ogni abuso, dava un esempio spaventoso di corruzione, di lusso e di vizio276. Giuliano li cacciò via, con una precipitazione che, secondo l'onesto Ammiano Marcellino, gli tolse la serenità del giudizio e la possibilità di qualsiasi scelta. Ma, insieme a costoro, Giuliano trovava gli alti ufficiali e consiglieri di Costanzo, primo, fra tutti, quello sciagurato eunuco Eusebio, che era stato l'istigatore dell'assassinio di Gallo e il più implacabile nemico ch'egli avesse presso il cugino. Giuliano non seppe trattenere il desiderio della vendetta, e nominò una commissione inquirente e giudicante, a cui deferirli, e questa, credendo di seguire le intenzioni dell'imperatore, infierì contro gli accusati, macchiando di sangue, non sempre giustamente sparso, l'esordio del regno277.

La corte di Costanzo era stata tutta cristiana, perchè Costanzo era un cristiano intollerante, che non avrebbe permessa, vicino a sè, la presenza di un cortigiano che fosse rimasto fedele alla religione antica, e cristiani erano, dunque, gli intimi suoi consiglieri di cui Giuliano si prese vendetta. Ma ci voleva davvero l'acciecamento partigiano di Gregorio per insinuare che Giuliano, nell'infliggere le pene, era spinto non già dall'odio contro i consiglieri di Costanzo quanto dall'odio contro i Cristiani, come se fosse possibile che l'imperatore iniziasse una persecuzione sanguinosa proprio nei giorni in cui chiamava i Cristiani alla sua Corte, per invitarli alla concordia e per annunciar loro la piena e sicura libertà di culto! Che i cortigiani di Costanzo fossero cristiani e che, da questa circostanza, Giuliano traesse una ragione per condannare, nel suo giudizio, anche il Cristianesimo, è chiaro e naturale. Ma ciò non toglie che, nella sua condotta, egli fosse mosso da sentimenti in cui il parteggiamento religioso non entrava per nulla. Ciò vediamo, in tutta luce, in una lettera da lui diretta all'amico Ermogene, proprio nei giorni in cui aveva nominata la Commissione inquirente: «Permettimi di esclamare, come un parlatore poetico. — Oh! io che non sperava d'essere salvato, non sperava di udire che tu sei scampato dall'idra dalle tre teste! — Per Giove, non credere che io parli di Costanzo! Costui era quello che era. Voglio parlare di quelle belve che erano intorno a lui e che spiavano tutti, e che lo rendevano ancor più crudele: e sì che, per sè stesso, non era affatto mite, sebbene a molti paresse tale. Ma a lui, dal momento che è morto, sia lieve la terra, come si dice. Quanto a coloro, Giove lo sa, io non vorrei che avessero a soffrire contro giustizia. Ma, siccome si presentano molti accusatori, io ho istituito un tribunale. Tu, intanto, amico mio, vieni, e cerca di affrettarti più che puoi. È già da tempo che io supplico gli dei che ti possa vedere, ed ora che tu sei salvo, con massima letizia ti esorto a venire«278.

E in un'altra lettera, deplorando certi soprusi sofferti dagli Ebrei, Giuliano ne dà la responsabilità a coloro che «barbari nel giudizio, empi nell'anima, sedevano alla sua mensa, e che io, prendendo nelle mie mani, ho annientati, scagliandoli nel baratro, così che io non abbia più a sopportare nemmeno la memoria della loro scelleraggine»279.

È indubitabile, pertanto, che anche questo, che pure fu il solo atto duro e spietato, commesso da Giuliano, non può dirsi, per nessun modo, un episodio di persecuzione. Giuliano, come vedremo dalle sue lettere, è rimasto fedele al principio da lui posto, inaugurando il suo regno, il principio della tolleranza religiosa. Questo principio armonizzava con le tendenze del suo spirito equanime e ragionatore, al quale ripugnava la violenza. Egli aveva l'amore della discussione e del dibattito logico, e, del resto, doveva comprendere, anche senza il recente insuccesso di Diocleziano, come dovesse riuscire del tutto inefficace, anzi, impossibile una persecuzione contro una religione che aveva ormai invasa, certo, più della metà dell'impero. Ma noi crediamo, però, che vedesse pur bene ed acutamente Ammiano Marcellino, quando attribuiva la tolleranza religiosa di Giuliano anche ad un calcolo di abilità opportunista280. Le discordie intestine del Cristianesimo erano un lievito potente di dissoluzione, erano l'impedimento più forte alla costituzione di una Chiesa che potesse imporsi con un'autorità assoluta ed indiscussa. La tolleranza era una virtù che il Cristianesimo ignorava affatto, una virtù che era in contraddizione con le sue tendenze essenziali, una virtù che diventava per lui un vizio. L'intolleranza dogmatica era un fenomeno nuovo nel mondo, era la conseguenza necessaria del fatto che, intorno al nucleo monoteista della fede, si formava un complesso di dottrine metafisiche, le quali venivano a far parte integrante della religione, come una manifestazione di verità divina. Da qui la conseguenza che l'eresia diventava una colpa, che i dissensi intestini nel Cristianesimo non potevano essere tollerati, e che i Cristiani di parti avverse si guardavano e si combattevano gli uni gli altri, con un odio assai maggiore di quello che tenevano in serbo pei Pagani. Ora, Giuliano, abilmente, ed era arte di buona guerra, volle e seppe approfittare di tale condizione di cose per indebolire il nemico. E, siccome l'Arianesimo, avendo stretta alleanza con Costanzo, era diventato potentissimo, era diventato una vera religione di Stato, che aveva perseguitati e cacciati in bando i vescovi atanasiani. Giuliano non esitò un istante a pubblicare un decreto con cui concedeva agli esigliati la facoltà del ritorno in patria281, non dubitando, e con ragione, che, dal contatto delle due parti, si sarebbe immediatamente riacceso il foco delle ire e delle lotte. Qui stava propriamente il pericolo pel Cristianesimo. E Giuliano qui mostrava una grande acutezza. Se Giuliano fosse ritornato vittorioso dalla Persia ed avesse avuto un lungo regno, il Cristianesimo, abbandonato a sè stesso, divorato dalle sue discordie, poteva consumarsi e forse trasformarsi essenzialmente. Il Cristianesimo, fosse ariano, fosse atanasiano, aveva ormai bisogno del braccio imperiale. Il Cristianesimo, tralignato dalle sue origini, non poteva vivere che a patto d'essere intollerante. E l'intolleranza, per essere efficace, richiede d'aver per sè la forza materiale. La morte prematura di Giuliano rese possibile, pochi anni dopo, a S. Ambrogio di dare, con l'aiuto di Graziano e di Teodosio, la vittoria definitiva al dogmatismo cattolico.

Le lettere di Giuliano, fra le quali, insieme a confidenze amichevoli, troviamo decreti e manifesti imperiali, ci danno il modo migliore e più sicuro di penetrare nelle intenzioni di lui e di giudicare la sua condotta nelle sue relazioni coi Cristiani. Che, malgrado l'odio cordiale che sentiva per questi, Giuliano volesse astenersi da ogni atto di violenza contro la loro persona e non esitasse a condannar questi atti, quando avvenivano all'infuori della sua volontà e per effetto di passioni popolari, è dimostrato dai più chiari documenti. Ad Artabio egli scrive: «Per gli dei, io voglio che i Galilei non siano uccisi nè maltrattati contro giustizia, nè che abbiano a soffrire danno alcuno. Dico solo che si devono tenere in maggior conto gli adoratori degli dei, poichè, la stoltezza dei Galilei ci manderebbe in rovina, se non fossimo salvati dalla benevolenza degli dei»282. E in un manifesto diretto agli abitanti di Bostra, in occasione di minacciati tumulti fra Cristiani e Pagani, così conclude: «Mettetevi d'accordo e nessuno commetta violenza od ingiustizia. I traviati non devono offendere chi adora gli dei rettamente e giustamente, secondo le norme date a noi da tutta l'eternità, e gli adoratori degli dei, dal canto loro, non devono assalire le case di quelli che errano più per ignoranza che per convinzione. Dobbiamo persuadere ed istruire gli uomini con la ragione, non già con le percosse, con le violenze o coi tormenti del corpo. Ora, come già da tempo, io esorto coloro che procedono nella via della vera pietà di non recar danno alle turbe dei Galilei, di non dar loro addosso, di non far loro violenza. Noi dobbiamo non già odiare, ma compiangere coloro che hanno una cattiva condotta nelle cose di suprema importanza. Ora, il massimo dei beni è la pietà, e il massimo dei mali è l'empietà. Coloro che, abbandonando il culto degli dei, si son dati a quello dei morti e delle reliquie trovano in sè stessi il loro castigo. Noi dobbiamo compiangerli, come compiangiamo chi è affetto da qualche malattia, mentre ci rallegriamo di quelli che dagli dei furono liberati e salvati»283.

Certo, non si può essere più espliciti, più ragionevoli e temperati, dirò anche, più moderni di quello che è Giuliano nelle sue dichiarazioni: più moderni, perchè il principio di tolleranza religiosa, posto dal restauratore del Paganesimo, non doveva rivivere se non quando fosse caduto l'impero del dogmatismo infallibile. Ma Giuliano doveva trovare qualche difficoltà ad applicare intieramente quel suo principio, in mezzo alle accese passioni popolari. I Cristiani, diventati, dopo Costantino, dominatori della posizione, eran diventati a loro volta persecutori, ed avevano, in più luoghi, distrutti e saccheggiati i templi antichi. Era, dunque, inevitabile che nascesse nei Pagani tornati al potere, il desiderio della rappresaglia. Ma la situazione, già intricata per sè stessa, lo diventava ancor di più per le discordie intestine del Cristianesimo, discordie che, come notammo, tornavano a vantaggio di Giuliano, ma che pure egli non poteva lasciar divampare, senza ferir quel principio di rispetto e tolleranza reciproca che doveva essere il perno della sua politica religiosa. Come Giuliano si destreggiasse in mezzo a queste difficoltà, lo vediamo nell'episodio dell'uccisione del vescovo Giorgio d'Alessandria.

Sotto il regno di Costanzo era governatore d'Alessandria un suo fidato consigliere, Artemio, e vescovo l'ariano Giorgio. L'uno e l'altro, per le loro delazioni al sospettoso imperatore e per la tirannia crudele del loro governo, erano odiati dal popolo di una città, la quale, come dice Ammiano Marcellino, il verace narratore dell'episodio284, era sempre pronta alle sommosse, appena se ne presentasse l'occasione. Successo Giuliano, egli fece venire a Costantinopoli Artemio, che, trovato reo di grandi delitti, fu condannato a morte. Gli Alessandrini, che avevano, per qualche tempo, vissuto nel timore di un possibile ritorno di Artemio e di una ripresa del suo crudele arbitrio, avuta la notizia della sua morte, insorsero contro il vescovo Giorgio, il quale poi era specialmente odioso alla parte pagana della popolazione alessandrina, perchè eccitava i Cristiani alla distruzione dei templi. Giorgio fu miseramente massacrato dalla turba furente, e lo furono con lui due suoi compagni di fede e di intrighi, Draconzio e Diodoro. I cadaveri furono bruciati, e le ceneri disperse nel mare, pel timore che le loro tombe, come quelle dei martiri, diventassero luoghi sacri. Ammiano osserva che i Cristiani, se avessero voluto, avrebbero potuto impedire il misfatto, ma rimasero, invece, spettatori inerti. Probabilmente questi inerti Cristiani erano i fautori di Atanasio, ai quali la morte dell'ariano Giorgio non sarà stata sgradita.

Giuliano, che confondeva in un odio solo, e col solo nome spregiativo di Galilei, Ariani ed Atanasiani, non doveva, dal suo punto di vista di restauratore del Paganesimo, essere scontento di una così chiara prova dello zelo degli Alessandrini. Ma egli era imperatore e si atteggiava a reggitore imparziale e giusto. Non poteva, quindi, lasciar passare impunito il delitto. E Ammiano ci narra che, infatti, egli era risoluto a infliggere il meritato castigo. Ma gli amici, che gli stavano al fianco, e che, come sempre avviene, erano più imperialisti dell'imperatore, lo persuasero a limitarsi all'invio di un editto, che rimproverasse gli Alessandrini, lasciandoli, nel fatto, impuniti. Questo editto, che ci è conservato integralmente, è di un grande interesse per la conoscenza di Giuliano e del suo indirizzo governativo:

«L'imperatore Cesare Giuliano Massimo Augusto al popolo degli Alessandrini».

«Se anche voi non rispettate il vostro fondatore Alessandro e, meglio ancora, il grande e santissimo dio Serapide, come mai, vi domando, non vi venne il pensiero del vostro dovere davanti all'Impero ed all'umanità? Aggiungerò anche il pensiero di noi, che gli dei tutti e, fra i primi, il grande Serapide, credettero degni di governare la Terra? Di noi, che avevamo il diritto di istituire il processo contro coloro che vi avevano offeso? Ma, forse, vi trasse in inganno l'ira e la passione, la quale è solita a fare il male ed a sconvolgere il giudizio, così che voi, malgrado il vostro impulso che, sulle prime vi aveva ben consigliato, siete poi corsi a trasgredire la legge, e non vi vergognaste di commettere, tutti insieme, quei delitti, che, giustamente, condannaste negli altri.

«In nome di Serapide, ditemi, per quale colpa inferociste contro Giorgio? Risponderete, certo, che egli eccitava contro di voi Costanzo, e introdusse un esercito nella città sacra, e indusse il governatore dell'Egitto ad impadronirsi del tempio più venerato del dio, violando le imagini, le offerte votive e gli ornamenti sacri. Contro di voi che, infiammati di uno sdegno ben naturale, tentavate di difendere il dio, dirò meglio, la proprietà del dio, il governatore, iniquamente, illegalmente ed empiamente, mandò i suoi soldati, temendo, più che Costanzo, Giorgio, il quale lo sorvegliava, se mai si comportasse con voi, non già tirannicamente, ma con temperanza e civiltà. Irritati, perciò, contro quel nemico degli dei che era Giorgio, avete deturpata la sacra città, mentre voi potevate consegnarlo ai voti dei giudici. E così non vi sarebbe stata uccisione nè delitto, ma giustizia perfetta, che avrebbe difeso voi innocenti, e punito quello scellerato sacrilego, e, insieme, resi saggi tutti gli altri, quanti sono, che non rispettano gli dei, e non hanno riguardo a città come la vostra, ed a popoli fiorenti, e ritengono la crudeltà quasi un'appendice della loro potenza. Confrontate questa mia lettera con quella che vi mandai, ora è poco tempo, e vedete la differenza! Quante lodi io vi faceva! E anche ora vorrei lodarvi, ma non lo posso, per la vostra trasgressione. Il popolo vostro ha osato, come i cani, sbranare un uomo; e poi non si è vergognato di innalzare agli dei delle mani lorde di sangue! Ma Giorgio, voi dite, meritava questo castigo. Certo, io rispondo, anzi uno più grave e più acerbo. Per causa vostra, voi direte. Lo ammetto. Ma se voi diceste, per mano vostra, io direi di no. Poichè vi sono leggi che ognuno di voi deve onorare ed amare. E, se avviene che taluno le trasgredisce, voi, nella vostra maggioranza, dovete seguirle ed obbedirle, e non traviare da ciò che in antico fu provvidamente istituito. Siete ancora fortunati, o Alessandrini, di aver commessa la colpa vostra, sotto l'impero mio, poichè, per rispetto alla divinità e per riguardo al mio zio e mio omonimo, che ha governato l'Egitto e la vostra città, io serbo per voi una benevolenza fraterna. Ma una autorità rigorosa e pura tratterebbe l'audacia colpevole del popolo come una grave malattia che bisogna risanare con acerba medicina. Eppure io vi presento, per le ragioni che ho testè dette, ciò che vi sarà ben più grato, esortazioni e ragionamenti, dai quali ben so che voi sarete persuasi, se voi siete, come mi si dice, Greci d'antica stirpe e se di quella origine rimane ancora la traccia mirabile e gentile nell'animo vostro e nelle vostre abitudini.

«Ciò si renda noto ai miei cittadini di Alessandria»285.

Quando si riflette che questo editto è uscito dalla penna del più convinto nemico che abbia avuto il Cristianesimo, non è possibile non vedervi un esempio di moderazione e di padronanza delle passioni. Il vescovo Giorgio doveva essere doppiamente odioso a Giuliano, e come cristiano intollerante, e come amico e confidente di Costanzo. Pertanto la sommossa degli Alessandrini poteva esser considerata da lui come una prova di zelo e di devozione, come la dimostrazione più solenne del favore che la restaurazione, da lui iniziata, trovava nella capitale del commercio e del pensiero d'Oriente. Ma Giuliano, fedele al suo programma, non vuole nè sangue, nè violenze, nè turbolenze. Egli, certo, non permetteva la violenza dei Cristiani che correvano a perseguitare chi non credeva ciò che essi credevano, ma non permetteva nemmeno la violenza dei Pagani che da sè stessi si facevano giustizia. L'ordine nella tolleranza reciproca era il suo programma, ed egli ancor s'illudeva che il Paganesimo avesse in sè tanta forza d'attrazione che, riposto nella libertà della sua azione e del suo svolgimento, avrebbe visto ritornare a lui le turbe guarite del loro traviamento!

Se non che l'ordine nella tolleranza non era facile a conservarsi, in mezzo alle passioni esaltate. L'esempio degli Alessandrini fu seguito, a quel che narra Sozomene286, in altre città, a Gaza, ad Aretusa di Siria, dove avvennero tumulti e scene di sangue, promosse da Pagani che si vendicavano di Cristiani, mentre altrove i Cristiani, non spaventati, anzi, parrebbe, irritati dall'inaspettata risurrezione del Politeismo, si riponevano con maggior ardore a distruggere i templi. Il fatto più grave fu quello di Cesarea di Cappadocia, dove la popolazione, in grande maggioranza, cristiana, dopo aver abbattuti i templi di Giove e di Apollo, distruggeva, regnante Giuliano, il tempio della Fortuna287. L'imperatore non rispose alla sfida che con castighi, certo, assai gravi, ma d'indole amministrativa. Depose il Prefetto della Cappadocia, confiscò i beni delle chiese cristiane, impose una multa pesante e tolse alla città i suoi privilegi. Ma sarebbe ingiustizia il dare a tale procedimento il carattere di una persecuzione. Dato il compito ch'egli si era imposto, Giuliano poteva lasciar tranquilli i suoi nemici, ma non poteva permettere che impunemente gli si ribellassero, e lo ferissero in ciò che più gli stava a cuore.

Coloro che accusano Giuliano di violenza e di persecuzione per questi atti di difesa dimenticano che il Cristianesimo, appena ottenuta, con Costantino, la vittoria, non seppe sottrarsi alle condizioni dei tempi e dei costumi, e divenne tosto persecutore a sua volta. Come saggio della intolleranza dei primi imperatori cristiani e della persecuzione da loro iniziata, valga questo decreto di Costanzo e Costante, promulgato nell'anno 353. «Decretiamo che, in ogni luogo ed in ogni città, siano chiusi i templi, che nessuno vi possa entrare, e che sia negata agli empi la licenza di delinquere. Vogliamo che tutti si astengano dal far sacrificio. Se taluno perpetrasse qualche cosa di simile sia ucciso con la spada vendicatrice. Decretiamo che le sostanze dell'ucciso siano attribuite al fisco, e vogliamo che siano puniti i governatori delle Provincie che fossero negligenti nel reprimere i delitti»288. Certo, nè un Decio nè un Diocleziano potevano far meglio. Ma il documento più interessante per farci conoscere l'oppressione esercitata dai Cristiani sui Pagani, è il discorso intorno ai templi diretto da Libanio all'imperatore Teodosio. Sebbene questo discorso sia posteriore di alcuni anni al regno di Giuliano, pure esso dipinge una condizione di cose che, già da tempo, esisteva, ed è sintomatico dello stato degli animi in mezzo al conflitto di due religioni ancora rivali. L'origine del discorso è questa. L'imperatore Teodosio, con parecchi decreti, e specialmente con uno diretto al Prefetto d'Oriente, Cinegio, nel 385, aveva confermata la disposizione dei precedenti imperatori, vietante i sacrificî. Tollerava però la continuazione di alcuni riti, come l'incensamento e la preghiera, e non aveva imposta e nemmeno incoraggiata la distruzione dei templi. Ma i Cristiani, tale incoraggiamento, pare lo trovassero nella logica delle cose, e, quindi, senza aspettare nè leggi, nè ordini imperiali, si ponevano all'opera di abbattere i templi, fra i quali insigni monumenti, coprendo, coll'apparenza del fanatismo religioso, privati interessi ed avidità di guadagno. Contro tale abuso Libanio innalza la sua voce in un discorso da lui diretto all'imperatore, la cui data può determinarsi nei sei anni che corsero dal 385 al 391289.

Leggendo quel discorso si raccolgono le prove della decadenza, della corruzione morale in cui era precipitato il Cristianesimo, appena diventato dominatore. Questa impressione, che abbiamo già raccolta da tutti i documenti contemporanei, è confermata fortemente dal discorso di Libanio. Perchè costui potesse rivolgersi ad un imperatore, di fede cristiana, e quale imperatore! accusando così esplicitamente i Cristiani, e in particolare modo i chierici ed i monaci, di ogni sorta di soprusi, per la smania del lucro, bisogna pur dire che la verità dell'accusa fosse, almeno in parte, tanto lampante, da togliere ogni pericolo per chi osasse esporla e dichiararla. Noi vediamo, in Libanio, come il Politeismo si fosse ritirato dalle città nei campi, dov'era gelosamente conservato dai coloni, dagli agricoltori, i quali, con la tenacità della gente semplice e lontana dai perturbamenti sociali, adempivano le antiche cerimonie e chiamavano le note e care divinità a proteggere i loro lavori. È contro costoro che maggiormente si esercitava la prepotenza del clero cristiano che poi si arricchiva di spogliazioni, compiute in nome di un principio divino! Queste sono rivelazioni preziose. Per comprendere un movimento, come quello tentato da Giuliano, bisogna, dunque, ricordare che il Cristianesimo, perdendo affatto il suo carattere di rivendicazione morale e di sublime eroismo, si era abbassato alle condizioni del tempo, ed era diventato, nella realtà, una religione alla cui ombra pullulavano tutte le passioni e tutti i vizî che essa, se avesse effettivamente rigenerata la società, avrebbe dovuto estinguere.

Ma, prendiamo qualche fiore dal mazzo di scherni e di accuse che ci offre Libanio. «Tu — egli dice, rivolgendosi a Teodosio — tu non hai ordinato che si chiudessero i templi, nè che nessuno vi avesse accesso, nè che si allontanassero dagli altari il fuoco e l'incenso o l'onore di altri profumi. Ma quella gente, vestita di nero, che mangia più degli elefanti, e che, per le ripetute bicchierate, dà un gran da fare a coloro che, quando canta, la provvedono di vino, e nasconde tutto ciò sotto una pallidezza artificiale, ad onta della legge, o imperatore, corre ai templi, alcuni portando bastoni e sassi e ferri, altri senza di ciò, nell'intento di adoperare le mani e i piedi. Quindi abbattono i tetti, scavano le pareti, strappano le statue, spezzano gli altari. E i sacerdoti devono o tacere o morire. Distrutti i primi templi, corrono ai secondi, poi ai terzi, e, contro la legge, accumulano trofei su trofei. Ciò si osa fare nelle città, ma molto più nei campi... Li percorrono, come torrenti, devastandoli, sotto il pretesto di distruggere i templi. E quando, in un campo, hanno abbattuto il tempio, è come se ne spegnessero ed uccidessero l'anima. Poichè, o imperatore, i templi sono l'anima dei campi, e furono il primo nucleo delle costruzioni cresciute, attraverso molte generazioni, fino allo stato presente. E nei templi son poste le speranze degli agricoltori per la prosperità degli uomini, delle donne, dei figli, dei buoi, delle seminagioni e delle messi. Un campo che ha sofferto tale danno, è rovinato, ed è perduta, insieme alle speranze, la confidenza degli agricoltori. Vano credono il loro lavoro, quando son privati degli dei che lo rendono proficuo... Così l'audacia di quella gente, che si esercita scelleratamente nei campi, conduce ai più deplorevoli risultati. Dicono di far guerra ai templi; ma la guerra si risolve nel rubare, nello strappare ai poverelli ciò che loro appartiene, le loro provviste, raccolte dal suolo, pel loro nutrimento, e se ne partono, portando via, come conquistatori, le spoglie dei debellati. E non basta, chè si appropriano la terra del primo malcapitato, dicendo che è terra sacra, e così molti, per questa parola falsa, son privati dei beni paterni. Ed essi, che pretendono di servire, così dicono, col digiuno il loro dio, gozzovigliano nei mali altrui. E se poi gli sventurati, andando alla città, si lamentano col Pastore (così chiamano un uomo tutt'altro che buono) ed espongono le loro sofferenze, il Pastore loda gli offensori e licenzia gli offesi, dicendo che hanno fatto un guadagno nel non aver sofferto di più. Eppure, o imperatore, anche questi infelici fan parte del tuo impero, e son tanto più utili dei loro offensori, di quanto i lavoratori son più utili degli oziosi. Quelli son simili alle api e questi ai calabroni. Appena essi hanno notizia di qualcuno che possegga un campicello di cui lo si può spogliare, tosto affermano che colui sacrifica e fa cose riprovevoli, e che bisogna far impeto contro di lui, ed ecco entrano in scena i moralisti290, poichè questo è il nome che danno ai ladri, se pure io non dico troppo poco, poichè i ladri cercano di nascondersi, e negano ciò che osano fare, e si ritengono offesi se li chiami ladri. Ma quelli invece si vantano di ciò che fanno, e sono rispettati, e lo narrano a chi lo ignora, e affermano di essere degni di premio..... E perchè mai, o imperatore, tu raccogli tanta forza, e prepari le armi, e chiami a consiglio i generali, e li spedisci dove maggiore è il bisogno, e a questi scrivi, a quelli rispondi? E perchè queste nuove mura, questi lavori estivi? A che mira, a che serve tutto ciò per le città e pei campi? A vivere senza timore, a riposare tranquillamente, a non esser turbati dalle minacce dei nemici, ad esser certi che, se alcuno ci venisse addosso, se ne andrebbe dopo aver subìto più che recato danni. E dunque se, mentre tu raffreni i nemici esterni, alcuni tuoi sudditi maltrattano altri che sono pure sudditi tuoi, e non permettono loro di godere dei beni comuni, non è, forse, vero che essi offendono la tua provvidenza, la tua saggezza e le tue cure? Non è, forse, vero che, con le loro azioni, essi fan guerra alla tua volontà?»291.

In questo appello, nel quale lo scherno si unisce all'invettiva ed al ragionamento, Libanio ci pare davvero eloquente e pieno di abilità. E si sente nella parola dell'oratore un accento di verità, il sentimento di un diritto offeso, il grido dei vinti ingiustamente calpestati. Gli uomini non mutano nelle loro passioni. I Cristiani, diventati vittoriosi, avevano preso il posto dei dominatori di prima, e rinnovavano, in nome di un nuovo principio, quei procedimenti e quegli eccessi che già erano stati compiuti, in nome di un principio opposto. E Libanio, da pagano perseguitato, confuta energicamente l'argomento che i Cristiani persecutori presentavano a difesa delle loro violenze, cioè, che con esse costringevano i Pagani a convertirsi. Con tale procedimento, dice Libanio, non si ottengono che conversioni di apparenza. Ed allora, esclama Libanio, quale vantaggio ne avranno i Cristiani, se i nuovi convertiti lo saranno a parole, ma nol saranno a fatti? «In cose di questa natura bisogna persuadere e non costringere. Colui che, non potendo persuadere, usa la violenza, sebbene creda di riuscire, in realtà non riesce a nulla»292. Ma la colpa di questa tristissima condizione di cose non è di Teodosio, pel quale l'abile e prudente Libanio non ha che parole di lode, ma di un perfido consigliere. E par che Libanio voglia indicare Cinegio, prefetto d'Oriente, marito di Acantia, matrona che godeva fama di santità. «Questo uomo ingannatore, empio e nemico degli dei, e crudele e avaro, funesto alla terra che lo riceve, godendo di una fortuna irragionevole e male usandone, è servo della moglie, a cui compiace in ogni cosa, a cui tutto subordina. E costei deve, a sua volta, obbedire a coloro che le si impongono, e che fanno pompa di virtù coll'indossare vesti di lutto, anzi, per pompa ancor maggiore, vesti di quella tela di cui i tessitori fanno i sacchi. Questa combriccola inganna, illude, agisce sotto mano, e dice il falso»293. Curioso, davvero, questo quadretto di un prefetto d'Oriente che è guidato dalla moglie, la quale, a sua volta, è guidata dai monaci! E come è strana la diversità dei giudizî degli uomini, a seconda del colore della lente passionale con cui guardano gli oggetti! Libanio vede la perfidia ed il ridicolo, là dove un Gregorio ed un Atanasio avranno veduto l'espressione più pura della santità delle intenzioni e della condotta!

Ma Teodosio, dice Libanio, non ha mai emanata nessuna legge che sanzionasse questi eccessi. «Tu non hai mai imposto questo giogo all'anima umana. E se credi che il culto del tuo dio sia preferibile al culto degli altri, non hai dichiarato che questo sia un'empietà, e che giustamente lo si possa vietare». Chè, anzi, egli chiama presso di sè, come consiglieri e commensali, uomini notoriamente devoti agli dei, e non diffida di un amico, perchè ripone negli dei le sue speranze. E, ricordando Giuliano, la cui imagine non è mai lontana dal pensiero di Libanio, egli esclama: «tu non ci perseguiti, imitando colui che, coll'armi ha sconfitti i Persiani, ma coll'armi non ha perseguitati quelli dei suoi sudditi che gli erano nemici.»294.

Durante il soggiorno di Giuliano in Antiochia avvenne un fatto che lo ha singolarmente irritato. Non v'era cosa che fosse più ripugnante a Giuliano del culto che i Cristiani rendevano ai sepolcri dei loro martiri, dei loro uomini illustri. Questa adorazione dei morti, com'egli la chiamava, offendeva il suo senso estetico di antico greco, gli pareva assurda, e probabilmente gli era odiosa come uno dei mezzi più efficaci per esaltare gli animi in un'aspirazione devota. Quando viene a toccare di questo culto dei morti, egli ha sempre qualche parola di disprezzo o di sarcasmo, e, più ancora, che la distruzione delle chiese, egli desiderava la scomparsa o l'abbandono di quelle tombe che erano diventate luoghi sacri. Tale era appunto la tomba del martire Babila che si trovava nel sobborgo di Dafne, presso Antiochia. Quel sobborgo era un luogo di delizie per la bellezza delle piante e dei fiori, per la vista e la giocondità dell'aura. La leggenda narrava che lì la ninfa Dafne, fuggendo da Apollo, si fosse trasformata in lauro. E questa memoria, congiunta all'eccitante amenità del luogo, faceva dei boschetti di Dafne il ritrovo degli amanti. «Chi — dice Sozomene — passeggiava per Dafne, senz'essere accompagnato da un'amante, era considerato come un uomo stolto e rozzo»295. E, in mezzo a quei boschi, sorgeva la più bella statua d'Apollo, e vicino uno splendido tempio di marmo, dedicato al dio.

Se non che, quando Gallo, il fratello di Giuliano, fatto Cesare da Costanzo, e investito del governo d'Oriente, si stabilì in Antiochia, gli venne il pensiero, da quell'esaltato cristiano ch'egli era, di togliere il prestigio a quel famoso santuario dell'Ellenismo, e, per riuscirvi, pensò di costrurre, in faccia al tempio d'Apollo, un tabernacolo e di portarvi le reliquie del martire Babila. Pare che lo scopo, voluto da Gallo, fosse stato raggiunto. La presenza delle reliquie del martire, chiamando nei boschetti profumati di Dafne le turbe devote dei Cristiani, allontanava gli amanti, e spargeva un'aria di tristezza in cui spariva il sorriso del raggio apollineo.

Avvenuta la rivoluzione religiosa, Giuliano, entrato in Antiochia, volle restituire all'antico splendore il tempio ed il culto d'Apollo, e ciò non poteva farsi se non si trasportavano altrove le reliquie del martire, che deturpavano il luogo sacro. Ed infatti ordinò che si eseguisse il trasporto. Quest'ordine fu causa di una grande dimostrazione dei Cristiani d'Antiochia, i quali, al dire di Sozomene, accompagnarono in folla, cantando salmi, per quaranta stadi, la cassa dove giaceva il martire. Giuliano fu per questa dimostrazione irritatissimo e si sarebbe lasciato andare ad atti di rappresaglia, se non fosse stato rimesso sulla buona strada dal prefetto Sallustio. Se non che, pochi giorni dopo, un terribile incendio divorava il tempio d'Apollo. I Cristiani affermarono che un fulmine mandato da Dio aveva posto in fiamme il tempio, ma Giuliano non dubitò un istante a darne la colpa ai Cristiani. Con grande amarezza egli ricorda, nel Misobarba, questo fatto, e pone a raffronto la condotta degli Antiochesi con quella di altre città in cui si rialzavano i templi e si distruggevano le tombe degli atei, cioè dei Cristiani, e si giungeva contro questi ad eccessi ch'egli deplorava. Gli Antiochesi, invece, rovesciavano gli altari appena rialzati, e la mitezza con cui egli li ammoniva a nulla aveva giovato. «Infatti, quando noi facemmo trasportare il cadavere, quelli di voi che non rispettavano le cose divine, consegnarono il tempio del dio agli sdegnati pel trasporto delle reliquie, e questi, non so se nascosti o no, accesero quel fuoco che negli stranieri destò orrore, e nel vostro popolo piacere, e che lasciò e lascia ancora indifferente il vostro Senato!»296. E, forse, fu sotto l'impressione di questo fatto che Giuliano diede l'ordine, con un decreto riportato da Sozomene, di distruggere due santuari di martiri che si costruivano, in Mileto, presso il tempio di Apollo297.

Tutte queste violenze parziali, che hanno un carattere episodico e che non erano che l'inevitabile rappresaglia vicendevole di due partiti pressochè equivalenti, non bastano a togliere il fatto sostanziale della tolleranza religiosa che Giuliano confidava di poter usare come lo strumento più efficace della restaurazione da lui iniziata. Noi abbiamo già parlato di quel provvedimento così interessante e così caratteristico, preso da Giuliano, del richiamo in patria dei Cristiani, esigliati da Costanzo, in causa dei dissensi teologici. Nelle lettere di Giuliano, troviamo notizie veramente curiose ed istruttive intorno a quel provvedimento.

Il partito che aveva dominato alla corte di Costanzo non era quello dell'Arianesimo puro, ma, bensì, di un Arianesimo opportunista, il quale non ammetteva la consostanzialità del Padre e del Figlio, voluta da Atanasio e dal Concilio di Nicea, ma non affermava nemmeno la distinzione e la subordinazione del Figlio al Padre voluta dagli Ariani schietti. Costanzo, come sappiamo, aveva accettata la così detta formola omoica, che diceva esser il Figlio simile al Padre, secondo le Scritture, e vietava ogni analisi e determinazione di tale somiglianza. Costanzo impose questa formola ai due Concilî di Rimini e di Seleucia, nel 359, e poi mandò in esiglio tutti i vescovi, tanto dell'estrema destra atanasiana, quanto dell'estrema sinistra ariana, che non si piegavano ad essa. Giuliano li richiamava, tutti insieme, senza distinzione. Però è singolare la diversità di trattamento ch'egli usa verso due eroi di quelle lotte teologiche, il diacono Aezio che rappresentava l'Arianesimo intransigente, ed il grande Atanasio, il legislatore del Concilio di Nicea. Al primo, Giuliano manda questo biglietto298.

«Io richiamai dall'esiglio tutti coloro, quali essi siano, che da Costanzo furono esigliati, per la stoltezza dei Galilei. Quanto a te, non solo ti richiamo, ma, ricordando la nostra antica conoscenza e consuetudine, t'invito a venir da me. Tu potrai servirti pur di giungere al mio accampamento, della vettura di Stato e di un cavallo di rinforzo».

Chi era quest'Aezio che Giuliano tratta con speciali riguardi? Era una vecchia conoscenza dell'imperatore. Ma guardiamolo, per un istante; poi gli porremo accanto la grande figura di Atanasio, e così avremo davanti a noi due profili caratteristici del tipo cristiano del secolo quarto. Aezio, Siro di origine, si era dato, in gioventù, alle arti più varie. Era stato fonditore di metalli, poi medico, ed, a poco a poco, si era fatto conoscere per l'inquietudine del suo spirito e per la singolare attitudine alle discussioni teologiche che erano la passione intellettuale del tempo. Se dobbiamo creder a Socrate, egli era assai più versato nella dialettica di Aristotele che nella conoscenza degli scrittori cristiani, e professava il disprezzo per Clemente ed Origene299. Allontanato da Antiochia come disturbatore della pace religiosa, Aezio, soggiornando in Cilicia e, specialmente, a Tarso, strinse amicizia coi seguaci delle idee lucianiste e ne divenne un apostolo ardente.

Ritornato poi in Antiochia, Aezio si fa amico del presbistero Leonzio che apparteneva alla medesima scuola lucianista. Corre poi ancora in Cilicia, quindi ad Alessandria, a disputare con gnostici e manichei, finchè, diventato Leonzio vescovo di Antiochia, ritorna a metterglisi al fianco, ed è fatto diacono. Ma egli desta intorno al vescovo tale un turbinio di discordie e di dispute, che Leonzio è costretto a tenerlo lontano dalle sacre funzioni, conservandogli, però, l'ufficio d'insegnante. Pare che egli prendesse parte, nel 351, al Sinodo di Sirmio, dove avrebbe ferocemente combattuto gli Atanasiani. Questi avrebbero cercato di muovere contro di lui i sospetti di Gallo, il fratello di Giuliano, che, come sappiamo, era stato dall'imperatore Costanzo eletto alla dignità di Cesare. Ma non ci sarebbero riusciti. Infatti Aezio è tanto padrone della situazione e della fiducia di Gallo che costui lo manda, più volte, come suo confidente, al fratello Giuliano. Da qui la relazione fra il principe ed il diacono ariano, e gli speciali riguardi ch'egli ha per lui, appena salito al trono. Gregorio di Nissa accusa Aezio di essere stato consigliere di Gallo nell'uccisione del prefetto Domiziano e del questore Monzio, delitto orribile che poi ebbe per conseguenza la catastrofe di Gallo. Ma quale fede si possa avere nella narrazione del vescovo atanasiano, non è dato saperlo, poichè atanasiani ed ariani si accusavano, gli uni gli altri, senza punto scrupoli. Nel 356 Aezio va ad Alessandria, il gran focolare delle ire teologiche, e prende posizione come un ariano intransigente e di estrema sinistra, e vi parla e scrive come uno dei capi di un giovane Arianesimo. Richiamato in Antiochia dal vescovo Eudossio, lo compromette per modo, con la sua politica irritante, che i semiariani finiscono per aver buon gioco sull'animo di Costanzo, ed ottengono l'allontanamento del vescovo e l'esiglio di Aezio in Frigia. Un anno dopo, nel 360, avendo Costanzo, risolutamente presa in mano la formola omoica, con cui s'illudeva di imporre la pace ai partiti che squarciavano la Chiesa, si accrebbero i rigori contro Aezio che dal Sinodo di Costantinopoli fu dichiarato decaduto dal suo diaconato, e dall'imperatore confinato in Pisidia. Venuto al trono Giuliano, le sorti di Aezio volsero al meglio. Richiamato dall'esiglio, dichiarata nulla la sua deposizione, fu riconsacrato da un sinodo raccolto in Antiochia, insieme ad altri Ariani. Il focoso polemista morì, probabilmente, poco dopo, perchè di lui non si ha più traccia.

Noi non sappiamo se Aezio abbia accettato l'invito dell'imperatore che, mentre lo chiamava a sè, qualificava di stoltezza il Cristianesimo, ma, se ha accettato, non è riuscito a farlo parteggiare a favore dell'Arianesimo. Giuliano era affatto indifferente ed imparziale per tutte le sette cristiane ch'egli confondeva in un odio comune. E che di tale odio gli Ariani avessero la parte a loro spettante, ce lo prova una lettera, scritta in occasione di tumulti promossi, in Edessa, dagli Ariani, che è tanto giusta nella sua ispirazione quanto acerba nella sua ironia.

«Ad Ecebolio. — Io tratto i Galilei tutti con tanta mitezza e filantropia che nessuno ebbe mai a soffrire violenza, e non voglio che siano trascinati al tempio, o costretti a cosa alcuna contraria alla loro intima convinzione. Ma quelli della Chiesa ariana, inorgogliti della loro ricchezza, assalirono i Valentiniani, e commisero, in Edessa, disordini tali, quali non dovrebbero mai verificarsi in una savia città. Se non che, siccome una legge mirabilissima insegna loro che bisogna esser poveri per aver più facile l'accesso al regno dei cieli, così, per aiutarli, noi comandiamo che tutti i beni della Chiesa degli Edesseni siano confiscati e distribuiti ai soldati, e le sue terre aggregate ai nostri domini. Per tal modo, impoveriti, diverranno saggi ed otterranno lo sperato regno dei cieli!»300.

Bisogna, dunque, dire che la sua cortesia per Aezio avesse proprio solo un movente di simpatia personale, e non possiamo dedurre che Giuliano arianeggiasse, ciò che sarebbe stato veramente inesplicabile, dato che, nella corte semiariana di Costanzo, egli aveva avuto i suoi più fieri avversari. Tuttavia, il personaggio che destava, nell'imperatore, la più implacabile antipatia, si trovava nel campo opposto, ed era nientemeno che il grande Atanasio, il fondatore dell'ortodossia cattolica. Questi due uomini, geniali l'uno e l'altro, di cui l'uno rappresentava il passato e l'altro l'avvenire, l'uno l'Ellenismo risorgente, l'altro il Cristianesimo dominatore, erano incompatibili l'uno all'altro. Il fatto che Giuliano tanto si incollerisce contro Atanasio, che era stato una vittima di Costanzo, mostra che, malgrado la sua giovinezza, egli conosceva a fondo gli uomini e vedeva dove stava il pericolo. Egli sentiva che la forza del Cristianesimo non stava già nel corrotto Arianesimo, sebbene dominasse sovra metà del mondo cristiano; ma bensì, nell'energia entusiasta del partito che, sventolando il vessillo del mistero mistico della Trinità, si stringeva intorno alla grande figura del vescovo d'Alessandria. Se Atanasio fosse scomparso, l'ortodossia cattolica non si sarebbe fondata, e il Cristianesimo non avrebbe avuta quella organizzazione che lo fece traviare dal suo carattere originale, ma che pur gli era necessaria per vivere.

Per comprendere l'importanza del duello fra Giuliano ed Atanasio, diamo un'occhiata alla figura di quest'ultimo.

Nessuna esistenza più burrascosa e più eroica di quella d'Atanasio. Un romanziere, di fervida fantasia, un Sienkiewicz, potrebbe costruirgli intorno un epico racconto. Nulla può servire a dare un'idea viva dell'ambiente del secolo quarto meglio che lo studio di questa grande figura e delle sue tempestose avventure. L'uomo era grande davvero, era un carattere dominatore per eccellenza, una tempra inflessibile di combattente, un'anima dal volo largo e potente. C'è molta analogia fra Atanasio ed Ambrogio. Ma Ambrogio si è trovato in condizioni assai meno difficili e pericolose. Ambrogio non trovò contrasti nell'esercizio della sua autorità, fuor che durante la reggenza di Giustina. Ma il vescovo era troppo forte in confronto all'imperatrice, per poter dubitare della vittoria finale. All'infuori di quest'urto passaggero, Ambrogio dominò sovrano, ed ebbe, nella guerra contro l'Arianesimo, a sua disposizione l'aiuto del potere imperiale. Graziano e Teodosio furono due strumenti nelle sue mani, coi quali egli è riuscito ad erigere l'ortodossia cattolica a religione dello Stato. Atanasio, invece, ebbe una vita di lotte incessanti e gigantesche. Egli aveva l'impero contro di sè. Se si eccettui Costantino, ai tempi del Concilio di Nicea, e il fuggevole Gioviano, egli ebbe persecutori tutti gli imperatori che vide succedersi nella sua lunga vita, sul trono di Costantinopoli, Costanzo, Giuliano, Valente.

Nato negli ultimi anni del secolo terzo, Atanasio passava la sua prima giovinezza in Alessandria, al fianco del vescovo Alessandro, di cui fu l'ispiratore in quei primi dissensi fra il vescovo ed il presbitero Ario, che poi condussero alla guerra civile nel seno del Cristianesimo. Al Concilio di Nicea, Atanasio era già una figura dominante, e l'Arianesimo potè vedere in lui il più poderoso dei suoi nemici. Morto Alessandro, fu eletto nel 328 vescovo di Alessandria. Ma l'opposizione del clero che arianeggiava si destò così energica, e tali furono le accuse che piombarono sul capo del neoeletto, che Costantino, il quale, intanto, visto l'insuccesso della politica ortodossa, stava piegando all'Arianesimo, chiamò l'accusato a giustificarsi prima davanti a lui a Nicomedia, poi, rinnovandosi ancora le accuse, davanti ad un Concilio raccolto a Cesarea, nel 334. Ma Atanasio indugiò a presentarsi e, sottomano, riusciva a persuadere Costantino della sua innocenza ed a riguadagnarsene il favore. Se non che, i suoi nemici avevano giurata la sua rovina. Eusebio di Nicomedia, il futuro educatore di Giuliano che viveva presso l'imperatore, lo indusse a convocare, nel 335, un altro sinodo a Tiro, che giudicasse il vescovo d'Alessandria. Questi si presentò al Concilio, con un seguito imponente di cinquanta vescovi, ma, convintosi che l'assemblea avrebbe sentenziato contro di lui, non aspettò il verdetto di destituzione, e s'imbarcò per Costantinopoli, fidando nell'influenza della sua persona sull'animo di Costantino. Nè s'ingannava, chè l'imperatore, posto fra il Concilio ed Atanasio, inclinava più a questo che a quello, quando Eusebio mosse al rivale una nuova accusa, questa volta, d'indole non teologica, e tale che doveva far grande impressione sull'animo dell'imperatore; accusò Atanasio di aver minacciato di far sospendere l'annuale provvista di granaglie che da Alessandria giungeva a Costantinopoli. Costantino non volle più udire Atanasio, e, senz'altro, lo esigliò a Treviri, in Germania, dove, del resto, trovò cortese accoglienza dal figlio dell'imperatore, ed un ardente collega di opinioni teologiche nel vescovo Massimino.

Morto Costantino nel maggio del 337, Atanasio ritornò trionfante in Alessandria, e riprese il suo ufficio. Fu il segnale di una nuova tempesta. Atanasio, che, certo, non era un uomo tollerante, depose dagli uffici ecclesiastici tutti coloro che erano stati suoi avversari e li sostituì con amici, infiammando sempre di più la collera degli Ariani. Sul trono di Costantinopoli sedeva Costanzo, semiariano, il quale non vedeva che con gli occhi di Eusebio. Mandò, pertanto, ad Alessandria un nuovo vescovo Gregorio, e lo fece accompagnare da una scorta militare, onde imporlo con la forza se si trovasse resistenza. Infatti, la venuta di Gregorio fu causa di sommosse e di scene di violenza. Ma Atanasio vedendo inutile ogni sforzo, nel marzo del 340, partiva, pel suo secondo esiglio, e si recava a Roma presso il vescovo Giulio. In Occidente, Atanasio trovava amici ed appoggio, cominciando dall'imperatore Costante che, diversamente del fratello Costanzo, era propenso all'ortodossia. Per cinque anni, l'infaticabile Atanasio, protetto dall'imperatore, si agita a difesa ed a gloria della fede da lui professata con sì eroica convinzione. A Milano, nelle Gallie, ad Aquileja, egli è il legislatore religioso. Ma, intanto, anche in Oriente, le cose volgevano al meglio per lui. Costanzo, stimando conveniente di non staccarsi troppo aspramente dal fratello, accennava ad un più mite contegno; così che, morto nel 345 il vescovo Gregorio, Atanasio potè presentarsi a Costanzo in Antiochia, ed ottenere da lui di esser ripristinato nella sua sede di Alessandria. Nel 346, egli, infatti, vi rientrava fra il giubilo del popolo. Ma la pace ebbe breve durata. Morto Costante nel 350, Costanzo non ebbe più ritegno a parteggiare per l'Arianesimo. E, di conseguenza, ricominciò la guerra contro Atanasio, accusato di essere il disturbatore della tranquillità della Chiesa. Vari tentativi per impadronirsi della persona del vescovo riuscirono vani pel minaccioso atteggiamento della popolazione alessandrina. Ma, finalmente, nella notte del 9 febbraio del 356, il governatore Siriano, con buon nerbo di soldati, riesce a penetrare nella chiesa, dove il vescovo celebrava un servizio divino. Ne viene un sanguinoso tumulto, durante il quale Atanasio sparisce. Gli Ariani, vittoriosi, riprendono tutti gli uffici che erano stati costretti ad abbandonare, e alla sede vescovile è nominato quel Giorgio, di cui abbiamo già fatta la triste conoscenza.

Durante questo terzo esiglio, che durò dal 356 al 361, Atanasio visse negli eremi dell'alto Egitto, ritornando, però, di nascosto, più volte in Alessandria, dove egli alimentava il suo partito con gli scritti che andava componendo nella sua feconda solitudine. Per verità, se si dovesse prestar fede a Sozomene, il fiero vescovo avrebbe passato meno duramente questo lungo periodo di rinnovata persecuzione. Narra lo storico che Atanasio rimase in Alessandria, nascosto presso una vergine di singolare bellezza, di tale bellezza che nessuna donna d'Alessandria poteva esserle eguagliata. Ma riproduciamo le parole di Sozomene che ci presentano uno strano manicaretto di santità e di romanzo, una miscela che a noi pare eterogenea, e che pur riusciva prelibata ai palati letterari del secolo quarto. «A quanti vedevano quella vergine, essa appariva un miracolo, ma coloro che ci tenevano alla fama di temperanza e di saggezza la fuggivano, pel timore che si sospettasse di loro. Poichè era proprio nel fiore dell'età, e supremamente dignitosa e modesta... Ora, Atanasio, mosso a salvarsi da una visione divina, si rifugiò presso quella vergine. E, se io investigo l'evento, mi par proprio di vedervi la mano di Dio, il quale non voleva che gli amici di Atanasio soffrissero molestia, se mai alcuno volesse interrogarli intorno a lui o costringerli a giurare, mentre, intanto, Atanasio se ne stava nascosto presso colei, la cui bellezza era troppo grande per permettere il sospetto che il sacerdote potesse trovarsi con lei301. Essa lo ricevette con coraggio e lo salvò con la prudenza, e fu una custode così fedele ed una servente così premurosa, da lavargli i piedi, da provvedere essa sola al cibo, ed a tutte le altre cose che la natura ci rende indispensabili negli urgenti bisogni302. Di più si procurava dagli altri i libri che gli erano necessari. E malgrado che ciò durasse lunghissimo tempo, nessuno dei cittadini di Alessandria mai lo seppe»303.

Del resto, sia che Atanasio si rifugiasse nei nascondigli del deserto, sia che rimanesse celato nei penetrali della casa verginale della bellissima fanciulla, la sua azione e la presenza erano spiritualmente sentite nell'ambiente eccitato di Alessandria; così che il vescovo Giorgio, il quale, come sappiamo, era un imprudente, non aveva la vita tranquilla, ed era, ad ogni istante, esposto alle sommosse di una popolazione irritata contro di lui, finchè giunto al trono Giuliano, le ire ammassate scoppiarono terribili e lo trascinarono alla catastrofe, alla quale gli Atanasiani assistettero impassibili e, probabilmente, conniventi.

Pubblicato il decreto di Giuliano che permetteva il rimpatrio ai vescovi esigliati dall'ariano suo antecessore, Atanasio, non solo ritornò in Alessandria, ma rioccupò, senz'altro, il seggio vescovile, e riprese, con rinnovata energia, la sua azione di propaganda e di combattimento.

Ora, la condotta di Atanasio disturbava la politica di Giuliano, il quale voleva tenere i due partiti cristiani sul piede d'eguaglianza, e di reciproca tolleranza, nella previsione che si sarebbero indeboliti a vicenda. Ma nulla era più lontano dalle sue intenzioni che il dar mano forte all'ortodossia per vincere l'Arianesimo, e nessuno, pertanto, poteva essergli più sospetto e più odioso dell'ardente Atanasio. Egli, pertanto, s'inalberò davanti alla ricomparsa brillante del vescovo d'Alessandria e sentì di non poterla tollerare. Vide in Atanasio un nemico più forte di lui, che avrebbe reso vano il tentativo a cui aveva dedicata la sua vita, e decise di soffocarlo. Cominciò la persecuzione col pretesto che Atanasio era uscito dalla legge. Infatti l'imperatore aveva, con un editto, concesso il rimpatrio dei Cristiani esigliati, ma, in quell'editto, non era detto che potessero riprendere il governo delle rispettive chiese. Atanasio, invece, non aveva esitato un istante a mettersi al posto del massacrato Giorgio. Ed ecco che Giuliano manda tosto questo nuovo decreto agli Alessandrini. «Un uomo, esigliato da tanti decreti di tanti imperatori, avrebbe dovuto aspettare una speciale autorizzazione, prima di rientrare in patria, e non già offendere, con audacia e con follia, le leggi, quasi non avessero valore. Noi abbiamo concesso ai Galilei, esigliati da Costanzo, non già il ritorno nelle loro chiese, ma, bensì, il ritorno in patria. Ed ora apprendo che l'audacissimo Atanasio, gonfiato dall'abituale impudenza, ha ripreso quello che essi chiamano il trono vescovile, ciò che non è poco sgradevole al pio popolo di Alessandria. Noi, pertanto, gli ordiniamo di uscire dalla città, immediatamente nel giorno in cui avrà ricevuto questa lettera, che si deve considerare come un segno della nostra mitezza. Ma, s'egli rimane, noi gli decreteremo maggiori e più molesti castighi».304 Pare che Atanasio restasse, malgrado le minacce, ed, anzi, non pago di combattere gli Ariani, facesse opera di feconda propaganda presso i Pagani, guadagnando al Cristianesimo sopratutto le donne. Giuliano, furente, manda al governatore dell'Egitto, Edichio, questo biglietto:

«Se non volevi scrivermi d'altra cosa, dovevi però scrivermi di quel nemico degli dei che è Atanasio, tanto più che ti è noto ciò che, già da tempo, fu da me saviamente stabilito. Io giuro pel grande Serapide che se, prima delle calende di Decembre, quell'Atanasio, nemico degli dei, non se n'è andato dalla città, anzi, da tutto l'Egitto, io imporrò alla provincia da te amministrata una multa di cento libbre d'oro. Tu sai quanto io sia lento nel condannare, ma molto più lento nel perdonare, se ho una volta condannato».

Pare che fin qui, Giuliano, dettasse il suo decreto ad un segretario. Preso da un subitaneo impulso di sdegno, afferra lui lo stilo, e scrive: «Di mia propria mano. — A me duole assai essere disobbedito. Per tutti gli dei, nulla potresti farmi di più grato che lo scacciare, da ogni angolo d'Egitto, Atanasio, quello scellerato che ha osato, me imperante, battezzare le donne greche di illustri cittadini. Sia perseguitato!»305.

Nel primo decreto agli Alessandrini, l'imperatore comandava che Atanasio fosse bandito dalla città. Ora, ciò non gli basta, deve esser esigliato da tutto l'Egitto. E questo nuovo ordine, trasmesso al governatore con quel biglietto di poche frasi iraconde, è poi svolto largamente in questo proclama al popolo d'Alessandria:

«Giuliano agli Alessandrini».

«Dato anche che voi aveste per fondatore uno di coloro che, trasgredendo la legge paterna, hanno avuto il castigo meritato, e preferirono vivere illegalmente ed introdurre una rivelazione ed una dottrina novella, voi non avreste ragione di chiedermi Atanasio. Ma avendo, invece, per fondatore Alessandro e dio protettore Serapide, insieme ad Iside, la vergine regina dell'Egitto... (qui il testo s'interrompe...) voi non volete il bene della città; siete una parte ammalata di essa, che osa di appropriarsene il nome.

«Io mi vergognerei, per gli dei, o Alessandrini, se anche uno solo di voi confessasse di essere Galileo. I padri degli Ebrei anticamente furono servi degli Egizî. Ed ora voi, o Alessandrini, dopo aver soggiogati gli Egizî (poichè il vostro fondatore conquistò l'Egitto), voi offrite, agli sprezzatori delle patrie leggi, a coloro che anticamente avete incatenati, la vostra volontaria servitù. Nè vi ricordate della vostra antica prosperità, quando tutto l'Egitto era unito nel culto degli dei, e godeva di ogni bene. Ma coloro che introdussero presso di voi questa nuova rivelazione, di qual benefizio, ditemelo, furono promotori per la vostra città? Vostro fondatore fu un uomo pio, Alessandro il Macedone, che, certo, per Giove, non assomigliava, in nulla, a costoro, e neppure agli Ebrei che pur valgono tanto più di loro. Successi a quel fondatore i Tolomei non favorirono forse paternamente la vostra città come figlia prediletta? La fecero forse prosperare coi discorsi di Gesù, o le procurarono l'opulenza di cui ora è felice, con la dottrina dei pessimi Galilei? Infine, quando noi romani diventammo signori della città, rimovendo i Tolomei che governavano male, Augusto, presentandosi a voi, diceva ai cittadini: — Abitanti di Alessandria, tengo irresponsabile di quanto è avvenuto la vostra città, per rispetto del gran dio Serapide... —

«Di tutti i favori che particolarmente alla vostra città furono largiti dagli dei d'Olimpo, io taccio per non andar per le lunghe. Ma, potete voi, forse, ignorare i favori largiti dagli dei, ogni giorno, non già a pochi uomini, o ad una sola schiatta o città, ma a tutto il mondo insieme? Forse voi soli non vi accorgete del raggio che emana dal Sole? Non sapete che la primavera e l'inverno provengono da lui? Che da lui hanno vita gli animali tutti e le piante? Non comprendete di quanti beni vi sia datrice la Luna che da lui nasce e ch'egli ha fatta sua ministra in tutto? E voi osate non inchinarvi a questi dei? E credete che debba essere per voi verbo di Dio quel Gesù che nè voi nè i vostri padri hanno visto? E quel Sole che tutto il genere umano, fino dall'eternità, contempla e venera, e che, venerato, benefica, il gran Sole, io dico, l'imagine vivente ed animata e razionale ed operosa del Tutto intellettivo...». Qui il testo s'interrompe e noi perdiamo la chiusa dell'entusiastico inno. Ma poi continua:

«Ma voi non travierete dalla retta strada, se crederete a me che la percorro dal ventesimo mio anno, ed è ormai un dodicennio, coll'aiuto degli dei.

«Se a voi sarà caro il lasciarvi da me persuadere, ne avrete gran gioia. Se voi vorrete restar fedeli alla stoltezza ed all'insegnamento di uomini malvagi, intendetevela fra di voi, ma non chiedetemi Atanasio. Son già troppi i discepoli di lui che possono confortare le vostre orecchie, se hanno il solletico o sentono il bisogno di empie parole. Così si limitasse al solo Atanasio la scelleraggine del suo empio insegnamento. Ma voi avete abbondanza di persone capaci e non vi è difficoltà di scelta. Chiunque voi scegliate nella folla, per ciò che riguarda l'insegnamento delle Scritture, non sarà inferiore a colui che voi desiderate. Che se poi amaste Atanasio per qualche sua altra abilità (poichè mi dicono che l'uomo sia un intrigante), e per questo mi rivolgeste le vostre preghiere, sappiate ch'io lo scaccio dalla città proprio per questo, perchè l'uomo che vuole metter le mani in tutto, è per natura, disadatto a governare, tanto più se non è nemmeno un uomo, ma un omiciattolo vile, come questo vostro grande che crede d'esser sempre in pericolo di vita, ed è causa di continui disordini. Pertanto, onde impedire che ciò avvenga, noi prima decretammo che uscisse dalla città, ed ora da tutto l'Egitto.

«Ciò sia annunciato ai nostri cittadini di Alessandria»306.

Atanasio non oppose resistenza al decreto di Giuliano. Da quell'uomo sperimentato ed acutissimo che egli era, e che aveva attraversati ben altri pericoli ed avventure, comprese la vanità del tentativo di Giuliano. Sul punto di partire da Alessandria, alla moltitudine che lo circondava piangendo — «Fatevi coraggio, disse, non è che una nuvoletta, e presto sarà scomparsa»307. Mirabile vaticinio, pronunciato al momento in cui Giuliano dominava in tutta la sua giovanile potenza, e che rivela, con la calma e serena sicurezza della parola, la grandezza di mente di un uomo insigne, assai più delle iperboliche invettive di un Gregorio e di un Cirillo.

Il proclama di Giuliano è singolarmente interessante e prezioso per penetrare nell'animo e nelle intenzioni di Giuliano. Non è, certo, privo di abilità l'artifizio polemico col quale lo scrittore cerca di far vergogna agli Alessandrini, che si piegano al giogo dei discendenti degli Ebrei, essi che, un tempo, avevano tenuto in servitù il popolo ebreo. Egli si meraviglia profondamente che gli Alessandrini possano essere caduti in tanta debolezza intellettuale da prender sul serio una figura, priva affatto d'ogni importanza storica, come quella di Gesù, che essi e i loro padri non avevano mai veduto, mentre contemplano, ogni giorno, il Sole, che è datore di vita e che rappresenta visibilmente il dio supremo! Siccome Giuliano era affatto chiuso al fascino che emana dal Vangelo, per lui la storia di Gesù non era che una favola, composta di elementi mal cuciti insieme, ed, anzi, essenzialmente irrazionali. Ed egli si stupiva che si potesse avere un parere diverso del suo. Ma, pure, malgrado quella sua convinzione, che qui si rivela, nell'inno al Sole, con parole tanto sentite, da essere una prova della sua sincerità, Giuliano non si lascia distogliere dalla prestabilita tolleranza. Deplora la cecità degli Alessandrini, e, per ragioni di antipatia personale, non vuole che Atanasio eserciti su di essi la sua influenza. Ma, non impedisce che i Cristiani d'Alessandria vengano istruiti nella loro dottrina, e seguano i molti maestri di cui possono disporre. A lui pare veramente inconcepibile e doloroso che gli orecchi degli Alessandrini sentano il desiderio del solletico della parola cristiana; ma, se ciò è, ne usino pure a loro piacimento, col solo divieto di udire la parola di Atanasio. Questa feroce antipatia che Giuliano sentiva pel vescovo di Alessandria torna tutta ad onore di quest'ultimo, ed è la dimostrazione parlante del valore singolare dell'insigne personaggio. E, certo, c'è, in Giuliano, l'ira del partigiano che vede davanti a sè un nemico che è più forte di lui e ch'egli non riesce a domare. L'uccisione del vescovo Giorgio, che pareva fosse un sintomo del ritorno degli Alessandrini all'Ellenismo, non aveva servito che a ridare ad Atanasio la sua antica potenza, e, quindi, a rendere più efficace la propaganda cristiana. Era, dunque, naturale ed umano che Giuliano s'irritasse di questa condizione di cose ed uscisse dalla sua moderazione. Ma, nell'aver dato alla sua collera il carattere di una lotta personale, Giuliano ha dimostrato come anche l'insuccesso ed il disinganno non riuscissero a spingerlo ad una persecuzione sistematica e generale.

L'argomentazione di Giuliano, in questo proclama agli Alessandrini, è proprio sintomatica del suo pensiero. La civiltà antica, con tutte le sue glorie, le sue tradizioni, i suoi ricordi, pare a lui un bene così prezioso ch'egli non sa comprendere come si possa accogliere una dottrina che non la riconosce, che ha origini ad essa estranee, e che, se vittoriosa, finirà per rovinarla e per distruggerla. Ma come? La tradizione sarà interrotta, la storia chiusa? Tutto lo splendido passato cancellato per sempre? E cancellato dall'intrusione di un elemento straniero? Ma chi potrebbe porre a raffronto il valore di questo elemento straniero con la grandezza delle memorie patrie? E Giuliano, per far sentire l'umiltà disprezzabile dell'origine della nuova dottrina, non chiama i Cristiani che col nome di Galilei. È possibile che da un piccolo, ignorato, barbaro cantuccio dell'immenso impero venisse una forza capace di combattere e di vincere le più luminose e potenti tradizioni? È possibile che i Galilei fossero più sapienti e più forti dei Greci? È possibile che gli Alessandrini dimentichino Alessandro e i Tolomei e i Romani e Serapide ed Iside e tutto, infine, quel complesso d'uomini, di leggi, di religione, di storia su cui si è innalzata la loro civiltà, la loro ricchezza, la loro fortuna? Perchè mai abbandonano queste care e grandi e gloriose memorie, per seguire la chiamata di Gesù? Di un uomo, nato in Galilea, straniero affatto al mondo greco e romano, di un uomo oscuro, conosciuto per non altro che per incerte e confuse notizie, senza sapienza, senza forza, che si è lasciato miseramente uccidere? Non è questa una suprema follia?

Questa argomentazione di Giuliano che poteva parer valida a chi non credeva nel Cristianesimo, non aveva valore alcuno per chi già credeva. Il credere non è cosa di ragionamento, di convenienza o di opportunità. La fede nasce per un impulso spontaneo dell'anima umana che sente il bisogno di soddisfare speciali aspirazioni, e non v'ha ragionamento che valga a spegnerla quando sia nata. Tutti questi ricordi, questi richiami di Giuliano ad un passato glorioso cadevano nel vuoto e non giungevano a toccar un'anima che già avesse sentito il fascino del Cristianesimo, e che, attratta da altri ideali, fosse già accorsa là dove quegli ideali trovavano la loro soddisfazione. D'altronde, era troppo tardi. Un discorso, come quello di Giuliano, sarebbe stato compreso, ed avrebbe forse avuta una certa efficacia, pronunciato, da un Marco Aurelio, due secoli prima, quando il Paganesimo viveva ancora in tutta la sua maestà, ed il Cristianesimo era sul nascere. Ma, nella metà del secolo quarto, quando il Cristianesimo era già stato ufficialmente riconosciuto ed era padrone di mezzo il mondo, quel discorso doveva far l'effetto di una voce fioca che veniva da una grande lontananza e che non aveva la forza di destare eco alcuna nell'anima di quelli a cui giungeva.

Nel duello con Atanasio, la condotta di Giuliano, per quanto possa, in parte, essere scusata, peccò di eccesso, e prese l'aspetto di una persecuzione individuale. Un altro caso in cui Giuliano ha lasciato trasparire un odio che lo trascinava all'ingiustizia fu quello del vescovo di Bostra. Noi sappiamo come uno dei primi atti di Giuliano fosse stato il richiamo dei vescovi, esigliati da Costanzo, i quali appartenevano, per la massima parte, al partito atanasiano. Ed abbiamo anche osservato come, sotto a quel decreto, che, certo, era, in sè stesso, un atto di tolleranza, fosse probabilmente il desiderio e la speranza che il contatto dei capi dei due partiti, in cui si divideva il Cristianesimo, accendesse di nuovo un incendio di discordia, il quale consumasse la potenza della Chiesa. Le previsioni dell'acuto imperatore si avverarono tosto. Il richiamo degli esigliati fu il segnale dello scatenamento di una nuova tempesta. Ora, Giuliano, volle approfittare, pe' suoi scopi, di tale tempesta. Nella lotta contro il Cristianesimo, gli premeva, sopratutto, di scuotere l'influenza dei vescovi. Abbattuta questa, gli sarebbe stato più facile impadronirsi delle plebi. E le discordie intestine gli suggeriscono un artifizio, di cui la lettera ai cittadini di Bostra ci fornisce un curioso esempio. L'imperatore si rivolge alla popolazione cristiana di quella città per dichiarare che non la tiene responsabile dei disordini che vi avvengono. La responsabilità è tutta dei vescovi che infiammano animi acciecati ed ignari. Ma non si deve credere che i vescovi stessi siano mossi da zelo religioso. Tutt'altro. Se fosse così, essi dovrebbero essere contenti della clemenza e dell'imparzialità di Giuliano, che restituisce la pace alla Chiesa. Ma il vero è che quella clemenza e quell'imparzialità tolgono ad essi ed a tutto l'alto clero il mezzo di abusare della loro posizione, di arricchirsi a spese degli altri, di commettere soprusi, di appropriarsi ciò che appartiene ai loro rivali. Le plebi cristiane devono aprire gli occhi e non cadere nel tranello che i vescovi tendono loro, per farsene uno strumento di bassa cupidigia. Se non che, questo artifizio della polemica imperiale pareva potesse difficilmente applicarsi a Tito, il vescovo di Bostra, il quale aveva esercitata un'opera di pacificazione, e, credendo ingenuamente di farsi un merito presso Giuliano, gli aveva scritto per dirgli che, sebbene i Cristiani costituissero la maggioranza della popolazione, egli, con le sue esortazioni, li aveva trattenuti dal far danno a chicchessia. Questa frase imprudente dà all'imperatore, perfidamente abile, il modo di tentar di rovinare il povero vescovo. Egli cita, nella sua lettera, la frase isolata, e ne deduce la conseguenza che il vescovo ha voluto darsi tutto il merito della tranquillità dei cittadini di Bostra, i quali, se non ci fosse stato lui, avrebbero tumultuato e non obbedirono che di mala voglia alle sue ingiunzioni. Tito, conclude Giuliano, è stato un calunniatore ed i Bostreni devono cacciarlo dalla loro città.

Ma riportiamo questa lettera curiosa, di cui ci son già note le esortazioni alla tolleranza religiosa308:

«Io credeva che i capi dei Galilei dovessero sentire maggior gratitudine per me che per colui che mi ha preceduto nel reggere l'impero. Poichè, regnando costui, molti di loro furono esigliati, perseguitati, imprigionati, e furono uccise turbe intiere dei così detti eretici, così che a Samosata, a Cizico, in Papfagonia, in Bitinia, in Galazia, e in molti altri luoghi, si distrussero dalle fondamenta villaggi intieri. Ora sotto il mio impero, avviene l'opposto. Gli esigliati furono richiamati, e coloro, i cui beni erano stati confiscati, li riebbero per effetto di una nostra legge. Ebbene, essi vennero a tale eccesso di furore e di stoltezza che, dal momento che ad essi non è più dato di tiranneggiare, nè di continuare le lotte che si erano accese fra di loro dopo che avevano oppressi gli adoratori degli dei, infuriati d'ira, danno mano alle pietre, ed osano agitar le turbe e tumultuare, empi verso gli dei, ribelli ai nostri decreti, che pur sono ispirati a tanta benevolenza. Noi non permettiamo che nessuno sia, contro volontà, trascinato agli altari, e dichiariamo apertamente che, se qualcuno spontaneamente vuol partecipare ai nostri riti ed alle nostre libazioni, deve prima purificarsi, e supplicare gli dei punitori. Tanto siamo lontani dal permettere che uno qualsiasi di quegli empi o voglia o supponga di essere presente ai nostri riti sacri, prima di aver purificata l'anima con le preghiere agli dei, e il corpo con le lustrazioni di legge.

«Or dunque è manifesto che le turbe, ingannate dal clero, tumultuano appunto perchè è tolta a questo l'impunità. Infatti a coloro che esercitavano la tirannia non basta di non pagare il fio del male che hanno fatto, ma, desiderando di riavere l'antico potere, ora che non è più lecito ad essi di far da giudici, di scrivere testamenti, di appropriarsi le eredità altrui e di prender tutto per sè, eccitano ogni disordine, e, versando, per così dire, fuoco sul fuoco, osano aggiungere ai mali antichi mali maggiori, e trascinano le moltitudini alla discordia. Parve dunque a me di proclamare e di render manifesto a tutti con questo decreto il dovere di non tumultuare insieme al clero, di non lasciarsi persuadere a scagliar sassi ed a disobbedire ai magistrati. Del resto, a tutti è concesso di riunirsi finchè vogliono, e di far tutte quelle preghiere che loro piacciono. Ma non devono lasciarsi trascinare ai tumulti, se non vogliono subirne la pena.

«Io credo opportuno di dichiarar ciò, in ispecial modo alla città dei Bostreni per la circostanza che il vescovo Tito e i chierici che son con lui, in un memoriale che mi mandarono, accusano la popolazione di essere inclinata al disordine, sebbene essi l'esortassero a non tumultuare. Ecco la frase che è scritta in quel memoriale e che io aggiungo a questo mio decreto — «Sebbene i Cristiani eguagliano nel numero i Greci, pure, trattenuti dalle nostre esortazioni, non disturbarono nessuno, in nessuna cosa». — Così il vescovo parla di voi. Voi vedete che egli dice che la vostra buona condotta non viene dalla vostra inclinazione, che anzi si direbbe che voi foste, vostro malgrado, trattenuti dalle sue esortazioni. Dunque, di vostra iniziativa, cacciatelo dalla vostra città come un accusatore vostro, e mettetevi, tutti insieme, d'accordo, e non ci siano nè contrasti nè violenze»309.

Giuliano chiude la sua lettera con quegli ammonimenti ad una reciproca tolleranza che già conosciamo310. Ma la saggezza di quei consigli non toglie che la condotta di Giuliano verso Tito sia ancor più grave e riprovevole della sua condotta verso Atanasio. Con quest'ultimo era guerra aperta e, dal punto di vista di Giuliano, guerra giustificata. Ma l'artifizio da lui usato contro il vescovo di Bostra è di un'ipocrisia che lascia una macchia sul carattere di lui. È interessante ed istruttiva, in questa lettera, la descrizione dei costumi del clero Cristiano, che era stato completamente corrotto dalla posizione dominante in cui si trovava. La sete di rapidi guadagni, la smania del potere, la tendenza all'intrigo erano così palesi e generali che il polemista pagano ne poteva trarre argomento e sostegno ed a giustificazione della guerra da lui mossa al Cristianesimo. Giuliano pone molto abilmente la quistione. — Vedete, egli dice, io ho resi alla Chiesa dei Galilei degli incontestabili benefici. Ho richiamato gli esigliati, ho ridonato i beni confiscati, ho cercato di porre fine alle violenze che la dilaniavano. Ebbene, invece di trovare gratitudine, ho raccolto il risultato di essere da tutti, senza distinzione, più odiato del mio predecessore che pur aveva ferocemente perseguitata una parte di quella Chiesa a vantaggio dell'altra. Ciò perchè non già la pace ed il rispetto reciproco desiderano i capi della Chiesa, ma l'impunità nella prepotenza e nel sopruso. Il mio sistema di governo, che vuole l'ordine, la tolleranza delle opinioni e delle credenze e l'obbedienza intiera alle leggi, è odioso a tutti coloro che si sentono legate le mani, e preferirebbero l'arbitrio e la violenza perchè ne sanno trarre soddisfazione dei loro interessi. — Non erano corsi che sessant'anni dalla persecuzione di Diocleziano, quando il Cristianesimo sanguinante raccoglieva nel suo seno tutto l'eroismo di cui è capace il genere umano, ed ecco che pochi decenni di sicurezza e di prosperità lo hanno ridotto ad essere un'istituzione così piena di vizî, così facile ai soprusi, signoreggiata dalle passioni del lucro e del potere, da permettere a chi vuole combatterla di atteggiarsi a difensore dei deboli, a vindice della morale offesa. Dato anche che, nelle parole di Giuliano, si senta un artifizio di malevolenza, quelle parole dovevano avere una base di verità. Se non l'avessero avuta, l'argomentazione del polemista sarebbe riuscita del tutto inefficace. L'ideale divino del Cristianesimo primitivo, plasmandosi nelle forme della realtà, si era miseramente sciupato, e si era inoculati i vizî che era venuto a strappare.

Io credo d'aver dimostrato, con la scorta dei documenti, che la persecuzione di Giuliano o non avvenne che nella fantasia degli scrittori che lo combattevano o si ridusse ad atti di difesa, non sempre, è vero, corretti e leali e, forse, talvolta, spinti all'eccesso dallo zelo intempestivo di qualche prefetto. Ma vi ha un atto di Giuliano, un atto autentico che ha sollevata la più ardente indignazione dei Cristiani contemporanei, e che, anche ora, è considerato da molti storici come la prova dell'intolleranza persecutrice dell'apostata imperiale. Quest'atto è la promulgazione della legge per la quale egli intendeva vietare ai maestri cristiani d'insegnare, nelle scuole pubbliche, lettere greche. L'immensa importanza che si è data a quest'atto, che, dopo tutto, non aveva che un carattere amministrativo, mostra come lievi dovessero essere le preoccupazioni per la supposta violenza del nuovo persecutore. Ma, in ogni modo, la mossa di Giuliano è sintomatica di un indirizzo di pensiero e di tendenze che, per la prima volta, si fa vivo nel mondo antico, ed è l'indirizzo che doveva poi metter capo alla censura letteraria. Già vedemmo come Giuliano raccomandasse ai suoi sacerdoti di non leggere Epicuro. Ebbene, col suo decreto, egli vuole impedire che i libri sacri del Politeismo siano, nella scuola, letti e spiegati da maestri incapaci, a suo parere, di comprenderne l'ispirazione ed il significato.

Ora, appunto perchè l'atto di Giuliano è sintomatico di un nuovo atteggiamento dello spirito umano, dobbiamo esaminarlo nella sua origine e nella sua essenza, e cercare di formarcene un giudizio preciso, basato sulla conoscenza oggettiva delle condizioni, in mezzo alle quali è apparso. E, prima di tutto, dobbiamo guardare alla posizione che la religione aveva presa, in mezzo alla società greco-romana del secolo quarto, dopo la promulgazione dell'editto di Costantino.

L'editto, datato da Milano, nel 313, con cui Costantino, insieme al collega Licinio, riconosce l'esistenza legale del Cristianesimo, è un documento che farebbe grandissimo onore allo spirito filosofico dell'imperatore, se, con tutta la sua condotta successiva, egli non avesse dimostrato che quel decreto non era già il prodotto di un pensiero meditato, ma semplicemente una mossa di politica opportunista.

L'impero romano, come tutti gli Stati del mondo antico, aveva una religione nazionale, i cui atti erano la sanzione, la consacrazione della sua esistenza. Se non che il Politeismo, appunto perchè affermava la molteplicità degli dei, non aveva difficoltà ad ammettere, vicino agli dei nazionali, anche gli dei stranieri, pur che il loro culto si piegasse a quegli atti esterni da cui l'autorità dello Stato aveva il necessario riconoscimento. Il Cristianesimo fu combattuto appunto perchè vietava ai suoi fedeli di compiere quegli atti, e quindi appariva come un'istituzione politicamente sovvertitrice. Ora ciò che nel decreto di Costantino è propriamente singolare ed originale non è già la proclamazione del principio di tolleranza per tutti i culti, poichè, come dissi, la tolleranza sta nell'essenza stessa del Politeismo, ma bensì nell'abbandono esplicito, dichiarato, assoluto di ogni religione di Stato. Lo Stato, per Costantino, deve accontentarsi di un puro deismo, di un deismo così razionale, che gli sono affatto indifferenti le modalità del culto che gli uomini prestano a Dio. Ed, anzi, è appunto perchè Costantino vuole che, nell'interesse dell'impero e dell'imperatore, questo Dio sia pregato da tutti gli uomini, che la sua legge afferma la completa libertà del culto ed abbandona ogni pretesa al compimento di riti ufficiali e determinati. Quali siano le forme esterne, tutte le preghiere sono accette a Dio. Lo Stato non ha nessuna ragione di preferire, di far propria una forma piuttosto che un'altra. Ciò che preme allo Stato ed all'imperatore non è già che gli uomini preghino in un dato modo, ma che preghino. Ogni legame fra lo Stato ed una determinata religione è del tutto spezzato. Il principio ispiratore del decreto di Costantino è propriamente — libera Chiesa in libero Stato. — «Noi diamo — scrive Costantino ai governatori delle provincie — ai Cristiani ed a tutti libera scelta di seguire quel culto che preferiscono, affinchè la divinità che è nel cielo possa esser propizia a noi ed a quanti sono sotto il nostro dominio. Per un ragionamento sano e rettissimo, noi siamo indotti a decretare che a nessuno sia negata la facoltà di seguire le dottrine ed il culto dei Cristiani; noi vogliamo che ad ognuno sia concesso di applicarsi a quella religione che a loro pare più conveniente, onde la divinità possa assisterci, in ogni congiuntura, con la sua usata benevolenza..... Noi — continua l'imperatore, rivolgendosi ai singoli governatori — raccomandiamo vivamente il nostro decreto alle tue cure, per modo che tu comprenda come sia nostra volontà di dare ai Cristiani una libera, assoluta facoltà di seguire il loro culto. Ma, se tale assoluta libertà è data da noi ad essi, tu vedrai come la medesima libertà dev'essere data ad ogni altro che voglia partecipare agli atti della religione che gli è propria. È una conseguenza manifesta della pace dei tempi nostri che ognuno sia libero di scegliere e di venerare quella divinità che preferisce. Ed è perciò che noi vogliamo che nessun esercizio di culto e nessuna religione abbia da voi il più piccolo impedimento... Seguendo questa via, noi otterremo che la provvidenza divina, di cui già, in molte occasioni, provammo i favori, ci rimanga sicuramente e per sempre propizia.»311.

Il decreto di Costantino è, nel suo principio ispiratore, uno degli atti più razionali che siano mai usciti dal potere legislativo, anzi, si può dire che la legislazione di tutti i tempi e di tutti i popoli non è mai andata al di là. Donde mai sia venuta a Costantino l'ispirazione di quello strano decreto, il quale, mentre riconosceva nel Cristianesimo il diritto di vivere e di esercitare il proprio culto, gli negava l'affermazione di ciò che costituisce il suo principio essenziale, l'affermazione di una verità dogmatica ed assoluta, non lo sapremo mai. Che esistesse, fra i Pagani fedeli all'idolatria ed alla superstizione del Politeismo ed i Cristiani che, con la loro religione metafisica, andavan creando una nuova idolatria ed una nuova superstizione, un partito che militava sotto la bandiera di un Cristianesimo razionalmente deista, si può, forse, dedurre dalle parole di Ammiano. Nel mettere in ridicolo la mania teologica di Costanzo, il nostro storico dice che costui confondeva con una superstizione scipita la religione cristiana absolutam et simplicem312. Questi due epiteti che, sul labbro di un Politeista, suonavano una lode, pare accennino ad un Cristianesimo senza dogmi e senza riti, tollerante nella sua pura affermazione deista, un Cristianesimo stoico di cui troviamo la prima professione nell'Ottavio di Minucio Felice. Il decreto di Costantino deve essere nato in questo ambiente di religione razionale e, perciò, opposta al dogmatismo invadente. Se non che, la prontezza con cui Costantino ha abbandonato quel suo sereno ed illuminato razionalismo dimostra che non era la manifestazione di una convinzione formatasi nella sua coscienza, ma il portato del consiglio altrui. Infatti Costantino, appena si accorse che il Cristianesimo poteva diventare nelle sue mani una forza efficace, si affrettò a stracciare quel suo mirabile decreto e, discendendo dalla vetta del suo deismo razionale, diede al Cristianesimo, ora ortodosso ora arianeggiante, il valore di una vera e propria religione di Stato, la quale, appunto perchè traeva la sua ragion d'essere non più da una necessità politica, ma, bensì, da una verità dogmatica, escludeva e perseguitava le altre. Costantino aveva scritto: — non importa il modo con cui gli uomini pregano, pur che preghino. — Nel Cristianesimo da lui riconosciuto, il modo diventò tosto la condizione del pregare. Chi non pregava in un dato modo non poteva più pregare. I suoi figli precipitarono in questo movimento che ebbe poi con Teodosio la sanzione solenne e definitiva.

Ebbene Giuliano, per quanto si dichiarasse tollerante in materia religiosa, non poteva collocarsi neppur lui al punto di vista del decreto di Costantino, perchè egli pure voleva una religione di Stato, e tale era per lui il Paganesimo al quale, e qui sta la novità del suo tentativo, egli dava un valore dogmatico. Giuliano era uomo del suo tempo e non gli si poteva chiedere di far rivivere un decreto che il suo autore stesso non aveva eseguito, che era stato per lui una dichiarazione affatto teorica di principî, non mai una norma di condotta pratica. Giuliano voleva opporre al Cristianesimo riconosciuto come religione essenzialmente dogmatica una religione che non lo fosse meno. Da qui veniva la necessità di impedire che si diffondesse ciò che per lui era un errore, sopratutto quando l'errore si giovava dei mezzi che lo Stato forniva. La legge scolastica da lui promulgata si ispirava a tale ordine di idee, era uno degli strumenti di difesa di cui voleva armarsi nella sua lotta religiosa. Esaminiamola ora attentamente per vedere se, dato il punto di partenza da cui muoveva Giuliano, essa può dirsi intollerante o tirannica.

Onde porre ben chiari i termini della quistione, cominciamo col riprodurre letteralmente la famosa legge, emanata da Giuliano, nell'anno 362, pochi mesi prima ch'egli partisse da Costantinopoli per Antiochia, a prepararvi quella spedizione di Persia, in cui doveva eroicamente perire. La legge dice così:

«Conviene che i maestri delle scuole siano eccellenti prima nei costumi, poi nell'eloquenza. Ora siccome io non posso esser presente in ogni città, così ordino che chiunque voglia darsi all'insegnamento, non balzi d'un tratto e temerariamente in quell'ufficio — non repente nec temere prosiliat ad hoc munus — ma, approvato dal giudizio dell'autorità, ottenga un decreto dei curiali — (noi diremmo del Consiglio comunale) — al quale non manchi il consenso degli ottimi cittadini. Questo decreto sarà poi riferito a me per esame, affinchè l'eletto si presenti alle scuole delle città, insignito, pel nostro giudizio, di un più alto titolo d'onore — hoc decretum ad me tractandum refertur ut altiore quodam honore nostro judicio studiis civitatum accedat».

Notiamo, anzi tutto, che la legge di Giuliano si riferisce esclusivamente alle scuole municipali, che erano poi le scuole pubbliche. Nel secolo quarto, l'insegnamento ufficiale era pressochè intieramente affidato alle città, che mantenevano a loro spese le scuole, e dovevano nominare gli insegnanti, col mezzo dei loro consigli. Di ciò abbiamo prove infinite,313 ma basterebbero a dimostrarlo l'autobiografia di Libanio, in cui quel famoso professore di retorica narra le sue continue peregrinazioni fra le scuole di Costantinopoli, di Nicomedia e d'Antiochia, ed i suoi discorsi, in cui si parla così di frequente delle contestazioni sempre risorgenti fra le autorità cittadine e gli insegnanti, ai quali quelle autorità lesinavano lo stipendio, cosa questa che non avveniva solo nel secolo quarto. A tutti poi è noto come quel giovane, ardente d'animo e d'ingegno, che diventò poi S. Agostino, sia venuto a Milano, appunto perchè le autorità cittadine del luogo, dovendo eleggere un maestro di retorica e non trovando nella città nessuno che fosse di loro aggradimento, si rivolsero a Simmaco, il prefetto di Roma, ut illi civitati rhectoricæ magister provideretur, e Simmaco mandava Agostino.

Se non che, siccome, nel secolo quarto, non esistevano quelle sottili distinzioni di competenza che complicano l'organismo della nostra società, così la circostanza che le scuole fossero mantenute a spese delle città, e le nomine fatte dalle autorità municipali, non toglieva che, in teoria ed in diritto, fossero insieme scuole cittadine e scuole di Stato, e che l'elezione del maestro discendesse, dirò così, schematicamente dall'autorità imperiale. Ma tale diritto era caduto in disuso ed in dimenticanza, così che gli imperatori non si occupavano delle scuole se non in occasioni straordinarie o per fatti completamente eccezionali. Ora, Giuliano, che era l'uomo più colto del suo tempo, voleva riassumere la cura di vegliare l'istruzione pubblica, richiamare i Consigli delle città ad un rigoroso esercizio dei loro doveri, e non solo riaffermare ma usare il proprio diritto col riserbarsi la revisione di tutte le elezioni magistrali che quei Consigli facevano.

Fin qui, dunque, parrebbe, nulla di singolare e, se anche in questa legge fa capolino quella manìa di ingerirsi di tutto che era uno dei difetti di Giuliano, essa non rivelerebbe, per sè stessa, che una lodevole preoccupazione del pubblico insegnamento. Ma è proprio il caso di dire che il veleno sta nella coda. L'imperatore riserbava a sè la revisione delle nomine degli insegnanti, e ciò, dice la legge, per investire quegli insegnanti di un più alto titolo d'onore. Ma la cosa, nella realtà, era meno innocente. Sotto a quella disposizione d'ordine generale, esisteva un'intenzione precisa e determinata. Giuliano voleva raggiungere uno scopo che a lui stava ben più a cuore che il riordinamento generico dell'amministrazione scolastica. La revisione delle nomine dei maestri, ch'egli esplicitamente si riserbava, doveva essere nelle sue mani il mezzo per escludere dall'insegnamento i maestri che fossero cristiani. Giuliano, del resto, non ha fatto un mistero di ciò. Promulgando la sua legge, egli l'accompagnava con una specie di circolare che a noi è arrivata intatta, ed in essa ci dice apertamente qual fosse il risultato a cui tendeva. Ma insieme lo spiega, lo commenta, lo giustifica, con una serie di ragionamenti ingegnosi e sottili che val la pena di esaminare e di discutere perchè conservano ancora, come oggi si direbbe, un sapore d'attualità.

Ma, prima d'entrare nell'esame dei ragionamenti di Giuliano, vediamo quali fossero le condizioni che hanno mosso l'imperatore a promulgare la sua legge. Non era corso che poco più di un mezzo secolo dai giorni in cui il Cristianesimo sanguinante subiva la terribile persecuzione di Diocleziano, ed ecco che un imperatore, nemico acerrimo del Cristianesimo più ancora di quel che fosse stato Diocleziano, perchè ispirato nel suo odio, non già dalla ragione di Stato, ma da convinzioni filosofiche, volendo sradicare la nuova religione, non trova nulla di meglio a fare che chiudere le scuole pubbliche agli insegnanti cristiani, ed ecco gli uomini più cospicui del Cristianesimo insorgere, con uno sdegno ardente e quasi feroce, contro un provvedimento che, per verità, avrebbe dovuto sembrare assai innocuo a chi poteva ancor ricordare i metodi e le condanne dei persecutori precedenti. Il vero è che il Cristianesimo, negli anni trascorsi tra il decreto di Milano e l'insediamento di Giuliano, servendosi del braccio di Costantino e de' suoi figli, era diventato dominatore, si era ormai impadronito di tutto il mondo civile. Se le campagne resistevano ancora, e conservavano tenaci il culto delle antiche divinità che s'intrecciava nella vicenda dei lavori campestri, le città si erano, sopratutto in Oriente, in gran parte convertite, e, cessata la lotta fra Cristiani e Pagani, erano diventate il teatro delle lotte intestine del Cristianesimo, fra Ariani ed Atanasiani. Se non che il Cristianesimo, proclamato religione riconosciuta e dominante della civiltà ellenica, aveva dovuto necessariamente ellenizzarsi. Era fatale che, nell'ambiente di una società la quale, pur decadendo a precipizio, ancor non viveva che delle memorie e delle abitudini del pensiero antico e non sapeva usare altre forme se non quelle che gli antichi le avevano trasmesse, il fiore palestiniano della divina semplicità evangelica andasse perduto e che la propaganda cristiana dovesse vestirsi col paludamento ellenico di quegli stessi scrittori che, dal punto di vista religioso, essa combatteva. Questo movimento pel quale il Cristianesimo si adattava alla cultura ellenica, in mezzo a cui doveva vivere e diffondersi, diventò in breve rapido ed intenso. Le scuole di retorica si riempivano di allievi cristiani, maestri cristiani occupavano le cattedre di eloquenza; sugli stessi banchi della scuola d'Atene, la più illustre fra le facoltà di lettere del secolo quarto, sedevano, al fianco del principe Giuliano, un Gregorio ed un Basiglio; i concilî, che si seguivano senza posa, onde tentar di comporre il terribile dissidio che squarciava la Chiesa, erano una grande palestra, dove si combatteva a colpi d'eloquenza; infine il Cristianesimo si era ellenizzato con una foga ed una celerità che ci dicono come, in questa rivoluzione letteraria, esso fosse guidato dall'istinto della lotta per la vita. Direi, anzi, che la coltura ellenica rifioriva per lui, poichè vi portava un impeto giovanile che, certo, più non poteva trovarsi nella decrepita civiltà del mondo antico. È vero che la letteratura greca decadeva più lentamente della letteratura latina, e mandava ancora nel secolo quarto qualche bagliore, e nei discorsi di Libanio, sopratutto negli scritti di Giuliano, nelle sue lettere, nelle sue satire, in alcune sue orazioni, s'incontrano, talvolta, delle pagine ammirabili, ma, nella letteratura del Cristianesimo ellenizzato, c'è un volo ben più largo, c'è una vita ben più intensa. Se noi poniamo a confronto uno dei discorsi in cui Libanio tesse le lodi del suo adorato Giuliano, con una delle due terribili orazioni in cui Gregorio di Nazianzo si avventa contro l'odiato imperatore, è innegabile che, anche dal punto di vista letterario, la vittoria spetta al polemista cristiano contro il retore pagano. E, se noi ricordiamo quella numerosa schiera di oratori e di scrittori ecclesiastici che, da Atanasio a S. Agostino, hanno riempito il secolo quarto della loro parola infiammata, riconosciamo tosto come l'Ellenismo entrasse quale elemento costitutivo dell'opera loro, fosse diventato uno strumento indispensabile della predicazione cristiana.

Giuliano, pertanto, si trovava davanti una religione potentemente costituita, appunto perchè aveva saputo ellenizzarsi, plasmandosi nelle forme del pensiero antico. Se anche lo avesse voluto, non avrebbe potuto combatterla con la persecuzione. La persecuzione romana contro il Cristianesimo non era stata, da Nerone a Diocleziano, che una coercitio, che un provvedimento di polizia, una misura d'ordine pubblico contro una setta che si credeva pericolosa. Ma tali procedimenti non si possono seguire che da una maggioranza contro una minoranza. Il giorno in cui la minoranza diventa maggioranza le parti generalmente s'invertono, i perseguitati diventano a loro volta persecutori. Nel Cristianesimo l'inversione si era già iniziata coi figli di Costantino. Per tanto Giuliano, non potendo più perseguitare i Cristiani che costituivano, se non la maggioranza, circa una metà dei suoi sudditi, s'era messo in capo di convertirli con le buone, di persuaderli con l'esempio e coi ragionamenti a ritornare all'antico. E, con queste idee, voleva organizzare un sacerdozio pagano che vincesse di virtù e di zelo il sacerdozio cristiano, e scriveva, egli stesso, trattati e discorsi di teologia, e componeva preghiere ferventi, e diramava, se la parola mi è concessa, delle pastorali, piene di buoni consigli e che rivelano una tendenza, come oggi si direbbe, allo spirito bigotto. In fondo, Giuliano aveva tutta la disposizione necessaria per essere un cristiano. Ma, le terribili vicende della sua fanciullezza, la minaccia continua di esser trucidato negli anni della prima gioventù, l'educazione ellenica avuta, in Costantinopoli, dal suo primo pedagogo, l'azione dei maestri, in mezzo a cui s'era più tardi trovato a Nicomedia, lo spettacolo disgraziato della Corte cristiana di Costanzo, l'antagonismo naturale contro il cugino in cui vedeva l'uccisore del padre, del fratello, degli altri suoi congiunti, la corruttela del clero ariano che gli si era messo al fianco, finalmente un sentimento vivissimo della coltura e dell'arte greca lo avevano chiuso alle attrattive che il Cristianesimo avrebbe dovuto esercitare su di uno spirito alto ed aperto come il suo. Padrone, come nessun altro, della letteratura cristiana, ch'egli scrutava con l'occhio del nemico, Giuliano si era accinto all'impresa di persuadere il mondo che il Cristianesimo poggiava sul falso, e di ricondurlo al Politeismo, ma ad un Politeismo riformato metafisicamente con le dottrine simboliche del Neoplatonismo, moralmente e disciplinarmente secondo regole ch'egli attingeva al serbatoio di quella religione stessa che voleva distrutta.

Esaltato nella metafisica teurgica che Giamblico ed i suoi allievi avevano messo in onore, Giuliano credeva nella verità del Politeismo, trasformato in un mistico simbolismo; e i racconti della mitologia ellenica diventavano una serie di simboli sacri. Omero ed Esiodo erano per lui ciò che la Bibbia era pei Cristiani. Egli era, quindi, convinto che quei libri, letti e studiati con amore e senza prevenzioni ostili, dovevano esercitare un'azione irresistibile ed essere il più efficace strumento di riconversione all'antico. Eppure, era forza constatare che la lettura di quei libri non opponeva una barriera all'invasione del Cristianesimo. Come mai ciò avveniva? Giuliano rispondeva — avviene perchè i libri sacri del Politeismo, nelle scuole pubbliche, sono in mano di maestri cristiani i quali o non li comprendono, o li contraddicono con la loro condotta fuori delle scuole, o ne fanno argomento di dileggio e d'offesa. — Egli, dunque, pensò che uno dei provvedimenti più efficaci, anzi, più doverosi che egli potesse prendere, fosse quello di sottrarre la gioventù agli effetti di quel pervertimento, e deliberò, pertanto, di impedire ai maestri cristiani di salire sulle cattedre delle scuole. Per riuscire a ciò, promulgava la sua legge, per la quale nessuno poteva darsi al pubblico insegnamento, se non fosse stato, dall'imperatore stesso, confermato nell'ufficio, ciò che equivaleva a dire che nessun maestro cristiano avrebbe avuta la necessaria conferma. La conseguenza naturale del provvedimento di Giuliano, quando avesse potuto rigorosamente applicarsi, sarebbe stato quello di imbarbarire, di nuovo, il Cristianesimo, di strappargli di dosso quella veste letteraria con cui si presentava al mondo civile, e lo guadagnava alla sua dottrina. Si comprende, pertanto, come il Cristianesimo del secolo quarto insorgesse contro questa legge come contro la più grave offesa ed il più pericoloso attacco che gli fosse mai stato mosso. Se Giuliano avesse rinnovata la persecuzione di Diocleziano, il Cristianesimo l'avrebbe affrontata impavido, sicuro di trovarvi una nuova forza. Ma la mossa di Giuliano, che tentava di levargli di mano gli strumenti della propaganda, lo riempiva di sdegno e di spavento. Certo, S. Paolo, pel quale la sapienza del mondo non era che stoltezza, avrebbe sorriso di una legge siffatta. Ma il Cristianesimo, come vedemmo, s'era trasformato; era diventato una potenza mondana, doveva adoperare le armi di questo mondo, e la coltura ellenica era un'arma indispensabile. «Donde mai — esclama Gregorio — donde mai, o il più stolto ed il più scellerato degli uomini, ti venne il pensiero di togliere ai Cristiani l'uso dell'eloquenza? Fu Mercurio, come tu stesso hai detto, che te lo pose in mente? Furono i demoni malvagi?... A noi, tu dicevi, spetta l'eloquenza, a noi il parlar greco, a noi che adoriamo gli dei. A voi l'ignoranza e la rozzezza, a voi pei quali tutta la sapienza si riassume in una parola: credo!»314. Lo storico ecclesiastico Socrate, scrittore misurato e giudizioso, che pur riconosce che Giuliano rifuggiva dalla persecuzione violenta e sanguinosa, lo chiama egualmente persecutore perchè, egli dice, con quella legge voleva impedire che i Cristiani, acuendo la loro lingua, potessero rispondere ai ragionamenti dei loro avversari315. Ma il giudizio più sintomatico è quello di Ammiano Marcellino. Costui, che non era cristiano, e sentiva una viva ammirazione per Giuliano, col quale aveva militato, colloca quel decreto fra le poche cose riprovevoli commesse dal suo imperatore, e lo giudica — un decreto inclemente, meritevole di esser coperto da perenne silenzio — obruendum perenni silentio316. — Ora, Ammiano Marcellino era un soldato espertissimo, un onesto ed imparziale narratore, ma uno spirito mediocre, il quale non prendeva nessun interesse alle quistioni religiose. Non era cristiano, ma non era nemmeno un pagano convinto e fervido. Era un indifferente, il quale, col suo buon senso, deplorava che un uomo tanto geniale e valoroso, come Giuliano, si fosse impigliato nella rete delle dispute teologiche, e sciupasse in ubbie fantastiche le doti preziose che gli erano state largite. Quel suo giudizio è interessante appunto perchè non può essere il frutto di un meditato giudizio personale, ma, bensì, l'eco dell'opinione pubblica, la quale era prevalentemente cristiana e tanto diffusa ed energica da trascinare con sè anche il voto di un pagano indifferente.

La condanna scagliata dai Cristiani contemporanei contro l'editto di Giuliano passò in giudicato anche pei secoli seguenti, divenne un verdetto irrivedibile, ed oggi ancora costituisce uno dei capi d'accusa contro l'utopistico imperatore. Ma tale condanna, certo, giustificabile dal punto di vista dell'apologia cristiana, può sostenersi se guardata con la serena imparzialità del critico, da un punto di vista puramente oggettivo? Ecco la quistione che io vorrei esaminare. Noi dobbiamo collocarci al posto di Giuliano, e non dimenticare che, convinto della bontà del Politeismo, egli voleva ricondurvi il mondo. Era, dunque, naturale ch'egli cercasse i mezzi più opportuni per resistere all'azione invadente del suo nemico. Fin qui nessuno, mi pare, potrebbe condannarlo. La condanna non sarebbe giustificata se non quando fosse provato che i mezzi da lui scelti erano iniqui, o che, nell'usare dei mezzi legittimi, che si trovavano in sua mano, egli è andato al di là dei limiti che gli erano imposti dal rispetto delle opinioni altrui.

Giuliano ha previsto l'accusa ed ha scritto la sua circolare per confutarla. La temperanza della parola e delle ragioni non ha servito che a guadagnargli la taccia d'ipocrita. Quell'infelice Giuliano non riusciva mai ad indovinarne una. Se si abbandonava ad un atto d'impazienza era un tiranno, se ragionava tranquillamente era un ipocrita. Il vero è che Giuliano era un uomo che aveva la passione del ragionamento, uno di quegli uomini che frugano e rifrugano dentro di sè per chiarire le ragioni di quello che fanno, che non sono mai paghi, se non quando riescono a provare, non solo agli altri, ma anche a sè stessi, la razionalità della loro condotta. Nel caso, che stiamo esaminando, egli non aveva nessun bisogno d'essere ipocrita. Nulla poteva opporsi all'esecuzione della sua legge, di cui non doveva render conto a nessuno. E poi le sue ragioni, quali esse fossero, non avrebbero avuto nessun valore pei Cristiani ed erano del tutto inutili pei Pagani. Ma egli ha voluto, propriamente, fondare la sua legge su di una base razionale, di cui ha tracciate le linee nella sua famosa circolare.

L'affermazione fondamentale di Giuliano, su cui si svolge il filo del suo ragionamento, è che non vi deve essere contraddizione fra l'insegnamento dato da un uomo e la sua fede e la sua condotta, e che, pertanto, non era tollerabile che i maestri i quali non erano pagani adoperassero, nel loro insegnamento, quei libri che erano i testi sacri del Paganesimo. Ciò costituiva, per Giuliano, una vera mostruosità morale.

I maestri che insegnavano ad ammirare Omero ed Esiodo e gli altri autori dell'antichità dovevano dimostrare, con la pratica della vita, di credere nella pietà e nella sapienza di quegli autori. Se non avevano tale convinzione, dovevano riconoscere che, per amore dello stipendio, insegnavano il falso. Ma seguiamo passo passo l'argomentazione di Giuliano. «Noi crediamo — egli scrive — che la buona educazione si trovi non già nell'euritmia delle parole e dell'eloquio, ma, bensì, nella disposizione di una mente sana che ha un concetto vero del buono e del cattivo, dell'onesto e del turpe. Colui, dunque, che pensa in un modo ed insegna in un altro, è tanto lontano dall'essere un educatore quanto dall'esser un uomo onesto. Nelle piccole cose, il disaccordo fra la convinzione e la parola, può essere un male tollerabile, sebbene sempre un male. Ma, nelle cose di suprema importanza, se un uomo la pensa in un modo ed insegna proprio l'opposto di ciò che pensa, la sua condotta è simile a quella dei mercanti, non dico degli onesti ma dei perversi, i quali raccomandano più che possono le cose che sanno cattive, ingannando ed adescando con le lodi coloro ai quali vogliono trasmettere ciò che hanno di guasto».

Qui, dunque, Giuliano pone il suo principio fondamentale, pel quale i Cristiani, avendo convinzioni diverse da quelle degli autori antichi, non avrebbero dovuto adoperarli, nel loro insegnamento, perchè non potevano in buona fede esortare gli allievi ad ammirarli ed a seguirne le dottrine, a meno di riconoscere che essi erano simili a mercanti disonesti che cercano di ingannare i compratori e di vendere loro una merce per un'altra. Onde non esista questo deplorevole contrasto, continua Giuliano «è necessario che tutti quelli che si danno all'insegnamento abbiano buoni costumi (e per buoni costumi Giuliano intende l'esercizio palese del Paganesimo) e portino nell'anima delle opinioni le quali non contrastino con quelle professate in pubblico». Qui è un punto veramente capitale dell'argomentazione di Giuliano. Egli pone, come ammesso, il principio che il maestro nella scuola non può dare un insegnamento, il quale non si accordi col sentimento pubblico, e ne deduce la conseguenza che il maestro non deve poi, con la sua condotta e colle sue opinioni personali, cadere in contraddizione con sè stesso. «E ciò — soggiunge Giuliano — io credo tanto più doveroso per coloro che hanno l'insegnamento della gioventù e l'ufficio di spiegare gli scritti degli antichi, siano essi retori, siano grammatici o meglio ancora sofisti, poichè questi, più degli altri, vogliono esser maestri non solo di eloquenza, ma anche di morale... Certo — continua con acerbo sorriso Giuliano — io li lodo per questa loro aspirazione a sublimi insegnamenti, ma li loderei di più, se non si smentissero e si condannassero da sè, pensando una cosa ed insegnandone un'altra. Ma come? E per Omero, per Esiodo, per Demostene, per Erodoto, per Tucidide, per Isocrate, per Lisia gli dei sono la guida di tutta l'educazione. E non si credevano alcuni di essi ministri di Mercurio, altri delle Muse? «A me pare, dunque, assurdo che coloro i quali spiegano le opere loro non onorino gli dei che essi onoravano. Ma, se a me pare assurdo, non dico per questo che essi devano dissimulare davanti ai giovani. Io li lascio liberi di non insegnare ciò che non credono buono, ma, se vogliono insegnare, insegnino prima coll'esempio, e poi convincano gli allievi che nè Omero, nè Esiodo e nessuno di coloro che commentano e di cui, fuori di scuola, condannano l'empietà, la stoltezza e gli errori verso gli dei fu quale essi dicono».

Giuliano insiste sulla necessità dell'accordo fra la condotta esterna del maestro e l'insegnamento da lui dato nella scuola. Il maestro, con gli esercizi del culto, deve dimostrare di credere in quegli dei in cui credevano gli autori da lui letti ai suoi allievi. Se non lo fa, egli implicitamente condanna gli autori che deve insegnare ad ammirare. E in questo caso, continua acutamente il loico imperiale «dal momento che i maestri vivono col guadagno ricavato dagli scritti di coloro, vengono a riconoscere di essere avidi di un guadagno vergognoso e pronti a tutto, per amore di poche dramme».

Se non che Giuliano non si rivolge solo ai maestri veramente cristiani. Egli suppone ci siano anche dei maestri pagani nel cuore, ma che, pel timore degli imperatori che sedevano sul trono prima di lui, e, in generale, per una ragione di opportunismo, trascuravano il culto degli dei. A costoro egli dice: «Certo, fino ad oggi, vi erano delle ragioni per non entrare nei templi, e la paura che, d'ogni parte, ci pendeva addosso, rendeva perdonabile il nascondere la vera dottrina intorno agli dei. Ma ora che gli dei ci hanno donata la libertà, è assurdo che gli uomini diano l'esempio di ciò che non giudicano buono. Se, dunque, essi credono nella saggezza di coloro di cui seggono interpreti, gareggino con loro nella pietà verso gli dei. Ma se, invece, sono convinti dei loro errori intorno al concetto della divinità, in tal caso, entrino nelle chiese dei Galilei, a spiegarvi Matteo e Luca, i quali fanno una legge, a chi da loro è persuaso, di star lontani dalle sacre cerimonie».

Fermiamoci un istante, prima di procedere alla chiusa del documento. È veramente curioso, ed è una prova della passione che altera tutti i giudizî relativi a Giuliano, che si possa accusare di intolleranza religiosa la sua legge, dopo una dichiarazione tanto esplicita e chiara. Intolleranza ci sarebbe stata, solo nel caso ch'egli avesse proibita la propaganda cristiana, ch'egli avesse posto ostacolo alla predicazione ed alla diffusione dei libri cristiani. Ma egli dice proprio l'opposto. Egli dice che le chiese dei Cristiani sono aperte ed esorta i loro maestri ad entrarvi per leggere coi fedeli i libri in cui sta la loro dottrina. Quando noi pensiamo che Giuliano era ardentissimo nell'amore della causa pagana e ch'egli era un imperatore onnipotente e che combatteva il Cristianesimo per ragioni dogmatiche, dobbiamo riconoscere che non solo non era intollerante, ma ch'egli ha dato un esempio veramente meraviglioso di tolleranza e che, per questo rispetto, egli offre la mano al mondo moderno, passando al di sopra del Medio Evo e dei secoli seguenti. Questa condotta di tolleranza assoluta è affermata anche nelle ultime parole della sua circolare. «Per quanto sta in me — esclama Giuliano, rivolgendosi ai Cristiani — io vorrei che le vostre orecchie, e la vostra lingua si rigenerassero, come voi direste, mercè quella dottrina a cui io mi auguro, e lo auguro a chiunque pensi ed operi d'accordo con me, di partecipare per sempre.

«Questa sia legge generale per tutti gli educatori e maestri. Ma nessuno dei giovani che voglia entrare nelle scuole venga escluso. Poichè non sarebbe ragionevole chiudere la buona strada a fanciulli che ancor non sanno da quale parte rivolgersi, come non lo sarebbe il condurli, con la paura, e contro loro voglia, alle patrie consuetudini, sebbene possa parer lecito guarirli, loro malgrado, come si fa coi deliranti. Ma è posta per tutti la tolleranza di tale malattia, e, gli ignoranti, noi dobbiamo istruirli, non dobbiamo punirli»317.

Da tali parole rimane naturalmente confutata l'accusa che dagli scrittori ecclesiastici vien mossa a Giuliano, di aver, cioè, vietato ai giovani cristiani di frequentare le scuole dove s'insegnavano lettere greche. Giuliano dice esplicitamente che la legge non riguarda che i maestri; i giovani son liberi d'andar dove vogliono. Sarebbe stato, del resto, inconcepibile che un uomo, come Giuliano, che aveva tanta fiducia nell'efficacia persuasiva degli scrittori antichi, avesse chiusa ai giovani cristiani quella che a lui pareva la più diretta e più sicura via della conversione.

Liberato così il terreno delle accuse basate sull'equivoco, esaminiamo il ragionamento fondamentale di Giuliano, per analizzarne il valore. Egli parte dalla premessa che fra la convinzione e l'insegnamento di un uomo deva esistere un accordo perfetto, e tale premessa non può che essere approvata da ogni persona ragionevole e coscienziosa. Da quella premessa egli trae la conseguenza che non potevano leggere e spiegare agli allievi Omero e gli altri autori antichi quei maestri i quali non credevano negli dei in cui aveva creduto Omero. Ora, noi sorridiamo a questa conseguenza di un principio giusto, perchè ora a nessuno può passar pel capo di prendere sul serio la teologia d'Omero. Noi ammiriamo lo stile e l'arte d'Omero e di Virgilio, e siamo ancora commossi dalla parte umana dei loro poemi, ma la parte mitologica, se può interessare il critico, come documento letterario o storico, per la coscienza nostra è cosa morta. Ma non dobbiamo dimenticare che Giuliano si trovava in posizione affatto diversa. Al tempo suo si poteva ancora credere, e si credeva effettivamente nella verità del Politeismo; la lotta fra il Politeismo ed il Cristianesimo ferveva ancora intensamente, ed egli aveva presa in mano la causa politeista e voleva restaurare il culto antico. Quindi, per lui, i libri della cultura politeista erano propriamente testi sacri, ed era ben naturale ch'egli li volesse rispettati. Ora, si potevano dare due casi; o i Cristiani, spiegando nelle scuole i testi delle antiche letterature, ne prendevano argomento ed occasione per combattere il Politeismo, che era la dottrina fondamentale di quei testi, ed essi offendevano una religione, che lo Stato e le città riconoscevano, con le armi stesse che lo Stato e le città mettevano loro in mano, o i Cristiani per salvarsi il posto di maestri, per avidità di guadagno, per essere, come dice Giuliano, αισχροκερδέστατοι, professavano, nelle scuole, una dottrina, e ne praticavano un'altra fuori di scuola, ed essi davano uno spettacolo che a Giuliano sembrava incoerente ed immorale.

Or si guardi cosa curiosa; in fondo, in fondo, il regolamento italiano che regge l'istruzione religiosa nelle scuole elementari, e che fu dettato da quell'ingegno finissimo ed equilibrato che era Aristide Gabelli, si ispira all'identico principio che fu posto, la prima volta, da Giuliano. Cosa diceva il Gabelli? Diceva, dal momento che il catechismo entra nella scuola, deve essere affidato a persone che credono alla dottrina che vi è esposta, ed, in mancanza di queste, al solo maestro davvero competente che è il sacerdote, poichè, può essere quistione discutibile se il catechismo deva entrare nelle pubbliche scuole, ma, una volta entrato, è cosa che ripugna ad ogni coscienza onesta il lasciarlo cadere nelle mani di chi ne farebbe argomento di confutazione o di dileggio. Ebbene Giuliano diceva una medesima cosa. — Io non voglio, diceva, che i libri nei quali, ad ogni pagina, si parla degli dei di Grecia e di Roma, in cui io credo e metà del mondo crede ancora, siano nelle mani di maestri, interessati a smuovere la fede in quegli dei. — Per verità, mi par difficile essere un persecutore più ragionevole e più mite!

Certo, pei Cristiani del secolo quarto, la quistione si complicava e diventava più grave per la circostanza che i libri che Giuliano voleva togliere loro di mano, erano i soli testi di cui si servisse l'insegnamento. Il mondo antico non conosceva la scienza, nel senso moderno della parola. L'insegnamento, nelle scuole, si riduceva alla retorica, con la quale non si imparava che a diventar oratore, ad adoperare quelle forme letterarie di cui il pensiero, sia politico, sia giuridico, sia religioso doveva vestirsi per essere accolto e compreso. Quest'arte non si acquistava che sugli esempi della letteratura antica, per cui l'impedirne l'uso ai maestri cristiani era propriamente un escluderli, in modo assoluto, dal pubblico insegnamento. E, infatti, dei maestri che avevano grande fama, Proeresio ad Atene e Simpliciano a Roma, non volendo piegarsi a nessun atto di apostasia, avevano dovuto abbandonare del tutto la scuola. Ora è certo che Giuliano doveva esser ben lieto di questa circostanza, che gli dava il mezzo di raggiungere lo scopo d'imbarbarire il Cristianesimo. Era un caso fortunato per lui, e del quale egli aveva il diritto di usare, come di un'arma di buona guerra, che dal principio di probità intellettuale, da lui posto, derivassero conseguenze di un'importanza sostanziale. Egli rimandava i Cristiani ai libri genuini del Cristianesimo, e riserbava ai Pagani i libri genuini del Paganesimo. Un imperatore cristiano non avrebbe permesso che il Vangelo fosse commentato e schernito da un maestro pagano; Giuliano non voleva che una sorte analoga toccasse, per parte dei Cristiani, ad Omero e ad Esiodo. La tolleranza religiosa, in tutto ciò, non è punto ferita.

Ma, se Giuliano non offendeva la tolleranza religiosa, con la sua legge, come veniva da lui interpretata, può dirsi che non offendesse la libertà d'insegnamento? La quistione è delicatissima e non può esser sciolta a colpi di maledizioni eloquenti, come facevano gli antichi polemisti, perchè essa involge il gran problema dei diritti e dei doveri dello Stato, problema che vive ancora ai giorni nostri, e vivrà, del resto, finchè vi sarà costituzione sociale. Ricordiamo, prima di tutto, che la legge di Giuliano si riferiva alle scuole delle città, che rappresentavano propriamente l'insegnamento pubblico, mantenuto a spese delle città stesse, e, quindi, dato l'ordinamento amministrativo e finanziario dell'Impero, era un vero insegnamento di Stato, dipendente dall'autorità suprema dell'imperatore. Ebbene, Giuliano affermava che l'insegnante non doveva avere opinioni che fossero in urto con quelle dello Stato. Egli non si ingeriva delle opinioni di coloro che insegnavano nelle scuole dei Cristiani, ma non ammetteva che, nelle scuole dello Stato politeista, entrassero dei maestri cristiani che ne scuotessero le basi. Il ragionamento di Giuliano potrebbe determinarsi così — lo Stato è un organismo creato per esercitare date funzioni. Sarebbe, pertanto, assurdo il volere che lo Stato permettesse che quelle sue funzioni fossero esercitate da chi se ne vale allo scopo di offenderlo; ciò equivarrebbe ad un suicidio. — Questo ragionamento è tanto vitale che, ai tempi nostri, con le modificazioni volute dalle diverse condizioni della coltura, resiste ancora, e si trovano gli argomenti per sostenerlo. È vero; il pensiero moderno, che vive nell'ambiente della civiltà scientifica, conquista gloriosa del secolo nostro, ha posto per canone fondamentale che l'intelligenza è padrona assoluta di sè stessa e che, pertanto, lo Stato, nella scienza, non può aver un'opinione da imporre agli altri, e deve lasciar libero il campo alla discussione ed alla diffusione di tutte le dottrine. Non ci può essere nè una fisica, nè un'astronomia, nè una filologia di Stato. Ma, si soggiunge, tutto ciò è vero e sta bene, finchè si tratti di scienze positive, ma la cosa cambia aspetto per quelle dottrine le quali influiscono direttamente sulle tendenze morali dell'individuo e ne determinano la condotta. Lo Stato, appunto perchè è un organismo destinato ad esercitare date funzioni, è basato, lui pure, su di una dottrina morale. Pertanto, essendo egli pure costretto ad entrare, come un combattente interessato, nella lotta delle idee, non gli si può chiedere di aprire la porta di casa sua ad un nemico e di consegnargli le armi stesse che sono in sua mano. Lo Stato ha non solo il diritto ma il dovere di difendere la propria organizzazione. E come lo potrebbe quando, davanti alla libertà di movimento lasciata ai suoi nemici, egli vincolasse la propria, ed affidasse l'esercizio delle sue funzioni a coloro che le vogliono abbattute?

Tutte queste ragioni, che sono implicite nella legge di Giuliano, e che tendono a far sentire e prevalere l'azione dello Stato nell'insegnamento che è dato a spese dello Stato stesso, sono, oggi ancora, tanto vive che le vediamo, in Francia, ispirare una legge annunciata dal ministro Waldeck-Rousseau, per chiudere le carriere dello Stato a chi non sia istruito dalle scuole dello Stato stesso, e, meglio ancora, la legge testè votata dal Parlamento francese, che toglie la facoltà d'insegnamento a quelle corporazioni religiose che non ne abbiano avuta speciale autorizzazione. Anche in questo caso, si verifica quel fenomeno divertente, e che prova in modo luminoso l'ironia delle cose umane, che reazionari e radicali si accusano a vicenda per la scelta dei metodi di governo, quando questi tornano a loro danno, ma si affrettano, e gli uni e gli altri, ad adoperare i metodi identici appena s'accorgono che sono a loro vantaggio. Giuliano non voleva che, nelle scuole pubbliche del suo tempo, i giovani fossero educati da maestri necessariamente nemici dello Stato pagano ch'egli voleva conservare. Il ministro francese non vorrebbe che le pubbliche carriere dello Stato repubblicano, ch'egli governa, fossero aperte a giovani che escono da scuole in cui si insegni ad odiare e ad insidiare la Repubblica. Contro la legge francese s'innalza il medesimo grido di protesta che ha accolto, or son diciasette secoli, la legge di Giuliano. Eppure, c'è, nell'una e nell'altra, una base razionale. Si potranno dire leggi inopportune, non mi pare si possano dire leggi tiranniche. Lo sarebbe una legge che soffocasse la libera espansione delle idee, non può dirsi tale una legge con la quale lo Stato cerca di impedire che le idee che gli sono avverse riescano a dissolverlo coi mezzi stessi che sono da lui forniti. Il maestro o l'impiegato che, nella scuola o negli uffici, agisce con le parole o coi fatti contro lo Stato da cui riceve il mandato e lo stipendio dà uno spettacolo, checchè si dica, propriamente immorale. Lo Stato ha il diritto di non volere che questo avvenga. Ma ciò naturalmente non è mai riconosciuto da coloro che si dicono offesi, perchè, nelle quistioni d'ordine morale, il giudizio necessariamente rimane offuscato dalla passione, e non c'è come l'atteggiarsi a vittima per far credere, ed anche per credere, d'aver ragione. È questa, chi ben guardi, una considerazione che dovrebbe trattenere chi ha in mano il potere dal prendere dei provvedimenti i quali, per quanto razionali e giustificati in sè stessi, ottengono molte volte dei risultati opposti a quelli che se ne aspettano. L'imperatore Giuliano, che pure non aveva l'intenzione di far delle vittime, ha avuto il torto, come tanti altri dopo di lui, di parere di volerlo, e con ciò ha dato a coloro ch'egli voleva combattere l'opportunità di gridare alla persecuzione. La sua mossa, pertanto, è stata infelice e molto più dannosa a lui che ai suoi nemici, perchè il parere perseguitato è, a questo mondo, per chi deve esercitare un'azione morale, il miglior modo d'essere forte.

IL DISINGANNO DI GIULIANO

L'infelice Giuliano nella sua breve carriera, preparava a sè stesso un doloroso disinganno. Egli doveva, ben presto, persuadersi che tutti i provvedimenti, da lui escogitati, non riuscivano allo scopo che tanto gli stava a cuore. La propaganda politeista, sebbene voluta e diretta dall'imperatore stesso, non aveva che scarsissimi risultati. Il mondo anche là dove non esisteva fervore cristiano, era indifferente alla restaurazione del culto antico. Lo sforzo di Giuliano si consumava nel vuoto. Egli raccoglieva, dovunque, le prove di tale condizione di cose e, col suo ingegno arguto, ne comprendeva tutto l'amaro significato. Ad un amico di Cappadocia, scrive318: «Mostrami, in tutta la Cappadocia, un sol uomo che sia genuinamente ellenico, poichè finora io non veggo che gente la quale non vuol fare i sacrifici, e quei pochi che vogliono non sanno come fare». E nella chiusa di quella lettera al gran sacerdote di Galazia, di cui già conosciamo le istruzioni relative all'organizzazione del sacerdozio, egli dice: «Io sono pronto a venire in aiuto degli abitanti di Pessinunte, se essi si renderanno propizia la Madre degli dei; se la trascureranno, non solo ne avranno rimprovero, ma, per quanto acerbo il dirlo, subiranno gli effetti del mio sdegno

A me nè accor, nè rimandar con doni
Lice un mortal che degli Eterni è in ira!

«Persuadili, dunque, se hanno caro che io mi occupi di loro, ad essere unanimemente devoti della Madre degli dei»319.

Strano davvero e sintomatico il fatto che, nella città stessa dove sorgeva il santuario della Dea che era la figura principale del Politeismo rinnovato, Giuliano si vedesse costretto a pungere lo scarso zelo degli abitanti e ad eccitarli ad onorare gli dei!

Ma particolarmente interessante, anche per questo rispetto, è la graziosissima lettera che Giuliano scrive a Libanio, per narrargli la marcia da Antiochia, a Jerapoli320. Al termine della prima tappa, a Litarbo, Giuliano è raggiunto dal Senato d'Antiochia, a cui dà udienza nella casa dove alloggia. Probabilmente gli Antiochesi desideravano placare lo sdegnato imperatore che, abbandonando Antiochia, aveva dichiarato di non voler più ritornarvi. Egli non dice il risultato della conversazione, riserbandosi di riferirlo a voce a Libanio, nel caso ancor non lo sapesse, quando si rivedranno. Da Litarbo va a Beroe, dove rimane un giorno per visitare l'Acropoli, sacrificare a Giove un toro bianco, e conferire brevemente col Senato intorno al culto degli dei. Ma, ahi, dice Giuliano, con un sorriso tra il triste e l'ironico, «tutti lodarono il discorso, ma ben pochi furono convinti, e questi lo erano già prima del mio discorso!».

Da Beroe Giuliano giunge a Batne, luogo incantevole, paragonabile solo a Dafne, il sobborgo di Antiochia, prima che bruciasse il tempio d'Apollo. La bellezza della pianura, i graziosi boschetti di verde cipresso, il modesto palazzo imperiale, il giardino che lo circonda, meno splendido di quello d'Alcinoo, ma simile a quello di Laerte, le aiuole piene di legumi e di alberi carichi di frutti, tutto lo delizia. E poi da ogni parte s'innalzano i profumi dell'incenso, e da ogni parte sacrifizi e pompe solenni. Ma anche qui l'incontentabile imperatore, a cui lo zelo religioso non lasciava requie e che godeva nel tormentarsi, non è del tutto soddisfatto. A lui pare eccessiva l'agitazione, eccessivo il lusso di quelle feste. Gli dei devono esser onorati con tranquilla dignità. Egli provvederà più tardi ad accomodar le cose. Forse il sospettoso Giuliano vedeva in quell'eccesso di manifestazioni il desiderio di gittargli polvere negli occhi, più che una prova di sincera devozione. Finalmente arriva a Jerapoli. Qui è ricevuto da Sopatre, l'allievo e il genero del filosofo Giamblico, il dio in terra di Giuliano. La sua gioia è immensa, tanto più che Sopatre gli è anche caro, perchè, avendo ospitati Costanzo e Gallo, pressato da essi ad abbandonare gli dei, ha saputo resistere e non fu preso dal morbo321.

Intorno alle cose politiche e militari, egli non scrive a Libanio, perchè gli sarebbe impossibile metter tutto in una lettera. Ma, tanto per dargli un'idea di ciò che fa, gli narra di aver mandato un'ambasciata ai Saraceni per averli alleati e di aver organizzato un servizio di esplorazione, di aver presieduto dei tribunali militari, di aver riunita una quantità di cavalli e di muli pei trasporti e di aver raccolte barche fluviali piene di frumento e di pane secco. Si aggiunga a tutto ciò la corrispondenza epistolare che lo segue dovunque e le letture non mai interrotte. Certo nessun uomo non fu mai più intensamente occupato.

Del resto, la prova più evidente dell'insuccesso di Giuliano, ce la dà Ammiano Marcellino. Costui non era cristiano. Sarebbe, dunque, a supporsi che, scrivendo la storia dell'imperatore apostata, avesse parole di entusiasmo pel tentativo da lui iniziato, e salutasse in Giuliano il desiderato restauratore. Nulla di tutto ciò. Ammiano è, per questo rispetto, di una glaciale indifferenza. Egli ha qualche parola di scherno pei Cristiani, che dice odiarsi gli uni gli altri assai più che le bestie feroci, ma non prende nessun interesse all'opera di Giuliano la quale, si vede, non era per lui che un esercizio, un'ubbia fors'anche, di filosofo, a cui non valeva la pena di dar molta attenzione. Ed anzi trova, come vedemmo, eccessivo, inclemens, il decreto che toglie ai maestri cristiani l'uso dei libri pagani e non esita a manifestare la sua disapprovazione per le manie rituali del fervente imperatore. Ora, se tale era Ammiano, un uomo che, per la sua coltura, si deve supporre particolarmente devoto alle memorie antiche, è facile imaginare la profonda indifferenza, anzi, l'ostilità che Giuliano avrà trovata nella massa sociale, a cui gli ideali dell'Ellenismo erano divenuti del tutto estranei. Il vero è che Giuliano non era compreso che dai retori e dai filosofi, i quali facevano parte del piccolo cenacolo neoplatonico. Per vedere apprezzata l'opera sua dobbiamo rivolgerci al discorso necrologico composto da Libanio, il quale, fra i meriti e le glorie di Giuliano, pone anche quello di aver ricondotto in terra il sentimento religioso che ne era stato esigliato322.

Ma qualche conforto aveva pure Giuliano, in mezzo ai suoi disinganni. Grande doveva esser la sua gioia, quando qualche personaggio cospicuo della Chiesa ritornava nel grembo del Politeismo. Se non che, ciò pare avvenisse con estrema rarità. Era evidentemente profondo, in tutti, il sentimento della vanità completa del tentativo di Giuliano e dell'esaurimento del Politeismo. Il solo caso che si conosca è quello del vescovo Pegasio che ci è narrato, da Giuliano stesso, in una lettera che è una delle più preziose del suo epistolario, anche come vivace pittura d'ambiente. Pare che Giuliano avesse sollevato a qualche dignità sacerdotale il vescovo apostata. Ciò aveva urtata la suscettibilità di qualche puro ellenista. L'imperatore così risponde323:

«Noi, certo, non avremmo mai tanto facilmente accolto Pegasio, se non ci fossimo assicurati che anche prima, quando era vescovo dei Galilei, non era alieno dal riconoscere e dall'amare gli dei. Ed io non ti dico ciò perchè l'abbia udito da coloro che son soliti parlare per amore o per odio, chè anzi, anche intorno a me, si era cianciato molto di colui, così che, per gli dei, io quasi credeva di doverlo odiare più di qualsiasi altro di quegli sciagurati. Ma, allorquando, chiamato da Costanzo all'esercito, io mi era messo in viaggio, partendo da Troade, prima di giorno, arrivai a Ilio, sull'ora del mercato. Egli mi venne incontro, e, dicendo io di voler visitare la città — ciò mi serviva di pretesto per entrare nei templi, — mi si offerse per guida e mi condusse dovunque. Ed agì e parlò in modo, da far nascere il dubbio ch'egli non fosse ignaro de' suoi doveri verso gli dei.

«V'ha, in Ilio, un sacrario dedicato ad Ettore, dove, in un piccolo tempietto, si vede la sua statua di bronzo. Di contro hanno collocato il grande Achille, a cielo scoperto. Se mai visitasti il luogo, sai di che parlo.... Io, scorgendo ancor accesi, direi quasi divampanti gli altari, e lucida d'unguenti la statua d'Ettore, rivolgendomi a Pegasio — Che vuol dir ciò? — dissi — Gli abitanti d'Ilio seguono ancora i riti degli dei? — Voleva, non parendo, scrutarne l'opinione. — Ed egli — Che v'ha di strano, se essi onorano un uomo valoroso, loro concittadino, come noi onoriamo i nostri martiri? — La similitudine non era opportuna, ma l'intenzione, scrutata in quel momento, era lodevole. Dopo ciò — Andiamo, io dissi, al tempio di Minerva Iliaca. — Ed egli, pieno di buona volontà, mi ci condusse ed aperse di sua mano il tempio, e mi mostrò, con premura, come cosa che gli stesse a cuore, che tutte le sacre imagini erano salve, e non fece nulla di ciò che son soliti a fare gli empi, nè si fece sulla fronte il segno della croce, nè mormorò, come quelli, da solo a solo. Poichè il colmo della teologia presso coloro sta in queste due cose, imprecar mormorando contro i demoni e segnarsi la croce in fronte.

«Di questi due fatti già ti parlai. Ma or non voglio tacerti un terzo che mi viene in mente. Egli mi seguì al santuario d'Achille, e me ne mostrò intatto il sepolcro. E seppi che era stato da lui scoperto. Ed egli ci stava in atto di grande rispetto. Tutto ciò vidi io stesso. Seppi poi da coloro che ora gli sono nemici che, segretamente, pregava e si prosternava al Sole. Forse non mi ricevette in quel modo quando ancora io non facevo professione di fede che in privato? Della disposizione di ciascuno di noi verso gli dei, quale testimonio più sicuro degli stessi dei? E noi avremmo forse nominato Pegasio sacerdote, se sapessimo ch'egli peccasse in qualche cosa verso gli dei? Se, in quei tempi, sia per vanità di potere, sia, com'egli più volte ci disse, per salvare i templi degli dei, si pose intorno quei cenci e finse, solo nelle parole, di seguire l'empietà (infatti non fece altro danno ai templi che di gettar giù qualche pietra dal tetto, onde poi gli fosse lecito di salvare il resto), gli faremo colpa di ciò? E non sentiremo ripugnanza a trattarlo in modo da render lieti i Galilei che vorrebbero vederlo soffrire? Se hai riguardi per me, tu onorerai non questo solo, ma tutti gli altri che si convertono, onde più facilmente prestino orecchio a noi che li invitiamo al bene. Se noi respingiamo quelli che spontaneamente vengono a noi, nessuno seguirà la nostra chiamata...».

Questo Pegasio doveva essere un furbo matricolato. Probabilmente egli avrà avuto il sentore delle tendenze ellenistiche di Giuliano. Prevedendo l'eventualità di veder chiamato al trono, malgrado la gelosia di Costanzo, un giorno forse non lontano, quest'unico superstite erede della famiglia di Costantino, l'astuto vescovo ha voluto preparare il terreno ad una sua futura evoluzione, ma ciò senza compromettersi con le autorità dominanti. L'arte con cui ha saputo insinuarsi nell'animo di Giuliano, dire senza dire, è assai fine ed abile, e Giuliano, ingenuo come tutti gli apostoli infervorati, si è lasciato abbindolare, ed ha scambiato uno scaltro intrigante ed una scena da commedia per un uomo serio e per le prove di una convinzione profonda. Le reclute ch'egli faceva fra i disertori del Cristianesimo non potevano essere che di uomini disprezzabili come Pegasio. Contro gli onori ch'egli loro accordava protestavano i suoi amici ed i suoi partigiani, ma l'infelice imperatore, nella povertà dei risultati, doveva accontentarsi di ogni parvenza di successo, e trovar nell'impostura una ragione di ricompensa.

Ma, la piena confessione del disinganno di Giuliano, la troviamo negli amari sfoghi del Misobarba. Il Misobarba, μισοπώγων, è il capolavoro di Giuliano. Negli altri suoi scritti, eccettuate, s'intende, le lettere, alcune delle quali bellissime, si sente troppo il retore, il letterato scolastico che scrive una specie di compito, sulla falsariga di determinati modelli. Il banchetto dei Cesari, è, come vedremo, una satira non priva di spirito e di sentimento, ma è troppo voluta e manca di spontaneità e d'ispirazione genuina. Nel Misobarba, Giuliano parla proprio ex abundantia cordis, e la sua satira, oltr'essere una pittura vivissima della corruzione di una grande città nel basso Impero, è propriamente rivelatrice dell'indole dell'uomo e del sovrano, e dell'imbarazzata posizione in cui egli era venuto ad impigliarsi. E l'arte dello scrittore non è piccola, poichè, da un capo all'altro di questo lungo libello contro gli abitanti di Antiochia, egli sa mantenere l'ironia con la quale accusa sè stesso e prende, contro di sè, le parti dei suoi denigratori. E quante trovate di spirito! che scoppiettio di frizzi, quante digressioni divertenti, e, sotto a tutto questo, quanta amarezza e quale disinganno!

L'antefatto che ha dato origine alla sfuriata spiritosa dell'offeso imperatore è questo. Giuliano, dopo esser rimasto per quasi un anno a Costantinopoli, ne partiva nell'estate del 362 onde recarsi ad Antiochia e farne la sede dei preparativi per la disegnata spedizione contro il re di Persia. Visitata Nicomedia, dove egli aveva passata una parte della sua adolescenza e che, commosso, rivedeva abbattuta dal terremoto, attraversata Nicea, fermatosi a Pessinunte per adorarvi la dea Cibele, la Madre degli dei, e scrivervi, in una notte, la sua mistica dissertazione, per Ancira e Tarso giungeva ad Antiochia, dov'era accolto da un'immensa moltitudine che salutava in lui il nuovo astro dell'Oriente324. Ma il favore popolare subito si spense e, fra l'imperatore e gli Antiochesi, si manifestò un disaccordo radicale. Giuliano, anche in mezzo ai grandi preparativi per la spedizione persiana, non dimenticava l'obbiettivo ch'egli aveva posto al suo regno, la restaurazione del Paganesimo moralizzato. Ora, Antiochia, città in cui il Cristianesimo aveva posto radice fin dai tempi apostolici, era quasi tutta cristiana, ciò che non le impediva di essere una delle città più corrotte, più molli, più viziose dell'Oriente. Giuliano, con lo zelo imprudente del riformatore e del predicatore religioso, urtò di fronte le abitudini, i pregiudizî, gli abusi che vedeva nella grande città. E questa si irritava contro il disturbatore che pretendeva di rialzare riti e cerimonie cadute in disuso, che disapprovava apertamente i costumi licenziosi, che affettava il disprezzo per gli spettacoli teatrali, per le corse di cavalli, per tutto ciò che appassionava i suoi effeminati abitanti, che, reprimendo gli abusi, feriva gli interessi di chi stava in alto e degli affaristi di cui pare fosse gran numero fra le sue mura. Giuliano, in luogo dell'entusiasmo religioso che ardeva nel suo petto, trovava, negli Antiochesi, un'indifferenza ostile, e, per di più, doveva pur riconoscere che le sue tendenze moralizzatrici urtavano contro gli usi inveterati e la ormai irreparabile decadenza dello spirito pubblico. Da qui, dunque, uno stridente disaccordo ed una crescente tensione di spirito, da una parte e dall'altra. Ma gli Antiochesi non avevano nè la vigoria nè la volontà di una aperta ribellione. Era, in essi, l'arguzia e la sottigliezza del Greco, ed essi l'adoperavano a deridere l'imperatore. L'aria severa di Giuliano, il suo fare rozzo e sgraziato, la sua acconciatura disordinata, sopratutto la sua barba che era un'apparizione insolita in mezzo alle faccie rasate ed effeminate degli Antiochesi, erano argomento dei loro motteggi. Correvano per la città dei libelli in versi che mettevano in ridicolo l'imperatore ed erano il divertimento di quella popolazione, per eccellenza, leggiera e frondeuse. Se Giuliano fosse stato un tiranno, od anche solo un sovrano duro e violento, avrebbe potuto assai facilmente vendicarsi dei suoi derisori e reprimere gli scherzi irriverenti. Non solo lo avrebbe fatto un tiranno antico, ma probabilmente lo farebbe anche qualche sovrano moderno. Ma Giuliano, spirito mite e ragionevole per eccellenza, scelse per vendicarsi, un modo assai curioso ed insolito in un imperatore; rispose alle satire degli Antiochesi contro di lui con una satira sua contro gli Antiochesi. E chi avrebbe detto allora che la sua vendetta sarebbe stata la più efficace di tutte? Infatti, se egli avesse punito, col carcere o con la morte, i suoi offensori, costoro sarebbero stati tosto dimenticati o glorificati come martiri, mentre egli, col suo spirito, ne ha imbalsamata la memoria e l'ha offerta al sorriso perenne dei posteri. Ammiano Marcellino, narratore coscienzioso, soldato fedele ed affezionato di Giuliano, di cui ammira la virtù e l'ingegno, non approva la pubblicazione del Misobarba che a lui sembra una satira esagerata ed imprudente. Ma il buon Ammiano era Antiochese lui pure, e quindi inclinato a scusare i suoi concittadini, e poi, scrittore pedantesco, non aveva il sentimento della bellezza letteraria. Egli, probabilmente, avrà ammirate quelle opere del suo imperatore in cui questi seguiva l'indirizzo scolastico della retorica de' suoi tempi, ma, certo, non comprendeva la grazia di questo scritterello, dove Giuliano, liberatosi dai ceppi della scuola, ci dà la misura del suo spirito e del suo talento di poeta.

Io credo di far cosa grata ai miei pochi ma delicati lettori offrendo loro la traduzione di molta parte del Misobarba. Come tutti gli altri scritti di Giuliano, questo libello manca del lavoro della lima ed è disordinato nella composizione. Ma ha il merito prezioso di esser cosa propriamente viva, sgorgante di getto dalla vena aperta. La personalità dello scrittore balza fuori, con le sue originali ed agitate movenze, dalle pagine spiritose di questa satira amara, in cui ritroviamo parlante un pezzo della vita pubblica del secolo quarto. La maledizione della Chiesa ha soffocato questo libriccino, per tante ragioni, meritevole di studio.

Per comprendere la satira, non bisogna mai dimenticare che, da un capo all'altro, essa è uno scherzo ironico ed amaro, e che Giuliano prende contro di sè le parti dei suoi denigratori, e riproduce le loro parole facendole proprie, e, certamente, caricandone l'espressione325.

«Il poeta Anacreonte — così egli comincia — ha composte molte canzoni graziose; a lui il fato aveva concesso di godersela. Ma nè ad Alceo nè ad Archiloco concesse il dio di volgere la Musa alla letizia ed al piacere. Costretti, per molte ragioni, ad essere tristi essi usavano della poesia, per rendere più sopportabili a sè stessi le invettive che il demone loro ispirava contro gli iniqui. A me la legge vieta di accusar per nome coloro che io non ho offesi, e che pur mi sono malevoli, e l'uso che or regge l'educazione degli uomini liberi mi vieta di far canzoni, poichè pare ora più vergognosa cosa il coltivar la poesia di quello che paresse, un tempo, l'arricchirsi ingiustamente. Ma, per questo, io non intendo rinunciare, fin dove mi è possibile, all'aiuto delle Muse. Io mi ricordo d'aver udito i barbari, lungo il Reno, cantar con voci che poco si discostavano dal gracchiare dei corvi; eppure essi prendevano diletto di quelle canzoni; poichè pare che l'essere sgradevoli agli altri non tolga ai cattivi musicisti di esser piacevoli a sè...... Ed io pure canto per le Muse e per me. La mia canzone, per verità, sarà in prosa, e conterrà molte contumelie, non contro gli altri, per Giove, — e come farei, se la legge me lo vieta? — bensì contro il poeta e lo scrittore stesso. E nessuna legge vieta di scriver lodi o rimproveri verso di sè. Se non che, io non ho ragione, per quanto vivamente ne abbia il desiderio, di lodar me stesso e, invece, ho molte ragioni di rimproverarmi, a cominciar dall'aspetto326. Poichè a questo mio volto, per natura non bello, nè piacevole, nè grazioso, io stesso, per dispetto e per rabbia, ho apposta questa folta barba, quasi per vendicarmi della natura che non mi ha fatto leggiadro. Ed io tollero che i pidocchi vi corran dentro, come le belve in una foresta. E non mi è concesso di mangiare avidamente o di bere a gran sorsi, perchè devo star bene in guardia di non ingoiare, col cibo, anche i peli. Quanto al non poter essere baciato e al non baciare, poco mi dolgo, sebbene, anche in ciò, come nel resto, la mia barba è assai incomoda, non permettendo di premere labbra pure a labbra lisce, ciò che fa il bacio più dolce, come dice uno dei poeti che, insieme a Pane ed a Calliope, cantano Dafni. Ma voi dite che si potrebbero, coi miei peli, intrecciar delle corde. Ed io son pronto ad offrirveli, solo che voi possiate strapparli e che la loro durezza non faccia male alle vostre infingarde e morbide mani..... Ma non mi basta la ruvidezza del mento, anche il capo è tutto in disordine, e di rado mi taglio i capelli e le unghie, e le dita ho assai spesso nere d'inchiostro. Che se poi volete sapere una cosa che non ho mai detta, io ho il petto peloso ed irsuto, come quello dei leoni, i quali regnano sulle belve, e non mi son mai curato, per rozzezza e trascuranza, di renderlo, come nessun'altra parte del corpo, liscio e morbido. — Ma parliamo d'altro. Non contento d'aver un corpo siffatto, vi aggiungo abitudini sgradevoli davvero. È tanta la mia rozzezza che io sto lontano dai teatri, e dentro il palazzo imperiale non ammetto la rappresentazione teatrale che una volta sola, all'anno nuovo, e ciò di mala voglia, come uno che paghi un tributo e che sgarbatamente consegni il poco che ha ad un padrone esigente.... È già questo un segno di abitudini odiose. Ma io posso, aggiungere dell'altro. Abborro le corse dei cavalli, come i debitori il mercato. Ci vado di rado, nelle feste degli dei, e non vi passo il giorno, come solevano fare il cugino, lo zio ed il fratello. Dopo di aver assistito, tutt'al più, a sei corse, certo non come uno che ami la cosa, ma, per Giove, come uno che non ci si interessa affatto, son ben lieto d'andarmene. Ma chi potrà dire quante sono le mie offese contro di voi? Le notti insonni sul pagliericcio ed il cibo che non è tale da satollarmi mi fanno un carattere acerbo ed ostile ad una città che ama divertirsi. Ma se io ho queste abitudini, non è vostra la colpa. Un errore grave e stolto in cui son caduto fin da fanciullo mi indusse a far guerra al ventre, nè mi posso avvezzare a riempirlo di molti cibi».

E qui Giuliano racconta che a lui avvenne, una sola volta, di vomitare il pranzo, cosa che, a quel che pare, gli Antiochesi usavan fare, come si narra dei Romani. E fu, durante il suo soggiorno a Parigi, nella sua cara Lutezia, come egli dice. E non avvenne per disordine di cibo. Tutt'altro. Ma per aver riscaldata, con la brace, la camera in cui si trovava, dalla quale imprudenza gli vennero capogiri, svenimenti e nausea. La digressione è assai graziosa, con la descrizione dell'inverno gallico e della Senna gelata e della vigorosa barbarie degli abitanti.

«Così — continua Giuliano —327 in mezzo ai Celti, io, come l'Uomo rozzo di Menandro, procurai incomodi a me stesso. Ma la ruvidità dei Celti se ne compiaceva; è ragionevole, invece, che se ne sdegni una città bella, felice, popolosa, in cui son molti i danzatori, molti i flautisti, i mimi più numerosi dei cittadini, e nessun rispetto pel sovrano. Gli uomini deboli arrossiscono di certe abitudini; ma è da coraggiosi, come voi siete, il coricarsi al mattino e il far orgia alla notte. Così voi dimostrate di sprezzare le leggi non già colle parole ma coi fatti.... — E tu credevi — così Giuliano fa parlar gli Antiochesi — che la tua rozzezza e la misantropia e la durezza potessero armonizzarsi con questi costumi? O il più sciocco e il più odioso di tutti gli uomini, è, dunque, così stolta e inetta in te quella che gli ignobili chiamano tua animuccia sapiente, e che tu credi doversi ornare ed abbellire con la saggezza? Tu hai torto, perchè, prima di tutto, cosa sia la saggezza non sappiamo; ascoltiamo il suo nome, ma non vediamo cosa fa. Che se poi consiste, in quello che tu fai, nel sapere che dobbiamo esser servi degli dei e delle leggi, trattar da eguali gli eguali, sopportare la loro eccellenza, curare e provvedere che i poveri non siano offesi dai ricchi, e, per tutto ciò, subire, come avviene tante volte a te, lo sdegno, le ire, i vituperî; e tollerare anche questi serenamente e non irritarsi, e non cedere all'ira, ma frenarla, come conviene, ed esser prudenti; e se qualcuno aggiungesse anche esser opera di saggezza l'astenersi in pubblico da ogni piacere poco conveniente e poco lodevole, nella persuasione che non può esser saggio nel segreto della casa chi pubblicamente non soffre freni e si diletta nei teatri; se questa è la saggezza, tu anderai alla malora e manderai noi pure con te, noi che non tolleriamo, prima di tutto, di udire il nome di servitù, nè verso gli dei nè verso le leggi. È dolce la libertà in tutto. E quale ironia? Tu dici di non essere il padrone, e non tolleri quel nome, e ti sdegni in modo da indurre la più parte di coloro che ne avevano antica abitudine a non usarlo come odioso al principe, e poi ci obblighi a servire al comando delle leggi. Ma non sarebbe assai meglio che tu ti chiamassi padrone, e che, nel fatto, noi fossimo liberi, o uomo mitissimo a parole, acerrimo nelle cose? E non basta; tu tormenti i ricchi, costringendoli ad esser moderati nei tribunali, e trattieni i poveri dall'esser delatori. Rinviando gli attori, i mimi e i suonatori tu hai rovinata la nostra città, così che di te non ci resta altro di buono che la tua pedanteria che abbiamo tollerata per ben sette mesi e da cui speriamo di liberarci, unendoci a pregare colle processioni delle vecchierelle che si aggirano intorno ai sepolcri328. Noi abbiamo, del resto, cercato di ottener il medesimo effetto col nostro buon umore e ti abbiamo colpito coi motteggi, come con le frecce. E tu, o valoroso, come sosterrai i proiettili dei Persiani, se tremi davanti ai nostri scherni?».

Qui viene un passo veramente curioso ed istruttivo sulle intenzioni e sull'animo di Giuliano. Non è a dire che gli Antiochesi avessero contro di lui una prevenzione sfavorevole o che gli negassero l'applauso. È proprio che fra lui e gli Antiochesi esisteva un dissenso profondo. Essi non entravano affatto nello spirito della riforma religiosa che tanto gli stava a cuore e che, anzi, costituiva l'obbiettivo supremo del suo regno. Quando egli entrava nei templi la folla lo seguiva e lo accompagnava di grida e di applausi. Ma Giuliano era assai più colpito della mancanza di rispetto verso il luogo sacro che della festosa accoglienza che riceveva, e, invece di ringraziare il popolo, lo rimproverava. Gli scettici Antiochesi, veri figli di una civiltà che moriva, non comprendevano questo strano imperatore, e ridevano di lui. «Tu entri nei templi — così li fa parlar Giuliano329 — o uomo rozzo, sgarbato ed odioso in tutto. La folla corre, anch'essa, per amor tuo, nei templi e specialmente i magistrati, e ti accolgono, come nei teatri, con grida ed applausi. E invece di compiacertene e di lodarli di ciò che fanno, tu vuoi esser più saggio del dio stesso, e parli alle turbe e rimproveri acerbamente quelli che gridano, dicendo: — Di rado voi venite nei templi per adorare gli dei, ma ci venite per me ed empite di disordine il luogo sacro. Ad uomini saggi conviene di pregare compostamente e di chiedere in silenzio i favori degli dei. .....Ma voi, invece degli dei, esaltate gli uomini, meglio ancora, invece degli dei, adulate noi uomini. Ed io credo che ottima cosa sarebbe non adulare nemmeno gli dei, ma servirli saggiamente. — .....Tollera, adunque, d'esser odiato e vituperato, in privato ed in pubblico, dal momento che tu giudichi adulazione gli applausi di coloro che ti vedono nei templi. È evidente che tu proprio non puoi adattarti nè alle convenienze, nè alla vita, nè ai costumi degli uomini. E sia. Ma chi potrebbe sopportare anche questo, che tu dormi tutta la notte solitario, e non vi ha nulla che ammollisca il tuo animo duro ed uggioso? Tu chiudi, d'ogni lato, la porta alla dolcezza. E il colmo dei mali è che tu godi di questa vita, e ti fai un piacere di ciò che gli altri detestano. E poi ti sdegni se te lo si dice! Dovresti piuttosto ringraziar coloro che, per benevolenza, con gran premura, ti esortano, nei loro versi, a strapparti i peli dalle guance, e ad offrire, a questo popolo amante del ridere, qualche spettacolo, a cominciar da te stesso, che gli sia gradito, mimi, suonatori, donne senza pudore, fanciulli che, per la bellezza, si possano scambiar per donne, uomini così privi di peli, non solo sulle guance, ma in tutto il corpo, da esser più lisci delle donne stesse, feste, processioni, non però, per Giove, quelle sacre, in cui bisogna aver del contegno. Di queste ce n'è abbastanza, ne siam proprio satolli. L'imperatore sacrificò una volta nel tempio di Giove, poi nel tempio della Fortuna, andò tre volte di seguito in quello di Cerere; non ricordo quante volte entrò in quello d'Apollo, — nel tempio tradito dalla trascuranza dei custodi, distrutto dall'audacia degli empi. — Viene la festa siriaca, e l'imperatore tosto si presenta al tempio di Giove; poi viene la festa comune, e l'imperatore di nuovo al tempio della Fortuna; si astiene un giorno nefasto, e poi subito ancora innalza le sue preghiere nel tempio di Giove. Ma chi dunque può tollerare un imperatore che frequenta con tale eccesso i templi, mentre gli sarebbe lecito di disturbare solo di quando in quando, una volta o due gli dei, e di celebrare quelle feste che possono essere comuni a tutto il popolo, ed a cui possono prender parte anche quelli che non conoscono gli dei, e dei quali è pur piena la città? Queste, sì, ci darebbero piaceri e godimenti, che ognuno potrebbe allegramente cogliere contemplando uomini danzanti, e fanciulli e donne in quantità. — Quando io penso a tutto ciò, — così Giuliano risponde agli Antiochesi — mi congratulo delle vostre felici disposizioni d'animo, ma non sono scontento di me stesso, poichè, per grazia di qualche dio, le mie abitudini mi son care. Pertanto, come ben sapete, io non mi irrito contro coloro che vituperano il mio metodo di vita. Anzi, ai frizzi che essi mi scagliano, io aggiungo, per quanto mi è possibile, questi vituperi che io stesso verso contro di me, ed è giusto che lo faccia dal momento che non seppi comprendere quale fosse, dall'origine, il costume di questa città. Eppure io son convinto che nessuno de' miei coetanei ha letti più libri di me».

E qui Giuliano racconta la nota storia d'Antioco che si era innamorato della matrigna, per dedurne la conseguenza che gli abitanti di una città, che da Antioco aveva preso il nome, dovevano essere gente dedita al piacere non meno di lui. — «Non si può, — egli dice con uno spirito scherzoso ma amaro insieme330 — non si può mover rimprovero ai posteri se cercano di gareggiare col fondatore e con l'omonimo, poichè come gli alberi si trasmettono le loro qualità, tanto che i rampolli assomigliano in tutto al ceppo da cui germogliarono, così, presso gli uomini, i costumi degli avi si trasmettono ai nipoti».

Ed è così che i Greci sono il migliore dei popoli, e gli Ateniesi i migliori fra i Greci. «Ma se essi serbano, nei costumi, l'imagine dell'antica virtù, è naturale che ciò avvenga anche ai Siri, agli Arabi, ai Celti, ai Traci, ai Peonii, ai Misii, che son fra i Traci e i Peonii, sulle sponde del Danubio. Ora, da questi è venuta la mia schiatta e da questa venne a me l'indole rozza, severa, intrattabile, indifferente agli amori, immobile nei propositi. Io, dunque, primieramente chiedo scusa per me, ma in parte la scusa vale anche per voi che siete attaccati ai patri costumi. Non è già per offendervi che io vi applico il verso d'Omero — Mentitori ma eccellenti saltatori nei balli. — Al contrario, è per lodarvi che io dico che voi conservate l'amore delle patrie abitudini. E anche Omero voleva lodare Autolico, dicendo, in questo senso, che superava tutti — nell'esser ladro e spergiuro. — Sì, io pur amo la mia ruvidità, la mia sgarbatezza, il mio non piegarmi facilmente, il non regolare i miei affari a seconda di chi prega o di chi inganna, il non cedere alle grida; sì, tutte queste vergogne, io le amo... Ma, se ci penso, trovo in me ben altre colpe. Recandomi in una città libera, ma che non tollera il disordine della capigliatura, io vi entrai senza farmi tagliare i cappelli e con la barba lunga, come se mancassero barbieri. Volli parere un vecchio brontolone e un rozzo soldato, quando avrei potuto, con un po' d'arte, esser preso per un fanciullo avvenente, e parer giovanetto, se non per l'età, per l'aspetto e la freschezza del volto.... — Tu non sai mescolarti agli uomini, ed imitare il polipo che si fa simile al sasso su cui vive... Hai forse dimenticato quanta differenza coi Celti, coi Traci, e gli Illirici? Non vedi quante botteghe ci sono in questa città? Tu ti rendi inviso ai mercanti, non permettendo loro di vendere le loro merci al prezzo che loro garba, tanto al popolo quanto agli stranieri. I mercanti accusano dell'alto prezzo i proprietari di terre. Tu ti fai nemici anche questi, obbligandoli ad agire secondo giustizia. E i magistrati della città che partecipano al duplice rimprovero, come pure si allietavano di mietere i vantaggi di una parte e dell'altra, e come proprietari e come mercanti, ora naturalmente sono scontenti, vedendosi strappato, da ambo le parti, l'eccesso del guadagno. E, intanto, questo popolo sirio, non potendo nè ubbriacarsi nè ballare, s'irrita. E tu credi di nutrirlo abbastanza, offrendogli grano a suo piacere? Grazie mille, ma non vedi che non si trova più nella città nemmeno un'ostrica?..... Non sarebbe meglio passeggiare pel mercato, profumandolo d'incensi e condursi dietro fanciulle aggraziate, che attirerebbero gli sguardi dei cittadini e cori di donne, quali tutti i giorni vediamo in mezzo a noi?».

A questa domanda che il pungente scrittore mette in bocca ai suoi avversari, egli risponde facendo quel racconto interessante della sua educazione che noi già conosciamo331. Anche qui le parole di Giuliano vanno prese in senso ironico, e i rimproveri che pare egli faccia all'eunuco Mardonio, a cui era stata affidata la sua fanciullezza, esprimono, invece, l'ammirazione e il rispetto di Giuliano per quest'uomo, a cui è dovuta la piega che ha poi preso il suo spirito.

Giuliano, avendo narrata la sua educazione, continua dicendo come, appunto dallo studio degli antichi e specialmente di Platone, egli abbia imparato che il principe ha il dovere di guidare il suo popolo, con l'esempio e con la dottrina, all'esercizio della virtù.

«Ma — rispondono gli Antiochesi332 — per ragione di prudenza, tu dovresti astenerti dal costringere la gente a seguire la giustizia, e dovresti, invece, permettere ad ognuno di far ciò che vuole o ciò che può. L'indole della nostra città è questa; vuole esser molto libera. E tu, non comprendendola, vorresti governarla con saggezza? Ma non vedi quanta e quale, presso di noi, è la libertà fin degli asini e dei cammelli? I cammellieri e gli asinai li conducono, sotto ai portici, come se fossero gentili fanciulle. Le vie a cielo scoperto e le piazze si direbbe non sian fatte per esser percorse dagli asini col basto; questi vogliono passar sotto i portici, e nessuno lo vieta loro, onde sia rispettata la libertà! Ecco come la nostra città è libera! e tu vorresti che i giovani fossero tranquilli, e pensassero a ciò che a te piace, o almeno dicessero cose che a te piace udire? ma essi sono avvezzi alla libertà del divertirsi, e lo fanno sempre senza ritegno.

«I Tarantini — continua Giuliano — pagarono, una volta, il fio dei loro scherzi ai Romani, perchè, essendo ubbriachi, nella festa di Bacco, offesero un'ambasciata di questi. Ma voi siete molto più felici dei Tarantini, godendovela, non già pochi giorni, ma tutto l'anno intiero, offendendo invece di ambasciatori stranieri, il vostro imperatore e questo per i peli che ha sul mento e per la sua effigie sulle monete. Benissimo, o saggi cittadini, e voi che siete gli autori dei motteggi, e voi che li udite e vi divertite. Poichè è chiaro che a quelli dà piacere il dire e a questi l'udire quei frizzi. Di tale concordia io mi compiaccio; voi fate proprio una sola città, così che non sarebbe nè conveniente nè desiderabile di frenare ciò che vi è di infrenabile nei giovani. Sarebbe, proprio, un portar via, un recidere la testa della libertà, se si togliesse agli uomini di dire e di fare ciò che loro garba. Pertanto, ben sapendo che in tutto dev'essere libertà, voi prima permetteste alle donne di fare il piacer loro, così da esser con voi senza freno alcuno. Poi lasciaste loro l'educazione dei figli, pel timore che, sottoposti a più severa disciplina, diventassero simili a schiavi, e imparassero, adolescenti, a rispettare i vecchi, e quindi, prese queste cattive abitudini, finissero per rispettare anche i magistrati, finalmente perfezionandosi non già nell'esser uomini, ma nell'esser servi, diventassero saggi, temperati, educati e si rovinassero del tutto. Ebbene, che fanno le donne? Conducono i figli ai loro altari333, per mezzo del piacere, che è lo strumento più accetto e più prezioso non solo con gli uomini, ma anche con le belve. Oh, voi felici, che, in tal modo, vi siete proprio ribellati ad ogni servitù, prima verso gli dei, poi verso le leggi, in terzo luogo verso di noi, custodi delle leggi. Ma sarebbe cosa stolta, da parte nostra, se, mentre gli dei non si curano di questa libera città e non la puniscono, noi ne avessimo sdegno e molestia. Poichè ben sapete che gli oltraggi della città son comuni a noi ed agli dei. — Nè il X, nè il K, si dice, hanno mai fatto del male alla città. — Questo enimma della vostra sapienza ci riusciva assai duro, ma, avendo trovato degli interpreti, apprendemmo che quelle lettere erano il principio di nomi, e che l'una voleva dire Cristo, l'altra Costanzo. Lasciate che vi parli proprio a cuore aperto. Una colpa ha Costanzo verso di voi, ed è di non avermi ucciso dopo avermi fatto Cesare. Ah, concedano gli dei a voi, a voi soli, fra tutti i Romani, di goder di molti Costanzi, e più ancora dell'ingordigia dei suoi amici!.... Io dunque ho offeso la maggior parte di voi, quasi direi, tutti voi, il Senato, i mercanti, il popolo. Il popolo s'irrita contro di me, perchè, essendo in maggioranza, anzi, tutto, dato all'ateismo334 mi vede attaccato ai patri riti del culto divino, i potenti perchè sono impediti di vendere a caro prezzo le merci, tutti poi insieme perchè io, sebbene non li privi nè dei danzatori nè dei teatri, mi curo di queste cose meno che delle rane nelle paludi. Non è, dunque, naturale che io rimbrotti me stesso, offrendo tante ragioni di odiarmi?».

E qui Giuliano narra con molto spirito e con fine ironia l'episodio della venuta di Catone ad Antiochia, e dell'offesa fattagli dai cittadini, e soggiunge335. «Non c'è, dunque, da meravigliarsi, se oggi io ho da voi un eguale trattamento, essendo un uomo di tanto più rozzo, più duro, più incivile di lui, di quanto i Celti lo sono dei Romani. Perchè colui, nato in Roma, vi giunse alla vecchiezza. Me, tocca appena l'età virile, raccolsero i Celti, i Germani e la selva Ercinia, e là trascorsi gran tempo, come un cacciatore che non vive che con le belve, trovandomi con gente che non ha l'abitudine di accarezzare e di adulare, e che vuole semplicemente e liberamente essere con tutti sul piede dell'eguaglianza. Così dopo che l'educazione fanciullesca e la conoscenza che feci, da adolescente, del pensiero di Platone e di Aristotele mi aveva reso inadatto a mescolarmi al popolo, ed a cercar la felicità nel diletto, mi trovai, al momento dell'indipendenza virile, in mezzo alle più bellicose e più valorose fra le nazioni, le quali non conoscono Venere copulatrice e Bacco ubbriacatore, se non per far figli o per estinguere col vino la sete..... I Celti, per la somiglianza dei costumi, tanto mi amavano da voler non solo prender l'armi per me, ma mi davano i loro averi, e mi obbligavano di accettarli, per quanto io chiedessi poco, ed in ogni cosa eran pronti ad obbedirmi. E, ciò che più importa, il mio nome di là giunse fino a voi, e tutti mi acclamavano valoroso, prudente, giusto, non solo forte in guerra, ma abile a governare durante la pace, affabile, mite. Ma voi da qui rispondete in primo luogo che io sconvolgo le cose del mondo — eppure io ho la coscienza di non aver nulla sconvolto nè volente nè nolente — poi che con la mia barba si possono far corde, e che io faccio guerra al X e che voi rimpiangete il K. Che gli dei protettori di questa città ve ne concedano due!».

L'indifferenza degli Antiochesi, di cui era stata prova l'incendio, appiccato, si diceva, dai Cristiani, del gran tempio d'Apollo, era propriamente invincibile. Per meglio descriverla, l'autore del Misobarba ci fa questo racconto, in cui Giuliano non si accorge di cadere nel ridicolo per l'eccesso del suo zelo336.

«Nel decimo mese cade la festa del vostro patrio Iddio, e c'è l'usanza di accorrere a Dafne. Io pure ci andai, movendo dal tempio di Giove Casio, nella persuasione di godervi lo spettacolo della vostra ricchezza e della vostra munificenza. E già imaginava, dentro di me, come in un sogno, e la pompa e i sacrifici, e libazioni e danze sacre ed incensi ed efebi, davanti al tempio, preparati nell'anima all'adorazione del dio, ornati, con magnificenza, di bianca veste. Ma, quando entrai nel tempio, non vedo incenso, non vedo offerte di frutti o di vittime. Io ne fui stupefatto e credetti che voi foste fuori del tempio, ad aspettare, onorando in me il gran sacerdote, che io dessi il segnale. Ma quando chiesi al sacerdote che cosa avrebbe sacrificato la città, celebrandosi la festa annuale, egli rispose — ecco, io porto da casa al dio un'oca; ma la città non ha preparato nulla. — Allora, sdegnato, io rivolsi al Consiglio delle parole severe, che è forse opportuno il ricordare. — È doloroso, io diceva, che una sì grande città sia parsimoniosa nel culto degli dei, come non lo sarebbe l'ultimo dei villaggi del Ponto. Essa possiede grandi porzioni di terreno, eppure or che giunge la festa annuale del patrio dio, la prima volta dopo che gli dei dispersero le nubi dell'ateismo, non sa offrire nemmeno un uccello, essa che dovrebbe sacrificare un bue per ogni quartiere, o, se questo non si può, almeno presentare, in comune, un toro. Eppure ognuno di voi scialacqua in privato nei banchetti e nelle feste, ed io so di molti che sciupano il loro avere nelle orgie; ma, quando si tratta della salvezza vostra e della vostra città, nessuno sacrifica per proprio conto, e non sacrifica nemmeno il Comune per tutti; soletto sacrifica il sacerdote, il quale, invece, avrebbe, mi pare, il diritto di ritornarsene a casa, portando seco una parte della grande quantità di cose che voi dovreste offrire al dio. Poichè gli dei vogliono che i sacerdoti li onorino colla buona condotta, colla pratica delle virtù e coi servizî divini. Ma è la città che ha l'obbligo di sacrificare e in privato e in comune. Ora, ognuno di voi permette alla moglie di portare ogni cosa ai Galilei, ed esse, nutrendo col vostro danaro i poveri, fanno ammirabile l'ateismo a tutti i bisognosi. E sono il maggior numero. E voi credete di non far nulla di male, trascurando di onorare gli dei. Nessun povero si presenta ai templi. Non troverebbe, certo, di che nutrirsi. Ma se uno di voi festeggia il proprio genetliaco, ecco prepara sontuosamente il pranzo e la cena, e invita gli amici ad una tavola assai ben servita. Venuta la festa annuale, nessuno porta olio al candelabro del dio, nè libazioni, nè vittime, nè incenso. Io non so come vi giudicherebbe, se vedesse la vostra condotta, un uomo saggio, ma io credo, intanto, che ciò non piace agli dei».

Questo racconto di Giuliano e il discorso da lui tenuto sono uno degli episodi più curiosi e più istruttivi di questo libriccino pur tutto così interessante. Povero entusiasta! Che disinganno profondo doveva essere il suo davanti all'evidenza dei fatti ed alla prova luminosa del completo insuccesso del movimento di restaurazione da lui tentato. Il Politeismo era morto e non c'era più nobiltà di mente nè virtù d'animo capace di rianimarlo. La stessa corruzione di una grande città, la quale sapeva mantenere insieme e i suoi guasti costumi e il Cristianesimo, mostrava che il Cristianesimo, se aveva perduto della sua santità aveva acquistata quella facoltà di adattamento agli ambienti, senza di cui nessuna istituzione può vivere. Giuliano voleva moralizzare il mondo con un Politeismo riformato, trasportandovi le virtù che, predicate dal Cristianesimo, non avevano punto fermata la demoralizzazione sociale; impresa impossibile dal punto di vista intellettuale, perchè il Politeismo esaurito, come vedemmo tante volte, non offriva nessuna base sufficiente ad una ricostituzione religiosa, impossibile dal punto di vista morale, perchè quell'alleanza del X col K, come diceva Giuliano, di Cristo con Costanzo, di Dio con la società corrotta, che a Giuliano pareva mostruosa, rispondeva ai bisogni del tempo, ed era la formola che ne esprimeva le esigenze. Ma come è grazioso, nella sua comicità, l'incontro dell'imperatore, nel tempio deserto d'Apollo, col povero sacerdote che porta l'oca al dio delle Muse! E come è sintomatica l'ingenuità di Giuliano di prendere questo episodio come punto di partenza del suo discorso al Consiglio di Antiochia! E quanta luce gitta sull'indole delle intenzioni di Giuliano il fatto che il suo discorso è così imbevuto di Cristianesimo che, in fondo, cambiando qualche nome e qualche circostanza secondaria, avrebbe potuto e potrebbe servire per un vescovo che rimproverasse i suoi fedeli del loro poco zelo verso il culto divino!

«Così — continua ironicamente Giuliano —337 mi ricordo di aver parlato... E feci, sdegnandomi con voi, una sciocchezza. Mi conveniva tacere, come molti altri che eran venuti con me, e non prendermi brighe e non sgridarvi. Ma io ero mosso da petulanza e da una ridicola vanità. Poichè non è a credere che la benevolenza mi ispirasse quelle parole; il vero è che io correva dietro alle apparenze della devozione per gli dei e della benevolenza per voi. E questa è ridicola vanità. Io, pertanto, rovesciai sopra di voi molti inutili rimproveri. E voi eravate nel vostro diritto difendendovi e scambiando terreno con me. Io mi scagliai contro di voi, davanti a pochi, presso l'altare del dio, ai piedi della sua statua. Voi, invece, sul mercato, in faccia al popolo, fra cittadini disposti a divertirsene.... Furon dunque uditi da tutta la città i vostri scherzi contro questa brutta barba e contro colui che non vi ha mai mostrate e non vi mostrerà mai delle belle maniere, poichè egli non seguirà mai quel genere di vita che è già vostro, ma che vorreste vedere anche nel principe. Quanto poi alle ingiurie che, in privato ed in pubblico, avete rovesciate su di me, deridendomi nelle vostre strofe, dal momento che io stesso mi accuso pel primo, vi permetto di farne uso con tutta sicurezza, perchè, per questo, non vi farò mai nulla di male, e non vorrò mai nè uccidervi, nè battervi, nè imprigionarvi, nè multarvi. Anzi, udite. Poichè l'essermi mostrato saggio insieme ai miei amici fu per voi cosa ignobile e sgradita, nè son riuscito a presentarvi uno spettacolo che vi piacesse, io mi risolvetti a lasciare la città e ad andarmene altrove. Non già che io sia convinto che piacerò a quelli presso i quali andrò, ma, infine, credo preferibile, se anche non riuscissi a parer loro giusto e buono, il distribuire un po' a tutti l'uggia della mia presenza, e il non tormentare troppo questa felice città col puzzo della mia temperanza e della saggezza dei miei amici. Infatti nessuno di noi ha comperato da voi un campo od un orto, nè costrusse case, nè prese moglie, nè ci innamorammo delle vostre bellezze, nè invidiammo la vostra ricchezza assira, nè ci distribuimmo le prefetture, nè permettemmo gli abusi ai magistrati, nè inducemmo il popolo a grandi spese di banchetti e di teatri, il popolo che noi facemmo così prospero che, libero dall'oppressione del bisogno, ebbe agio di comporre le strofe contro i colpevoli della sua prosperità. E noi non chiedemmo nè oro nè argento, e non abbiamo aumentati i tributi. Anzi, abbiamo condonato, insieme agli arretrati, il quinto delle abituali imposte... A noi, dunque, parendo che tutto ciò fosse lodevole, lodevole la mitezza e la saggezza nel principe, pareva anche che, appunto pei nostri provvedimenti, saremmo entrati nelle vostre grazie. Ma poichè a voi dispiace l'ispido mio mento, e la poca cura dei capelli, e la mia assenza dai teatri, e la mia pretesa di un serio contegno nei templi, e, più di tutto, la mia vigilanza nei tribunali, e il mio rigore nel reprimere, nei mercati, la rapacità del guadagno, volontieri ce ne andiamo dalla vostra città. Poichè non mi parrebbe facile, or che inclino all'età matura, evitare quel che accadde al nibbio, come narra la favola. Si dice che il nibbio, il quale aveva una voce simile a quella degli altri uccelli, si mettesse in mente di nitrire come i puledri. E così, avendo dimenticato il canto e non imparato il nitrito, si trovò privo dell'uno e dell'altro, e finì per avere una voce peggiore di quella degli altri uccelli. E a me, io credo, accadrebbe la stessa cosa, cioè, non saprei essere nè rozzo nè gentile, poichè io sono vicino, Dio volendo, voi lo vedete, a quel momento in cui, come dice il poeta di Teo, ai neri si mescolano i bianchi capelli!

«Ma, per gli dei e per Giove protettore della città, voi vi esponete alla taccia d'ingrati. Foste, forse, talvolta, offesi da me, in pubblico od in privato? O diremo che, non potendo aver giustizia, voi avete adoperato i versi per trascinarci e vilipenderci sulle piazze, come i comici trascinano Ercole e Bacco? Non è, forse, vero che io mi trattenni dal farvi del male, e non trattenni voi dal parlar male, così che io mi vedo costretto a difendermi contro di voi? Quale, dunque, la causa dei vostri insulti e del vostro sdegno?... Quando io vedo che non ho, per nulla, diminuite quelle spese popolari che soleva prendere sopra di sè il tesoro imperiale, pur diminuendo non poco le imposte, la cosa non diventa, forse, enigmatica? Ma di ciò che io feci, in comune, a tutti i miei sudditi, è meglio che io taccia, per non parer che io canti i miei elogi, mentre aveva annunciato di voler versare sopra di me fierissimi vituperi. Conviene piuttosto esaminare la mia condotta personale che, sebbene non meritasse la vostra ingratitudine, pure fu leggiera ed irriflessiva, perchè, lì, vi sono colpe di tanto più gravi delle precedenti, cioè del disordine dell'aspetto e del riserbo negli amori, di quanto, essendo più vere, fanno l'anima veramente responsale. Primieramente io cominciai a tessere le vostre lodi, con grande amorevolezza, senza aspettar l'esperienza e non preoccupandomi del modo con cui avremmo potuto intenderci. Ma, pensando che voi eravate figli di Grecia, e che io stesso, sebbene Trace d'origine, son Greco di educazione, ritenni che ci saremmo reciprocamente amati. Fu il primo errore di leggerezza».

Giuliano rammenta alcuni fatti di amministrazione e di elezioni, in cui si è palesato il suo buon volere, ma che furono presi in mala parte dagli Antiochesi. Poi continua338:

«Ma tutto ciò aveva poca importanza e non poteva inimicarmi la città. Veniamo al fatto capitale, da cui nacque questo grande odio. Appena qui arrivato, il popolo, oppresso dai ricchi, cominciò a gridarmi nel teatro: — Tutto è in abbondanza, ma tutto è troppo caro. — Il giorno dopo, io ebbi un colloquio coi maggiori della città, e cercai di persuaderli che bisognava rinunciare ad un guadagno illecito, per fare star meglio i cittadini e gli stranieri. Questi mi dissero che avrebbero studiata la cosa, ma, dopo tre mesi di aspettazione, l'avevano studiata sì poco che nessuno ne sperava nulla. Quando io vidi che era verace il grido del popolo e che il mercato era angustiato non già per difetto di merce, ma per l'avidità dei proprietari, stabilii e pubblicai un giusto prezzo di ogni cosa. Vera abbondanza di tutto, di vino, d'olio e del resto, ma il grano mancava, avendo la siccità prodotta una forte carestia. Per questo, io mandai a Calcide, a Jerapoli e alle altre città circonvicine e ne feci venire quaranta miriadi di misure. Consumato tutto questo, ne feci venire prima cinque mila, poi sette mila, infine dieci mila di quelle misure che qui si chiamano modii, e poi, tutto il grano che mi era venuto dall'Egitto, lo diedi alla città, mettendo per quindici misure il prezzo che prima ci voleva per dieci... E intanto che facevano i ricchi? Vendevano segretamente a maggior prezzo il grano che avevano nei campi, e coi loro privati consumi aggravavano la condizione generale339. ... Adunque io caddi dalle vostre grazie perchè non permisi che vi si vendesse il vino, i legumi e le frutta a peso d'oro, nè che, a vostro danno, si trasformasse in oro ed in argento il grano racchiuso nei granai dei ricchi.... Ben sapeva che, così facendo, non avrei piaciuto a tutti, ma a me nulla importava. Poichè io credeva di dover venire in aiuto del popolo danneggiato e degli stranieri, che eran qui venuti per amor mio e dei magistrati che erano con me. Ma ora che a questi conviene d'andarsene e che la città è tutta di una sola opinione verso di me — gli uni mi odiano, gli altri, pur nutriti da me, mi sono ingrati — io andrò a stabilirmi presso un'altra schiatta ed un'altra nazione..... Ma perchè vi siamo odiosi? Forse perchè vi abbiamo nutriti col nostro danaro, ciò che finora non era avvenuto a nessuna città? E nutriti splendidamente. Forse non punimmo i ladri colti in fallo? Mi permettete che vi ricordi un caso o due, onde non si dica che tutto è retorica ed invenzione mia? Si affermava che esistevano circa tre mila lotti di terreno incolto, e voi lo chiedevate; ma, avutolo, se lo distribuirono i non bisognosi. Fatta un'inchiesta, si dimostrò che era vero. Allora io, riprendendo quelle terre a coloro che indebitamente le avevano, e non preoccupandomi affatto delle imposte che non avevano pagate, sebbene ne avrebbero dovuto pagare più degli altri, le applicai ai più gravi servizi della città. E così gli allevatori di cavalli per le vostre corse hanno, liberi d'imposte, tre mila lotti di terra, e ciò in grazia mia. E a voi pare che, così castigando i ladri e i malvagi, io metta sottosopra il mondo. Ed ecco che il discorso mi ritorna là dove io voglio. Io sono veramente colpevole di tutti i miei mali, avendo prodigato i miei favori a chi non li aggradiva. E ciò viene dalla mia leggerezza, non già dalla vostra libertà di spirito. Nell'avvenire, io procurerò di esser più prudente con voi. E a voi gli dei diano il contraccambio della vostra benevolenza per me, e dell'onore che pubblicamente mi avete reso».

Con quest'ultima frecciata si chiude la satira acerba. Nell'ultima parte, il valore letterario mi pare si attenui e l'ironia sfugge di mano allo sdegnato scrittore. Ma è pur sempre oltremodo interessante, poichè ci rivela, con esempi pratici, la premura, lo zelo amministrativo di Giuliano, zelo che, evidentemente, ha superati, talvolta, i confini della prudenza ed anche ha trasgredite le leggi dell'economia politica.

Non pare, infatti, che siano state esclusivamente religiose e morali le ragioni che hanno prodotto il disaccordo profondo fra Giuliano e gli Antiochesi. Ci fu anche un malinteso, o meglio, un disinganno di cui la colpa risale all'ignoranza delle leggi economiche che regnava sovrana ai tempi di Giuliano. Qui dobbiamo riconoscere che quella prudenza amministrativa e quel sicuro sentimento della realtà, che aveva guidato Giuliano nel governo delle finanze in Gallia, lo ha abbandonato, forse per lasciar libero sfogo al desiderio eccessivo di guadagnarsi il favore degli Antiochesi e di aprirsi una strada onde influire più facilmente sull'animo loro. Appena arrivato in Antiochia, Giuliano ascolta il grido del popolo che si lamenta dell'alto prezzo delle derrate. Esaminata la cosa, e persuaso che la causa del fenomeno si trovava nell'avidità di guadagno dei proprietari e dei mercanti, l'imperatore invita l'autorità municipale a provvedere. Ma passano tre mesi, e quel magistrato non sa concluder nulla. Allora Giuliano entra in scena; determina, per tutte le derrate, un prezzo che non doveva superarsi e siccome il raccolto del frumento era stato assai scarso, ne fa venire da altri luoghi un'ingente quantità e ne stabilisce il prezzo in una misura inferiore a quella che era voluta dalle condizioni del momento. La violenza economica dell'imperatore ebbe il risultato inevitabile di aumentare i mali che voleva diminuire. Infatti, il mercato di Antiochia si vuotò delle derrate che dovevano vendersi ad un prezzo che non era conveniente pel venditore. I ricchi proprietari vendevano, fuori d'Antiochia, a caro prezzo il grano dei loro raccolti, e poi comperavano, in Antiochia, ed usavano pel loro consumo il grano che l'imperatore distribuiva a un prezzo vilissimo. Da qui una immigrazione, dalle campagne nella città, su vasta scala, e, infine, un disordine che tutto disturbava, che spargeva il malcontento e l'irritazione nell'alta classe della proprietà e del commercio, e rendeva impopolare l'imperatore, il quale però attribuiva ad opposizione partigiana ed a perversità di spirito ciò che, in fondo, non era che la necessaria conseguenza di un grosso sproposito. L'intenzione, in Giuliano, era pietosa ed ispirata al sentimento dell'equità. E si comprende come Libanio, nel suo discorso diretto agli Antiochesi per persuaderli a pentirsi della loro condotta verso l'imperatore, dicesse: «Io avrei voluto che voi ammiraste l'iniziativa dell'imperatore, per quanto grandi fossero le difficoltà. Poichè egli mostrava un'anima generosa, e voleva soccorrere la povertà, e riteneva cosa dolorosa che alcuni godessero nell'abbondanza, ed altri mancassero del necessario, così che, nel mercato fiorente, non fosse concesso ai poveri che di assistere al godimento dei ricchi»340. Ma la buona intenzione applicata con la completa ignoranza delle leggi economiche finiva per ferire sè stessa.

Nell'ambiente che circondava Giuliano, i Cristiani erano ritenuti come responsali delle difficoltà e delle opposizioni che l'imperatore trovava in Antiochia. Il discorso di Libanio, testè accennato, è interessantissimo per questo rispetto. Corre intieramente sulla premessa che i veri autori dell'opposizione degli Antiochesi a Giuliano sono i Cristiani, e che il solo mezzo per ottenere la riconciliazione è l'aperta conversione al Paganesimo. Libanio non nomina mai i Cristiani, quasi a lui ripugnasse di mettere in luce una setta tanto odiosa e tanto colpevole, ma l'allusione è continua. I segreti aizzatori della rivolta degli Antiochesi contro le disposizioni economiche dell'imperatore sono cristiani, e cristiani son coloro che impediscono ai cittadini di esprimere il loro pentimento coll'abbandono dei teatri, dei giuochi pubblici, della scioperataggine abituale in Antiochia, e col ritorno ad atti ispirati ad una vera pietà. «Sappiatelo bene, esclama Libanio, non è col prosternarvi al suolo, nè coll'agitare i rami d'olivo, nè coll'inghirlandarvi, nè con le grida, nè con le ambascerie, nè coll'inviare un oratore abilissimo, che voi spegnerete lo sdegno ma, bensì, con la rinuncia ai vostri cattivi costumi, e coll'offrire la città a Giove ed agli altri dei, dei quali già vi parlarono, molto prima dell'imperatore, Esiodo ed Omero, fin da quando eravate fanciulli. Ma voi riconoscete di dover tenere in gran conto quei poeti nell'educazione, e ne recitate ai fanciulli i versi. Però, nelle cose di maggior interesse, cercate altri maestri e fuggite, or che sono aperti, da quei templi di cui lamentavate la chiusura. E, se alcuno vi rammenta Platone o Pitagora, voi mettete avanti, come vostre autorità, e la madre e la moglie, e il cantiniere e il cuoco, e ci parlate dell'ormai antica vostra persuasione, e non vi vergognate di tutto ciò, ma vi fate rimorchiare da coloro a cui dovreste dettar leggi, e vedete, nel fatto di aver pensato male da principio, una necessità di pensar male fino al termine. Come se uno perchè ha avuto la rosolia nella gioventù, dovesse conservare la malattia per tutte le altre età. Ma perchè prolungherei questo discorso? A voi la scelta, o di continuare ad essere odiati, o di fare un doppio guadagno, coll'acquistare la benevolenza del principe e col riconoscere gli dei che davvero dominano nel cielo. Voi siete nella condizione di guadagnare, voi stessi, in ciò appunto in cui compiacete gli altri. Nell'apparenza date, ma in realtà ricevete»341.

Libanio vuol fare di Antiochia una città riconvertita al Paganesimo e penitente. A questo prezzo egli crede che potrebbe ottenere il perdono delle ingiurie di cui si è resa colpevole verso l'imperatore. Il Cristianesimo è, per Libanio, l'ostacolo maggiore, non solo al ritorno al culto antico, ma anche all'epurazione dei costumi, al risanamento morale della città. E si vede che, ancora nel secolo quarto, ed in una città, nella quale il Cristianesimo era largamente diffuso, la forza della nuova religione era negli strati più bassi della società e nella influenza femminile. Com'è caratteristico quel contrasto, in cui propriamente rivive tutta la storia del Cristianesimo nascente, fra l'alta coltura dell'aristocrazia intellettuale e l'umiltà delle forze che le si opponevano. Platone e Pitagora, invocati dai fautori dell'antico, si trovavan di contro le donne di casa, il cantiniere, il cuoco! A questi retori, a questi filosofi, tutti imbevuti dell'arte e del pensiero ellenico, pareva scandaloso, assurdo, ridicolo quel contrasto fra le più eccelse manifestazioni dell'ingegno umano e le fantastiche e povere ubbie di ignoranti donnicciuole e di vilissimi servi? Eppure Libanio e Giuliano, fra i bagliori morenti del loro Ellenismo, non avevano che una vista miope. Non sapevano discernere il fondo un po' lontano delle cose. Quattro secoli di Cristianesimo non avevano insegnato nulla ad essi. Credevano che la religione fosse una quistione di ragionamento, e si stupivano che le affermazioni del cuoco e del cantiniere valessero più delle affermazioni di Platone, e non sentivano che quelle, per quanto rozze, venivano dalla conoscenza di un Dio vivente, queste, per quanto sublimi, dalla presentazione di larve esaurite e vuote.

Il Misobarba è uno dei documenti più importanti e più atti a farci penetrare nell'intimo significato del tentativo iniziato da Giuliano. Per quanto la verità sia stata velata e tradita dalla polemica cristiana, sta il fatto, che or sembra paradossale, che l'imperatore era mosso da un intento essenzialmente moralizzatore. Il Cristianesimo non aveva, per nulla affatto, mutata o migliorata la condizione morale degli uomini. Antiochia cristiana valeva Antiochia pagana, se pur non era peggiore. Corrotti costumi, orgie, teatri, danzatori e mimi, ecco lo spettacolo che offrivano i cristiani Antiochesi. L'avversione che, in essi, destava Giuliano veniva appunto dalla stridente opposizione che la morale e la virtù del pagano imperatore facevano ai vizi dei suoi sudditi cristiani. Il Misobarba ci fa toccare con mano il fatto che Giuliano voleva salvare l'Ellenismo che il Cristianesimo distruggeva, distruggendo tutte le sue tradizioni di religione e di patria, ma, nel medesimo tempo, voleva trovare nell'Ellenismo quella forza morale per una riforma dei costumi e per una rigenerazione dell'uomo interno che il Cristianesimo non aveva saputo svolgere dai principî che pure aveva posti. L'accoglienza che i corrotti Antiochesi hanno fatto alle esortazioni dell'imperatore, e che così vivacemente ci è descritta dall'imperatore stesso, è la prova più evidente del carattere utopistico del suo tentativo. Il Politeismo moralizzato non poteva riuscire a rigenerare l'uomo, come non era riuscito il Cristianesimo. L'uomo rimaneva quale lo volevano le condizioni intellettuali del tempo. Non era la religione che sapesse o potesse piegare le passioni umane; erano piuttosto le passioni che sapevano piegare ed adattare la religione, quale essa fosse, alle loro invincibili esigenze.

IL PRINCIPE E L'UOMO

Nel corso di questo studio, già ci apparve, nella sua genialità, la natura singolare di questo principe entusiasta che, sul trono dei Cesari, poneva a servizio di un ideale irrealizzabile delle virtù di mente e d'animo le quali, liberate dalla preoccupazione religiosa, avrebbero fatto di lui un grande imperatore. Se Giuliano avesse regnato a lungo, senz'altro scopo che la difesa e l'organizzazione dell'impero, non avrebbe, lui pure, fermata la decadenza fatale del mondo antico, ma l'avrebbe, forse, rallentata ed avrebbe fors'anche, impedito che si sfasciasse nella catastrofe barbarica.

Il passaggio di Giuliano sul trono imperiale fu la comparsa di una meteora luminosa che, appena accesa, si è spenta. Egli, quindi, non ebbe il tempo di lasciare, nei fatti e nelle cose, l'impronta duratura della sua azione. La sua memoria non vivrebbe che nella caricatura che ne hanno disegnata gli scrittori cristiani, e parrebbe quasi che l'opera sua si fosse limitata alla guerra contro il Cristianesimo e ch'egli fosse un uomo odioso e vituperabile, se non ci fossero rimasti i suoi scritti che sono lo specchio genuino del suo carattere, delle sue intenzioni, delle doti e dei difetti del suo spirito eccelso. È vero che noi abbiamo in Libanio ed in Ammiano Marcellino le prove dell'ammirazione che Giuliano aveva destata nei suoi contemporanei. Ma Libanio è sospetto, perchè troppo interessato e compromesso nell'impresa della restaurazione politeista, e Ammiano Marcellino non ha autorità sufficiente per tener testa a Gregorio di Nazianzo, a Socrate, a Sozomene, a tutta infine la tradizione cattolica. Così la figura geniale di Giuliano è venuta ai posteri, portando in fronte il marchio dell'apostata, e così si è dimenticato il fatto, che, dal punto di vista psicologico e storico, è il più curioso ed il più interessante di tutti, cioè, che questo sciagurato apostata, che aveva tentato di soffocare il Cristianesimo, era, per ogni riguardo, un uomo essenzialmente virtuoso, il migliore degli uomini che siano sorti sull'orizzonte della vita pubblica del Basso Impero. Il buon Ammiano Marcellino, nel tessere, dopo averne narrata la morte eroica, l'elogio di Giuliano, ci dice342 come fosse insigne per la castità e la temperanza della vita, per la prudenza in ogni suo atto — virtute senior quam ætate, studiosus cognitionum omnium, censor moribus regendis acerrimus, placidus, opum contemptor, mortalia omnia despiciens. — Perfetta la sua giustizia, mitigata dalla clemenza, mirabile la sua conoscenza delle cose di guerra e l'autorità con cui governava i suoi soldati, impareggiabile il valore con cui combatteva, fra i primi, incoraggiava le sue schiere, le riconduceva alle battaglie, al primo segno di incertezza. Saggia e moderata la sua amministrazione, così da alleggerire i tributi, da comporre le liti del fisco coi privati, da restaurare le finanze rovinate delle città, da mettere, infine, un freno al disordine spaventoso che regnava nell'avido e parassitico governo dell'Impero. E l'onesto storico non dissimula i difetti del suo eroe; ma son ben lievi in confronto alle virtù. Una certa leggerezza nel risolvere, un'eccessiva facilità ed abbondanza di parola, che doveva essere, diciamo noi, il riflesso di un'eccessiva impressionabilità, constatabile anche in quelli, fra i suoi scritti, che sono l'effusione schietta del suo spirito. Finalmente, e questo era il difetto più grave di Giuliano, conseguenza inevitabile del suo sistema filosofico, una tendenza alla superstizione, per cui egli prestava alle esteriorità della religione che voleva restaurare un'importanza che spesse volte toccava il ridicolo ed era una delle cause che indebolivano la sua propaganda. Tale il ritratto morale che Ammiano tratteggia del suo imperatore, del quale descrive anche la figura forte ed agile insieme, e ci fa vedere il volto, singolare per la barba irsuta che finiva in punta, oggetto di scherno per gli Antiochesi, e splendente per la bellezza degli occhi scintillanti, da cui trasparivano le arguzie della mente — venustate oculorum micantium flagrans, qui mentis ejus argutias indicabant.

Ma, prima di studiar Giuliano nei suoi scritti, che sono la fonte schietta della verità, diamo ancora una occhiata all'imagine che di lui ci lasciarono i suoi due contemporanei Libanio e Gregorio di Nazianzo, negli opposti intenti, il primo di esaltarne la memoria, il secondo di vituperarla, di lasciarla coperta di fango e di vergogna. Nel corso del nostro studio noi abbiamo già mietuto nel campo di questi scrittori. Ma non sarà fatica sprecata lo spigolarvi ancora. Vi raccoglieremo qualche mazzo di notizie preziose.

Cominciamo coll'osservare come, nei lamenti di Libanio per la catastrofe di Giuliano, è impossibile non sentire l'espressione di un sentimento vero e profondo, tanto più quando si pensa che il Discorso necrologico e la Monodia furono scritti quando già era scomparsa ogni traccia del tentativo di restaurazione pagana, quando il Cristianesimo dominava di nuovo sovrano nella corte e nel popolo, e quando, pertanto, la manifestazione di quel dolore poteva, per lo scrittore, costituire un pericolo. Come adattarsi, esclama Libanio, al pensiero che l'empio Costanzo «dominò sulla terra, ch'egli contaminava, per quarant'anni, e poi se ne andò per malattia. E costui, il quale ha rinnovate le sacre leggi, ha riordinate le buone istituzioni, risollevate le dimore degli dei, riposti gli altari, richiamate le schiere dei sacerdoti, nascosti nelle tenebre, restaurate le statue, sacrificate mandre ed armenti, ora nella reggia ed ora fuori, ora di notte ed ora di giorno, sospesa tutta la sua vita alle mani degli dei, dopo aver tenuto per breve tempo l'ufficio minore dell'impero, e per un tempo ancor più breve l'ufficio maggiore343, se ne partiva, così che la terra, che appena aveva gustato tanto bene, non se ne potè saziare..... Almeno, il ritorno dei nostri mali fosse venuto grado grado. Ma la buona fortuna, appena affacciatasi a noi, tosto si ritraeva, come in fuga. Per Ercole, ciò è troppo acerbo, ed è l'opera di acerbi demoni»344. Poi Libanio, dopo aver ricordata la desolazione dell'esercito, quando Giuliano, ferito a morte, ma ancor respirante, veniva trasportato dal campo di battaglia alla tenda, e aver detto che le Muse piangevano la morte del loro allievo e che la sventura cadeva sulla terra, sul mare, sull'aere, esclama: «E noi tutti piangiamo, ognuno per la parte che gli spetta; i filosofi piangono colui che spiegava la dottrina di Platone, i retori l'oratore valente a parlare ed a scrutare il discorso degli altri, i litiganti un giudice migliore di Radamanto. Oh, infelici agricoltori, che sarete preda di coloro che avranno l'incarico di spogliarvi! Oh, forza della giustizia che già precipita e che presto più non sarà che un'ombra! Oh, magistrati, come sarà vilipesa la dignità del vostro nome! Oh, grida dei poveri maltrattati, come invano vi innalzerete al cielo! Oh, schiere di soldati che perdeste un imperatore il quale, nei campi, provvedeva ad ogni vostro bisogno! Oh, leggi, a buon diritto credute di Apollo, ed ora calpestate! Oh, ragione che hai, quasi nel medesimo punto, acquistata e perduta la potenza ed il vigore! Oh, rovina totale della terra!»345.

A questo grido di dolore fa naturale contrasto il ricordo delle speranze e delle aspettazioni che Giuliano aveva destate. L'imperatore, dice Libanio, dava una suprema importanza all'istruzione; anzi, egli credeva che la dottrina ed il culto degli dei fossero cose fraterne346. Per rimettere in onore l'istruzione completamente trascurata, egli stesso scriveva discorsi e trattati di filosofia. Voleva anche che le città fossero governate da uomini colti, e li investiva dell'ufficio, appena trovasse in essi qualche virtù dell'uomo di governo. C'è, davvero, un soffio poetico nell'entusiastica pittura che Libanio ci fa del viaggio di Giuliano da Costantinopoli ad Antiochia. L'imperatore è mosso da un pensiero dominante, la restaurazione dell'Ellenismo, e gode dei discorsi assai più che dei doni, e piange di commozione, e si consuma in un'attività prodigiosa di spirito e di corpo, e non lascia negletto un tempio, non ascoltato un filosofo, un retore, un poeta. «Fioriva il giardino della sapienza, esclama Libanio, e la speranza degli onori stava tutta nell'acquisto della coltura.... Egli tutto si adoperava onde rinverdisse l'amore delle Muse»347. Era infine una nuova primavera ellenica, una rifioritura di pensiero, di abitudini, di idee che allietava gli spiriti sgomenti ed accasciati dalla barbarie incipiente e dal predominio di tendenze che erano nel più aperto contrasto con quelle idee e con quelle abitudini. Per comprendere, nella sua portata e nel suo significato, la restaurazione tentata da Giuliano, dobbiamo cercar di risentire le emozioni di questi superstiti amatori di una civiltà che rapidamente scendeva al tramonto ed a cui essi si illudevano di poter imprimere un movimento a ritroso che la riconducesse all'antico splendore.

Al movimento intenso di mente e di lavoro che gli imponevano i suoi compiti di riformatore religioso, di generale e d'uomo di Stato, Giuliano provvedeva con la sua facoltà di concentrarsi nei suoi pensieri e con una prodigiosa attività. Quando egli era costretto ad assistere alle corse dei cavalli, narra Libanio, distrattamente volgeva gli occhi altrove, onorando insieme la solennità coll'esser presente ed i suoi pensieri coll'esser assorto in essi. Non v'era lotta, nè gara, nè applauso che potesse distrarlo dalle sue meditazioni. Quando dava un banchetto, vi prendeva parte quanto appena bastasse per dire che non era assente348. E della sua attività, egli ci fa questa interessante descrizione: «Essendo sempre assai sobrio e non gravando mai il ventre di peso eccessivo, egli, direi quasi, volava di cosa in cosa, e, nello stesso giorno, rispondeva a parecchie ambascerie, mandava lettere alle città, ai comandanti degli eserciti, agli amici che partivano, agli amici che venivano, ascoltava la lettura dei messaggi, esaminava le domande, rendeva lente le mani degli scrivani in confronto della velocità della sua lingua..... I suoi segretari dovevano pur riposare, ma non lui, che passava da un'occupazione all'altra. E quando cessava dall'amministrare e pranzava, perchè bisogna pur vivere, egli imitava le cicale, e, posando su mucchi di libri, cantava, finchè il crepuscolo o la cura degli affari lo richiamassero altrove. E la cena era ancor più scarsa del primo pasto, e breve il sonno per questa tanta moderazione di cibo. E allora venivano altri scrivani, che avevano passato sul letto, il giorno, poichè era indispensabile questa successione nei servizî, e questo darsi a vicenda il riposo. Egli mutava le forme del lavoro, ma lavorava sempre, rinnovando, nella sua azione, le trasformazioni di Proteo, facendo da sacerdote, da scrittore, da augure, da giudice, da generale, da soldato, ed, in ogni cosa, da salvatore»349. Le cure del regno non impediscono a Giuliano di perseverare nei suoi studi prediletti. «La tua molta e bella e varia coltura — così a lui si rivolge, in altro luogo, Libanio — non è solo il frutto del lavoro che facesti prima di diventare imperatore. Ma tu continui ancora a vegliare per amor suo. L'impero non ti costrinse a trascurare i libri. La notte è ancora nella sua prima parte, e tu già canti più mattutino degli uccelli, e componi i tuoi discorsi e leggi le composizioni degli altri».

E, in altro luogo, Libanio esce in questa eloquente apostrofe agli dei, interessante anche perchè ci rivela di quali e di quante illusioni si pascesse lo spirito del partito ellenista che circondava Giuliano, e perchè ci si sente l'eco degli infervorati colloqui che egli avrà avuto col suo imperatore, quando questi si preparava, in Antiochia, a dare, con la sperata vittoria sui Persiani, il suggello e la sanzione alla restaurazione dell'antica civiltà.

«Perchè mai, o dei, o demoni, non confermaste le vostre promesse? Perchè non avete fatto felice colui che vi conosceva? Che potevate rimproverargli? Che non lodare nelle sue imprese? Non rialzò gli altari? Non costrusse i templi? Non onorò solennemente gli dei, gli eroi, l'etra, il cielo, la terra, il mare, le fonti, i fiumi? Non combattè coloro che vi combattono? Non fu più saggio di Ippolito? Giusto come Radamante? Più riflessivo di Temistocle? Più coraggioso di Braside? Non salvò forse l'umanità che stava per perire? Non fu nemico dei malvagi? Mite coi giusti? Avverso ai prepotenti? Amico dei modesti? Quale grandezza di imprese! Quante espugnazioni! Quanti trofei! Oh, fine indegno del principio! Noi credemmo che tutta la Persia avrebbe fatto parte dell'impero romano, governata dalle nostre leggi, e avrebbe da qui ricevuti i suoi reggitori e pagati i tributi, e cambiata la lingua, e mutata la foggia delle vesti, e recisa la chioma, e già vedevamo, in Susa, sofisti e retori educare, con grandi discorsi, i figli dei Persiani, e i nostri templi, ornati con le spoglie, portate di là, narrare ai posteri la grandezza della vittoria, e il vinto stesso gareggiare coi lodatori dell'impresa, ammirando questo, non ripudiando quello, compiacendosi di una cosa, non sdegnandosi di un'altra, e la sapienza, come una volta, esser amata, e le tombe dei martiri cedere il posto ai templi, e correre tutti spontaneamente agli altari, rialzati da quelli stessi che li avevano abbattuti, e quelli stessi praticare i sacrifizi che rifuggivano dal sangue, e risorgere la prosperità delle famiglie, per mille cause, e per la tenuità dei tributi, poichè si dice che, in mezzo ai pericoli, egli pregasse gli dei che la guerra finisse in modo che a lui poi fosse possibile ridurre a nulla le pubbliche imposte. Ah, la turba dei demoni perversi rese vane tutte le nostre aspettazioni, ed ecco che l'atleta, già vicino alla corona, a noi giunge nascosto nella bara. Felice chi è morto dopo di lui, sventurato chi vive! Prima di lui era notte, notte dopo di lui; fu il suo regno un puro raggio di sole. Oh, città che fondasti! Oh, città cadenti che risollevasti! Oh, sapienza che alzasti al massimo onore! Oh, virtù, di cui ti facesti forte! Oh, giustizia discesa di nuovo dal cielo in terra, per risalire tosto al cielo! Oh, radicale rivoluzione! Oh, comune felicità cominciata appena e subito finita! Noi soffriamo come un uomo assetato che, portata alle labbra una tazza d'acqua limpida e fredda, appena toccatala, se la vedesse strappar via»350.

Libanio così narra la conversione di Giuliano:

«Sembrando che, per ogni rispetto, egli fosse adatto a regnare, ed essendo concordi in questo le testimonianze di quanti lo conoscevano, non volle (l'imperatore Costanzo) che la sua fama si diffondesse in troppa gente, in una città di spiriti inquieti. E, pertanto, lo manda a vivere a Nicomedia, città più tranquilla. Questo fu il principio d'ogni bene per lui e per tutta la terra, poichè là era ancora una scintilla di scienza divina, a stento sfuggita alle mani degli empi. — Scrutando, dietro a questa, le cose occulte, deponesti, — si rivolge direttamente a Giuliano — ingentilito dagli insegnamenti, il fiero odio contro gli dei. Quando poi tu andasti nella Jonia, e conoscesti un uomo che è creduto ed è saggio351 e udisti ciò ch'egli insegnava intorno a quegli spiriti che hanno composto e che conservano l'universo, e mirasti la bellezza della filosofia, e gustasti la più pura delle bevande, scotendoti di dosso l'errore e rompendo, come un leone, i ceppi, tu, liberato dalla nebbia preferisti la verità all'ignoranza, la divinità legittima alla falsa, gli antichi numi a quello che, da poco tempo, perfidamente s'era insinuato. Unendo poi alla compagnia dei retori quella di ancora migliori sapienti (e anche qui si vede l'opera degli dei che, col mezzo di Platone, ti ingrandirono l'intelligenza, onde con alti concetti tu potessi accingerti alla grandezza delle azioni) già forte, e per la fluidità della parola e per la scienza delle cose, prima ancora di poter giovare agli interessi sacri, tu accennasti che non vorresti trascurarli, venuta che fosse l'occasione, piangendo su ciò che si era abbattuto, sospirando su ciò che era stato contaminato, dolorando su ciò che era stato oppresso, lasciando vedere a chi ti stava vicino la futura salvezza nel dolore presente»352.

Descritta l'azione salutare di Giuliano nella Gallia, così esclama Libanio: «Certo, tu non avresti fatto tutto ciò, senza l'aiuto di Minerva. Ma, avendo, fin da quando partisti da Atene, quella dea compagna nel consiglio e nell'azione, come lo fu per Ercole contro il cane mostruoso, comprendesti ogni cosa rettamente con la ragione, ed ogni cosa bene operasti con le armi, non restando seduto nella tenda ad udire i rapporti delle battaglie. Ma gittandoti avanti, ed agitando il braccio, e scotendo la lancia, e brandendo la spada, incoraggiavi col sangue dei nemici i tuoi soldati, re nei consigli, duce nelle imprese, eroe nelle pugne»353.

Dalle pagine di Libanio esce fuori un'imagine attraente e geniale. Ardente di spirito, appassionato dei più nobili ideali, generoso ed eroico, il giovine imperatore ci appare veramente degno dell'ammirazione e dell'amore di cui lo circondavano i suoi amici, i suoi maestri, i suoi soldati. Certo, Giuliano era un uomo squilibrato. La sua fantasia bollente e disordinata si univa, in modo singolare, alla pedanteria del retore e del formalista. Ma c'è in lui un soffio eroico, qualche cosa di giovanilmente baldanzoso, un sentimento vivo della civiltà ellenica, che tolgon via, dalla sua figura, le macchie e i difetti, o, almeno, li celano sotto i raggi di una luce abbagliante. Ma una di quelle macchie rimane, pur troppo, evidente e dominante, anche nel ritratto dipinto da Libanio, ed è la macchia della superstizione. Già lo dicemmo, più su, parlando del Neoplatonismo. L'antichità era tutta superstiziosa. Perchè non lo fosse, il pensiero antico avrebbe dovuto seguire la strada aperta da Democrito, da Epicuro e da Lucrezio. Avendo, invece, seguita la strada opposta, esso era venuto, col Neoplatonismo, a sovrapporre il soprarazionale e il soprannaturale alla ragione ed alla natura, ciò che vuol dire rinunciare a trovar le cause logiche degli effetti, ed a vedere in tutto l'intervento continuo di un arbitrio assoluto. Nessuno più di Giuliano si era gittato in questo indirizzo funesto, nessuno, quindi, più di lui ardente promotore di tutti quegli esercizi di culto con cui credeva di guadagnarsi il favore degli dei. «Dovunque, esclama Libanio, erano altari e fuoco, e sangue ed odori di sacrifizi, ed incensi, ed espiazioni, ed indovini liberi di paura. Ed erano pellegrinaggi e canti sulle cime dei monti, e buoi che egli stesso, di sua mano, sacrificando, offriva agli dei, e di cui poi banchettava la gente. Ma, siccome non era facile all'imperatore uscire, ogni giorno, dalla reggia per recarsi ai templi, eppure nulla è più giovevole della continua convivenza con gli dei, così egli aveva costrutto, nel mezzo della reggia stessa, un santuario al dio che conduce il giorno, e partecipava e faceva partecipare gli altri ai misteri a cui si era iniziato, ed innalzava altari separatamente a tutti gli dei. E la prima cosa che faceva, appena alzatosi da letto, era di riunirsi, coi sacrifici, agli dei»354. E nella Monodia, piangendo la morte all'eroe, domanda: «Quale degli dei dobbiamo accusare? Tutti egualmente perchè hanno trascurata la vigilanza del caro capo, pur dovuta in ricambio delle molte offerte, delle molte preghiere, dei continui aromi, del molto sangue versato e di notte e di giorno. Egli non era devoto agli uni e negligente degli altri, ma a tutti quanti ci furon fatti conoscere dai poeti, e genitori e generati, e dei e dee, e superiori ed inferiori, egli dava libazioni, e, per loro, ingombrava le are di buoi e di agnelli»355.

Era poi particolarmente dedito alla scienza augurale, e vi era tanto versato che gli auguri, narra Libanio, lui presente, dovevano rigorosamente dire la verità, perchè i suoi occhi sapevano scrutare e scoprir tutto356. E noi già vedemmo come, nelle sue imprese, egli si facesse accompagnare da schiere di auguri, e nulla tentasse senza aver prima esplorate le viscere delle vittime e il volo degli uccelli. E l'onesto Ammiano, col suo buon senso, riconosce che l'imperatore era dedito ad un'eccessiva ricerca di presagi, e più superstizioso che legittimo osservatore del culto — presagiorum sciscitationi nimiæ deditus... superstitiosus magis quam sacrorum legitimus observator357.

Tutto ciò per noi riesce veramente odioso, e ci pare che in questo ristabilimento dei sacrifizi sanguinosi, nella rifioritura, da lui tentata, di riti puerili ed assurdi, egli abbia propriamente fatto opera di reazionario. Uno dei meriti più evidenti del Cristianesimo è quello appunto di aver purificato il culto, di aver liberati gli altari del ributtante spettacolo delle vittime sgozzate. Però, se guardiamo bene in fondo alla quistione, troviamo che il concetto del sacrifizio che riscatta le colpe ed ottiene il perdono del dio esiste e da una parte e dall'altra, riassuntivo e simbolico nel Cristianesimo, reale e continuo nel Paganesimo. Il Cristianesimo, s'intende non quello del Vangelo, che pone semplicemente l'idea sublime di un Dio paterno, ma il Cristianesimo metafisico e dommatico, ha portato nel culto reso alla divinità delle forme nuove ed assai migliori, ma non ha portato un concetto veramente nuovo. Il principio essenzialmente superstizioso di un arbitrio onnipotente che si placa a forza di vittime non era stato strappato alla radice. Giuliano, anche per questo rispetto, non è stato nè reazionario nè progressista. Non ha fatto che vivere e muoversi nell'ambiente intellettuale del suo tempo.

Malgrado questa nera macchia di superstizione e di bigottismo, Giuliano, quale ci è dipinto da Ammiano e dall'entusiastico Libanio, è una figura d'uomo e di principe attraente. Noi ci sentiamo indotti a compiangerne gli errori e le sventure, e proviamo per lui quella simpatia e quell'ammirazione che sempre ispirano gli uomini geniali. Ma, se ci volgiamo a Gregorio di Nazianzo, ecco ci vien fuori una figura del tutto diversa, ci appare davanti l'imagine di uno scellerato e di uno stolto. L'eroe delle imprese di Gallia e di Persia, l'uomo severo di principî e di costumi, lo scrittore brillante e versatile diventa, nei discorsi di Gregorio, «quel drago, quell'apostata, quel gran macchinatore, quell'Assiro, quel comune nemico e corruttore di tutti, che ha versato sulla terra la rabbia e le minacce, che ha scagliato, fino al cielo le sue parole inique358. E gli scritti di Giuliano sono scellerati discorsi e scherzi, la cui forza sta tutta nella potenza dell'empietà, ed in una sapienza, son per dire, da ignorante»359.

È tanto l'odio di Gregorio per Giuliano che il pio scrittore, onde poterlo, con ancora maggior efficacia, accusarlo di perfidia, non esita a farsi l'entusiasta apologista dell'imperatore Costanzo. Qui c'è un voluto e deplorevole oscuramento della verità. Ricordiamo che l'ariano Costanzo era stato, non solo un feroce persecutore dei Pagani, ma un persecutore non meno feroce degli ortodossi, tanto che il grande Atanasio aveva sofferto tutto il peso della sua collera. Ebbene Gregorio è così infervorato nell'esaltare il nemico di Giuliano ch'egli osa scusare in lui il persecutore dei suoi fratelli in Cristo, dicendo che l'imperatore non era mosso che dal desiderio di ricongiungere nell'unità la Chiesa divisa, e dimentica, nel dir questo, che l'unione nell'errore ariano era detestabile e funesta360. Ed egli attenua l'eresia di Costanzo, e ne attribuisce la colpa agli altri. Parve, egli dice, che Costanzo desse una scossa all'ortodossia361. Ma tale apparenza è da mettersi a colpa di coloro che gli stavano intorno e che hanno ingannato un animo semplice e tutto infiammato di virtù. E, dopo tutto, esclama il polemista, noi non possiamo dimenticare ch'egli è figlio ed erede di colui che ha dato il fondamento della potenza imperiale alla fede cristiana362. E non possiamo dimenticare che Costanzo moriva lasciando dominatore il Cristianesimo!363. Nulla più di queste lodi e di questo esaltamento di un imperatore eretico, tirannico e crudele fatto da uno dei principi della Chiesa, dimostra l'acciecamento delle passioni, ed anche il traviamento morale in cui il Cristianesimo era caduto.

Giuliano diventa, nei discorsi di Gregorio, un tipo infernale intorno a cui si addensano le più oscure e stolte leggende. Una volta, mentre stava sacrificando, le viscere delle vittime gli si disposero in forma di una croce incoronata; gli spettatori ne sentirono terrore, ma l'empio apostata spiegò l'apparizione come un simbolo della sconfitta del Cristianesimo364. Un'altra volta, Giuliano, guidato da un maestro dei sacri misteri, discende in una caverna. Ed ecco egli ode suoni orrendi, ed ecco gli si affacciano fantasmi spaventosi. Atterrito Giuliano, quasi senza pensarci, come difesa contro i demoni malvagi, ricorre all'esorcismo a cui era, da fanciullo, abituato e si fa il segno della croce. E tosto i rumori cessano e i demoni scompaiono. Due volte si ripete lo strano esperimento, due volte constata Giuliano la potenza dell'esorcismo cristiano. Egli è scosso; ma il maestro d'empietà che gli stava al fianco — Che temi? gli dice. I demoni fuggirono, non già perchè ebbero paura della croce, ma perchè ne ebbero ribrezzo. — E Giuliano, persuaso da tale affermazione del suo maestro, discende con lui nella caverna. — Leggende assurde ma sintomatiche, perchè rivelano il lavoro della fantasia popolare ed insieme la credulità e l'artifizio dei polemisti cristiani, i quali trasformavano l'utopistico ellenista, di null'altro innamorato che d'Omero e di Platone, in una figura demoniaca che incuteva spavento nell'animo commosso delle plebi cristiane.

Il grande sforzo di Gregorio è di far di Giuliano un feroce persecutore. Ciò che più irritava, nell'atteggiamento di Giuliano, i difensori del Cristianesimo era la moderazione e la ragionevolezza con cui egli pretendeva di poter ricondurre il mondo all'Ellenismo antico. Che si potesse in altro modo, che con la violenza, combattere il Cristianesimo era, per quegli apologisti, affatto inammissibile, ed essi vedevano, in quel tentativo uno scandalo ed un pericolo supremo. È perciò che il nucleo vero dei discorsi di Gregorio sta nella dimostrazione che, malgrado le apparenze, Giuliano ha perseguitati i Cristiani. E Gregorio è, in tale dimostrazione, un polemista di singolare abilità. Egli adopera, con grande efficacia, la punta del sarcasmo e dell'ironia, e tocca, molte volte, il vero. Infatti che, nella mitezza di Giuliano, ci fosse una parte d'ipocrisia, è ben naturale. Si può affermare, senza fargli torto, che la tolleranza di cui, nelle sue lettere, si fa vanto, non viene tanto da un giudizio imparziale e dal rispetto reale delle convinzioni altrui, quanto dalla persuasione che la tolleranza fosse un'arma migliore della persecuzione per raggiungere lo scopo che gli stava supremamente a cuore. Ma Gregorio non riconosce affatto il vantaggio che, dall'atteggiamento del pagano imperatore, veniva ai Cristiani. «Giuliano, egli dice, dispone le cose in modo ch'egli perseguita, parendo di non farlo, e noi soffriamo senza l'onore che ci verrebbe, se si vedesse che soffriamo per Cristo»365. La differenza che corre fra Giuliano e gli altri imperatori persecutori sta nel fatto che questi perseguitavano lealmente, e con animo apertamente tirannico, così che essi traevano gloria dalla violenza che esercitavano, Giuliano, invece, è, nella sua persecuzione, miserabilmente astuto e vile366. «Giuliano» — afferma Gregorio con un'acutezza che, sebbene avvelenata dall'odio, riesce, certo, a riprodurre, in parte, il vero — «divideva in due sezioni la sua potenza, quella della persuasione e quella della violenza. Quest'ultima, essendo la più inumana, egli la lasciava al volgo delle città, di cui è più terribile l'audacia perchè irragionevole e più feroce l'impeto. E ciò senza pubblico decreto, semplicemente col non impedire le sommosse. L'ufficio più mansueto, e più degno di un principe, quello della persuasione, lo teneva per sè. Ma non riesciva a mantenervisi sino al fine, poichè non glielo permetteva la natura, come non permette al leopardo di cambiare la pelle macchiata, o all'Etiope il color nero.... Così colui fu, pei Cristiani, tutto fuorchè mite, e la sua stessa umanità era disumana367, la sua esortazione violenza, la sua cortesia scusa della crudeltà, perchè egli voleva parere di aver il diritto di far violenza dal momento che non era riuscito a persuadere»368.

In queste parole di Gregorio, c'è indubbiamente un fondo di vero, abilmente usufruito dal polemista che ha saputo opportunamente caricare le tinte, ed ha descritto come uno stratagemma voluto, come una condotta premeditata ciò che era, più che altro, il portato della necessità della situazione. Seguendo il filo di quest'interpretazione necessariamente ostile, Gregorio passa in rassegna quasi tutti quegli atti di Giuliano, che già conosciamo, dei quali dimostrammo non essere l'imperatore direttamente responsabile, oppure esserne giustificata la causa, e naturalmente ne fa tanti capi d'accusa contro il nemico. Tutto questo è necessariamente artifizioso e partigiano. Ma non lo è la mirabile invettiva, in cui l'oratore pone a raffronto le veraci virtù cristiane contro le fallaci ed apparenti virtù pagane, e manda un grido di vittoria369. Qui parla veramente un uomo infervorato e pieno di entusiasmo per la verità della causa ch'egli difende. Quando tocca della gloria dei martiri, Gregorio trova le più efficaci parole. Ma più interessante ancora è quel brano in cui Gregorio, con un'originalità di pensiero ed una forza di sentimento, di cui gli esausti oratori d'Atene e d'Antiochia non avevano più nemmeno il sentore, pone in luce le antitesi essenziali del Cristianesimo, quelle antitesi che conseguono dal contrasto fra il concetto pessimista del mondo presente e il concetto ottimista del mondo futuro, quelle antitesi per le quali il Cristiano vero gioisce e si gloria delle pene terrestri come di un processo di iniziazione alle felicità celesti, quelle antitesi che hanno la loro più acuta espressione nel sublime paradosso delle beatitudini evangeliche. Gregorio si meraviglia che Giuliano non sentisse il fascino di una così profonda e così nuova dottrina, ed attribuisce la resistenza dell'indurito pagano, ad ostinazione a stoltezza, ed empi propositi. Gregorio s'ingannava. Egli, piuttosto, avrebbe dovuto cercare la causa dell'inesplicabile resistenza di Giuliano nel fatto che quelle belle antitesi più non rappresentavano la condizione vera del Cristianesimo, per le cui vie ormai si raggiungeva non tanto la felicità celeste e futura, quanto la felicità terrestre e presente, e che presentava uno spettacolo deplorevole di discordia e di cupidigia. Certo il concetto morale che culminava nell'apoteosi dell'umile e dello sventurato aveva dato al Cristianesimo la forza e la vittoria. Ma, nel quarto secolo, quel concetto era diventato una pura espressione retorica, a cui per nulla affatto rispondeva la realtà. Era, dunque, naturale che ad un animo educato nel culto della sapienza e della virtù antica, questa, nel confronto, riapparisse luminosa, era naturale che vedesse, nel ritorno ad essa, la salvezza del mondo.

Il polemista cristiano ha, certo, ragione quando vuole dimostrare che non era atto di buona politica il tentar di ricondurre il mondo al Politeismo, perchè oramai il movimento cristiano si era troppo largamente diffuso e non sarebbe stato più possibile di fermarlo. I successori di Costantino non potevano che seguirne l'indirizzo. Il ritornare, sia pur temperandola nei modi, alla politica di Diocleziano avrebbe indebolito ancor di più l'impero, rendendogli avversa la maggioranza dei cittadini. Però Gregorio esagera nel parlare dell'opposizione che trovava il tentativo di Giuliano. Intanto, come già dicemmo, le campagne erano, in gran parte, rimaste fedeli al Paganesimo, e lo rimasero per molto tempo ancora, se, circa trent'anni dopo la morte di Giuliano, Libanio potè rivolgere all'imperatore Teodosio il suo grande discorso sui templi onde supplicarlo a difendere i templi campestri dal furore distruttore dei Cristiani370. E l'esercito rimase sempre intatto e sicuro nelle mani di Giuliano, sebbene Gregorio affermi ch'egli abolisse il vessillo portante il segno della croce371. È vero che Gregorio ci narra di un grande scandalo avvenuto nel campo; i soldati cristiani si sarebbero presentati all'imperatore per restituire il dono da lui ricevuto, nell'occasione del suo anniversario, appena si accorsero che, col bruciare un grano d'incenso, secondo il desiderio dell'imperatore, al momento di ricevere il dono, avevano commesso un atto di culto politeista. Giuliano non avrebbe puniti i ribelli che coll'esiglio, non volendo, dice Gregorio, fare dei martiri veri di coloro che, nell'intenzione, già lo erano372. Ma, in questo racconto, Gregorio ha, certamente, ingrandito nelle proporzioni di una scena solenne qualche episodio isolato, poichè il vero è che, nell'esercito di Giuliano, non si è mai manifestato il più lieve indizio d'indisciplina. Se, anzi, v'è cosa che dimostri la potenza d'attrattiva del giovane imperatore è la devozione ardente ed illimitata che i suoi soldati avevano per lui. Durante le campagne ardue e faticose di Gallia e di Germania, nell'arrischiata avventura della ribellione a Costanzo, nella grande e, sulla fine, disperata impresa di Persia, i soldati lo seguirono con entusiasmo e fedeltà sicura. E nulla ci dice che i soldati cristiani, e, certo, molti ne avrà avuto l'esercito, oscillassero nella loro disciplina. Se anche fosse vero, ciò che sospettano Libanio e Sozomene, che il giavellotto, uccisore di Giuliano, sia uscito da mano cristiana, il mistero di cui fu avvolta la cosa e la segretezza del complotto provano come nessun proposito di opposizione potesse mai aver probabilità di successo fra le schiere obbedienti di Giuliano.

Fra gli atti di persecuzione attribuiti all'imperatore, Gregorio pone, come già vedemmo, il famoso decreto, scolastico. Ma abbiamo già discusso il valore del suo giudizio. Fermiamoci, piuttosto, un istante a guardare i colpi ch'egli mena alla sua vittima, pel tentativo di imitare, con le istituzioni del Paganesimo riformato, le istituzioni del Cristianesimo. Gregorio deve pur riconoscere l'umanità dell'iniziativa di Giuliano, ma non riconosce la lealtà dell'intenzione. Giuliano, dice Gregorio, ha voluto imitare quel generale assiro il quale, non riuscendo ad espugnare Gerusalemme, si accinse a trattar con gli Ebrei, parlando dolcemente ebraico, onde adescarli coll'armonia della sua loquela. Così Giuliano fondava scuole, ospizî e perfino monasteri, voleva stabilire una gerarchia sacerdotale simile alla cristiana, ed esortava all'esercizio della carità verso i poveri. — Io non so, dice acutamente Gregorio, se sia stato un bene pei Cristiani che questo tentativo di Giuliano di cristianizzare il Paganesimo venisse fermato, in sul nascere, dalla morte dell'imperatore, poichè, continuando, avrebbe rivelato il suo carattere di imitazione scimmiesca. E in quel modo che le scimmie, per voler imitare gli uomini, si lasciano pigliare, così sarebbe accaduto anche di lui che si sarebbe impigliato nelle proprie reti, poichè le virtù cristiane son parte intima della natura del Cristianesimo, e «non son tali da potersi emulare da nessuno di coloro che vogliono tener dietro a noi, essendo esse vittoriose non già per sapienza umana, ma per forza divina e per la saldezza che viene dal tempo»373.

Tutto il primo discorso di Gregorio è fatto per lo scopo di dimostrare che Giuliano era un persecutore. Siccome questo è uno dei punti più interessanti la personalità dell'enigmatico imperatore, esaminiamolo ancora una volta.

Che Giuliano abbia abbandonato il suo principio moderatore, la sua norma di condotta che gli impediva di ricorrere alla violenza per ottenere il trionfo della sua causa, non v'ha scrittore imparziale che lo possa affermare. Per quanti sforzi si facciano, non si riuscirà mai a trasformare il neoplatonico sognatore in un principe persecutore. Tuttavia, una tesi sostenuta dall'acutissimo Rode, ed oggi ripresa da un altro scrittore, nell'ultimo studio pubblicato intorno a Giuliano, è che, nell'azione di Giuliano, vi sia stata una specie di evoluzione, così che, cominciata sotto l'ispirazione di una grande temperanza ed equanimità, sia poi andata mano mano inacerbendosi per modo da presentare, sulla fine, degli atti di rigore, che, se proprio non si possono identificare a procedimenti di persecuzione, vi si avvicinano assai.

A me pare che questa tesi sia affatto artifiziosa e rispondente, più che altro, ad uno schema preconcetto. Intanto, il regno di Giuliano fu così breve, da non permettere un'evoluzione fondamentale del suo pensiero. E poi quelle sue azioni non si lasciano affatto disporre nell'ordine cronologico che si vorrebbe loro imporre, per dedurre la conseguenza che Giuliano precipitava alla persecuzione. Così, uno degli atti suoi che, a torto, a nostro parere, ma che pure da uno scrittore partigiano, come Gregorio, potevano essere messi sotto la luce sinistra di una persecuzione religiosa, la condanna dei cortigiani di Costanzo, avvenne proprio all'esordio del suo regno, mentre l'editto di disapprovazione degli Alessandrini per l'uccisione del vescovo Giorgio, fu scritto da Antiochia. Quanto alle sommosse, ora dei Cristiani contro i Pagani, ora di questi contro quelli, ne avvennero parecchie durante il suo breve regno. Ma è impossibile il dire ch'egli le fomentasse per infierire contro i Cristiani. Vedemmo, anzi, come, in casi gravi, egli si appagasse di pene puramente amministrative.

Dobbiamo, intanto, riconoscere che a Giuliano sarebbe stato impossibile di rinnovare la persecuzione classica degli imperatori precedenti. Come dicemmo più su, oramai è provato che le persecuzioni avvenivano per coercitio, cioè per semplice misura di polizia. I Romani non s'incaricavano punto della dottrina dei Cristiani, poichè la persecuzione dogmatica era ad essi ignota affatto, e non andavano nemmeno a ricercare i delitti di cui i Cristiani si imaginavano colpevoli. I Cristiani erano considerati una setta pericolosa allo Stato; quindi, in date occasioni, l'autorità imperiale ne faceva, come oggi si direbbe, una retata, e, se ricusavano un atto di devozione all'imagine dell'imperatore, li mandava al supplizio. Ma questi procedimenti di polizia non sono possibili che contro un'esigua minoranza. Il giorno in cui la minoranza diventa maggioranza essa si ribella, e ripete, a sua volta, contro gli antichi avversari il processo di cui è stata, per tanto tempo, vittima. Ed è ciò che i Cristiani avevano fatto, dopo che Costantino ebbe data al Cristianesimo un'esistenza legale e riconosciuta.

Giuliano, dunque, se anche lo avesse voluto, non poteva più perseguitare i Cristiani col sistema antico. Ed egli non lo ha mai tentato. Ma non bisogna poi pretendere da Giuliano più di quello ch'egli potesse dare. Giuliano non poteva essere un protettore del Cristianesimo. Egli lo combatteva, voleva arrestarne la diffusione, voleva riporgli di fronte il Politeismo ellenico. Questo era il suo programma, e non si può volere che tenesse una condotta che fosse in contraddizione con quel suo programma. Egli non poteva nè favorire i Cristiani, nè tenere in piedi i privilegi e le prerogative che avevano saputo conquistare, durante il mezzo secolo del loro dominio. I Cristiani, come vedemmo in Sozomene ed in Socrate, protestavano contro questo ritorno all'antico. Dal punto di vista dei loro interessi, avevano ragione, ma la condotta di Giuliano non era, per questo, persecutrice o riprovevole. È con questi criterî che vanno giudicati quei provvedimenti di rigore amministrativo contro i Cristiani che già abbiamo esaminati. Il vero è che Giuliano si riponeva semplicemente nelle abitudini antiche di governo e di eguaglianza fra i cittadini, come egli doveva pur fare per realizzare il suo programma. Nell'amministrazione della giustizia egli era tanto imparziale, che si diceva che la Giustizia, fuggita in cielo, ritornava, lui imperante, in terra. Ed, anzi, il buon Ammiano ci dice esplicitamente che «sebbene Giuliano uscisse, talvolta, nella domanda inopportuna, quale fosse la religione di ognuno dei litiganti, pure nessuna sua definizione di lite fu mai trovata dissonante dal vero, nè mai gli si potè muover rimprovero di aver deviato, o per religione o per qualsiasi altro motivo, dal retto cammino della equità. Nec argui unquam potuit ob religionem, vel quodcumque aliud ab æquitatis recto tramite deviasse»374. Questa dichiarazione tanto esplicita dello storico imparziale, che pur non tace le colpe e i difetti del suo eroe, e che era del tutto impervio ad ogni fanatismo religioso, risolve nel modo più chiaro la quistione. Giuliano fuor che nel caso, affatto personale, della sua lotta con Atanasio, non ha mai fatto opera di persecutore. Tutti gli atti che i suoi nemici e gli scrittori ecclesiastici, Gregorio, Socrate, Sozomene, Rufino, additano come prove di persecuzione, non sono che provvedimenti intesi a togliere, senza violenza, alla Chiesa cristiana, la posizione privilegiata che le era stata creata. Ora, il dare a tale condotta, la quale era nella logica dello scopo che Giuliano si era prefisso, il colore di una persecuzione, per la quale il Cristianesimo dovesse essere forzatamente sradicato e sostituito dal Paganesimo, mi pare sia l'effetto di un giudizio parziale, di un giudizio mancante di oggettività, e che va a cercare la colpa coll'intenzione prestabilita di trovarla.

Il secondo dei due discorsi infamanti è un grido di gioia per la catastrofe di Giuliano. Il terribile oratore accumula sul capo del caduto tutti gli oltraggi che gli fornisce la sua ricca fantasia o ch'egli attinge al gran serbatoio della letteratura biblica. Per poter esprimere tutta la nequizia di Giuliano si dovrebbe chiamarlo insieme Geroboamo, Acabbo, Faraone, Nabuccodonosor. Nessuna natura più pronta della sua nella scoperta e nelle macchinazioni del male375. E di ciò è prova il favore da lui largito agli Ebrei, e la promessa da lui fatta di ricostruire il tempio di Gerusalemme, promessa resa vana dal miracoloso intervento di Dio. La narrazione della campagna di Persia è irritante per lo spirito ingiusto e partigiano con cui è fatta. Tutta la meravigliosa preparazione e l'abilità singolare con cui l'imperatore riuscì a condurre trionfalmente l'esercito fino a Ctesifonte è negata da Gregorio, che attribuisce quel successo all'artifizio dei Persiani che volevano attrarre il nemico nel cuore del paese per meglio sconfiggerlo; taciuto è l'eroismo di Giuliano che è dipinto come un pazzo furioso. Gregorio propriamente non sa a chi attribuire il merito dell'uccisione di Giuliano. Egli non accenna alla possibilità che il colpo sia partito da mano cristiana. Ma gioisce della morte dell'imperatore, come della salvezza del mondo, e ci narra che Giuliano voleva che il suo corpo fosse gittato nascostamente nel fiume, onde si credesse ch'egli fosse scomparso e salito al cielo, e quindi ascritto al numero degli dei! Come lo spirito di parte oscura il giudizio e travisa la verità! Ecco che diventa, nelle mani di un nemico, la scena commovente e sublime che ci hanno descritta Ammiano e Libanio. Ma se il sentimento critico insorge davanti a questa tempesta di insulti immeritati o, almeno, eccessivi, e davanti a questa voluta caricatura del personaggio storico, è, d'altra parte, impossibile resistere all'impeto dell'eloquenza del trionfante oratore. La chiusa del discorso di Gregorio risuona come un clangore di tromba che saluta la vittoria. «Dammi, egli grida, dammi i tuoi discorsi imperiali e sofistici, i tuoi irresistibili sillogismi, le tue meditazioni. Le porremo a raffronto con ciò che rustici pescatori dissero a noi. Ma il mio profeta mi comanda di far tacere l'eco dei tuoi canti, il suono dei tuoi strumenti... Deponga l'ierofante la stola infame; sacerdoti, indossate la giustizia, la stola gloriosa, la tunica immacolata di Cristo. Taccia il tuo nunzio di disonore, risuoni il nostro nunzio di verità divina. Si chiudano i tuoi libri falsi e magici; si aprano i libri dei profeti e degli apostoli... A che ti giovarono tanti apparecchi d'armi, tante invenzioni di macchine, tante miriadi d'uomini, tante falangi? Fu più forte la nostra preghiera e la volontà di Dio»376. Gregorio esulta all'idea di tutti i tormenti del Tartaro ellenico e di altri ancor peggiori, applicati a Giuliano, poi esclama: «Queste cose ti diciamo noi a cui doveva essere vietata la parola, per quella tua grande ed ammirabile legge. Vedi che, condannati dai tuoi decreti, non rimaniamo silenziosi, ma innalziamo una libera voce, che maledice la tua stoltezza. Non pensi alcuno di trattenere le cataratte del Nilo, cadenti dall'Etiopia nell'Egitto, nè i raggi del sole, se anche per poco nascosti dalle nubi, nè di frenare la lingua dei Cristiani che pubblicamente vitupera la tua condotta. Questo ti dicono Basilio e Gregorio, i nemici e gli oppositori del tuo tentativo che tu, sapendo esser illustri e famosi in tutta la Grecia per la vita, la dottrina e la concordia, riservavi all'estremo cimento, come un dono trionfale e splendido pei demoni, se mai avessimo dovuto riceverti ritornante dalla Persia, o che, forse, tu speravi, nel tuo perverso pensiero, di trascinar teco nel baratro...

«Io ti dedico — così chiude Gregorio la sua invettiva — questa colonna più alta e più splendida delle colonne d'Ercole. Queste son fisse in un luogo e non sono vedute se non da chi là si reca. Questa, essendo mobile, può vedersi dovunque e da tutti. Sarà trasmessa, credilo, anche al futuro, infamando te e la tua impresa, ed insegnerà a non osar mai una tanta ribellione a Dio, perchè ad eguale misfatto seguirebbe eguale castigo»377.

Davanti alle imagini così diverse, anzi, opposte l'una all'altra che ci presentano di Giuliano questi scrittori suoi contemporanei, per alcuni dei quali egli era un nume raggiante d'ogni virtù, per altri un mostro abbominevole e turpe, noi saremmo davvero imbarazzati a conoscere il vero, se non avessimo gli scritti di Giuliano stesso, sui quali non è difficile il formarsi un concetto esatto dell'indole e delle doti dell'uomo. Una gran parte di questi scritti venne già da noi esaminata, nel corso di questo studio, e vi abbiamo trovati gli indizî del suo modo di vedere nei problemi della filosofia e della religione, e la spiegazione della sua condotta nelle complicate condizioni in cui si trovava avvolto. Ma ora vogliamo tentar di entrare nell'intimo del suo spirito e sorprendere l'uomo. Per questo non ci possono essere di nessun aiuto le due stucchevoli declamazioni, composte da Giuliano, in onore di Costanzo, quando rientrò nel favore del cugino. Due brani, scritti sotto la pressione della prudenza politica, non rispondenti, in alcun modo, alle convinzioni di lui, e, quindi, leggibili solo come una prova della decadenza in cui era precipitata la letteratura greca, nelle scuole dei retori, dove l'arte dello scrivere si riduceva all'applicazione di un determinato formolario e ad un esercizio di artificiose imitazioni degli esempi della storia e della letteratura antica.

Però, diciamo il vero, quei due discorsi non sono onorevoli per Giuliano. Si comprendono facilmente le ragioni di opportunità che possono aver mosso il nuovo Cesare a comporre quegli elogi. Portato improvvisamente al vertice degli onori, rivestito di un'autorità che lo rendeva quasi collega dell'imperatore, sorretto, come egli si sentiva, dell'appoggio vigilante e possente di Eusebia, egli poteva credere che si iniziasse un'era nuova per lui. Da qui la necessità di non compromettere nè il presente nè l'avvenire, e di guadagnarsi il favore del sospettoso e vanaglorioso Costanzo, col dedicargli i primi frutti del suo ingegno e del suo studio. Ma, ammesso tutto ciò, e fatta anche una parte grande al ricettario scolastico ed enfatico della scuola retorica a cui apparteneva, noi troviamo, in quegli elogi, un'adulazione così eccessiva da farci un senso penoso, sopratutto se ricordiamo ciò che Giuliano stesso narrava pochi anni più tardi, agli Ateniesi, cioè, ch'egli si era subito accorto della malafede di Costanzo nell'attribuirgli il nome ed il potere di Cesare, perchè si trovava circondato da spie, guardato con sospetto dai generali del suo esercito, tenuto quasi come un prigioniero378.

Davvero bisogna supporre, in Giuliano, una gran potenza di dissimulazione perchè, nelle condizioni tristissime in cui si trovava, potesse mandare questi inni di ammirazione e di riconoscenza allo sciagurato cugino, all'uccisore della sua famiglia! È un vero conforto, quando, giunti al termine di queste declamazioni, noi udiamo lo scrittore scusarsi di non dar le prove della virtù di cui ha abbellita la figura di Costanzo, col dire che ciò lo porterebbe troppo in lungo, ed egli non ha tempo di servire le Muse, perchè il momento lo chiama all'azione379, e quest'azione era, forse, la grande campagna contro la coalizione germanica guidata dal re Conodomario, quella campagna che si chiuse con la gloriosa battaglia di Strasburgo!380.

Sul medesimo stampo e col medesimo carattere di discorso ufficiale è scritto anche il panegirico dell'imperatrice Eusebia, che, in parte, già conosciamo. Qui però si ode l'accento di un omaggio vero e l'espressione di una giusta riconoscenza e, forse di un affetto più segreto per questa donna insigne che aveva portato in dote «un'educazione corretta, un'intelligenza armonica, un fiore ed un'aura di bellezza da far impallidire le altre vergini, come le lucide stelle, vinte dai raggi della luna piena, nascondono il loro volto»381. Ma del panegirico d'Eusebia toccheremo più avanti, cercando di scrutare la natura dei rapporti fra il giovane principe e la sua bella e potente cugina.

Già parlammo dei discorsi filosofici e religiosi che hanno un intento prettamente dottrinario, e che, quindi, non giovano alla nostra attuale ricerca. Ma, negli altri scritti che ci son giunti, la genialità spontanea di Giuliano, che già ci si è rilevata così originale nel Misobarba, si presenta in tutta luce. Nel Banchetto dei Cesari, nei discorsi a Temistio ed a Sallustio, sopratutto nelle lettere, balza fuori l'uomo ed, insieme a lui, lo scrittore vivace, brillante, arguto che, coll'ispirazione genuina, riesce a vincere la pedantesca scolastica letteraria di cui era stato nutrito.

Il Banchetto dei Cesari è una satira piena di spirito e di saggezza, che fa onore a Giuliano, e come scrittore e come uomo e come imperatore. In quella satira egli passa in rivista tutti i suoi antecessori, di cui mostra gli errori, le colpe ed i vizî. Uno solo trova grazia presso di lui, ed è Marco Aurelio. Mirabile, davvero, questo giovane trentenne, che, padrone del mondo, pone, davanti a sè, come modello di condotta, il più savio degli imperatori. E su questa preferenza sono armonizzati tutti i giudizi dello scrittore, i quali, se peccano, talvolta, di severità, sono sempre ispirati da un alto sentimento morale ed espressi con sottile arguzia.

Giuliano, nella festa dei Saturnali, durante la quale era un dovere il ridere ed il divertirsi, non sapendo fare nè l'una cosa nè l'altra, propone ad un amico di raccontargli un mito interessante. L'amico accetta, e Giuliano comincia. — Romolo, egli narra, per festeggiare appunto i Saturnali, venne nel pensiero di chiamare a banchetto gli dei e gli imperatori, su nell'Olimpo. Gli dei, accettato l'invito, accorrono pei primi e siedono su troni splendidissimi, ciascuno al loro posto, Sileno vicino a Bacco, ch'egli diverte coi suoi scherzi e coi suoi frizzi. Seduti gli dei, ecco entrano gli imperatori, ad uno ad uno, e Sileno ha per tutti una frecciata. Viene pel primo Giulio Cesare, e Sileno — «Guardati, o Giove, che quest'uomo per amor del comando, non pensi di portarti via il regno. Non vedi come è grande e bello. Mi assomiglia, se non foss'altro, nella calvizie». — Lo segue Ottaviano, che cambia colore, come i camaleonti; ora è giallo, ora è rosso, ora è nero, ora è grigio. Viene Tiberio, pieno di piaghe e di ulceri, poi Caligola che gli dei non vogliono vedere e che è cacciato via e scagliato nel Tartaro, Claudio, scorgendo il quale, Sileno esclama: «Fai male, o Romolo, a chiamare al banchetto questo tuo successore, senza i liberti Narcisso e Pallante. Falli venir qui, e, con essi, anche la sposa Messalina, poichè, senza di essi, non è che una comparsa nella tragedia». — Ecco Nerone con la cetra e l'alloro. E subito Sileno ad Apollo — «Costui si atteggia ad imitarti. — Ed Apollo — Ed io torrò tosto la corona a questo cattivo imitatore. — E Nerone scoronato è ingoiato dal Cocito». — Così passano tutti, tutti accusati e derisi, all'infuori di Nerva, di Marco Aurelio, a cui però Sileno rimprovera l'indulgenza per la moglie ed il figlio, del secondo Claudio, e di Probo, che non ha altro torto che l'eccessiva severità. Poi viene il quartetto di Diocleziano e dei suoi tre colleghi, quartetto armonico ed eccellente, se non ci fosse la nota discordante di Massimiano; finalmente a quest'armonia succede un tumulto stridente. È Costantino coi suoi rivali. Costantino rimane solo, Licinio e Magnenzio sono scacciati dagli dei.

Così disposto il banchetto, Mercurio fa la proposta di aprire un concorso per esame fra gli imperatori per vedere chi di loro otterrebbe il premio degli dei. La proposta è accolta, tanto più che Romolo già da tempo desiderava di poter avere qualche suo successore presso di sè. Ma Ercole pretende che si chiami anche Alessandro, ciò che gli è concesso. Gli dei stabiliscono che al concorso siano chiamati solo alcuni dei più insigni imperatori, e si scelgono Alessandro, Cesare, Ottaviano, Traiano, Marco Aurelio, e finalmente, su proposta di Bacco, anche Costantino, che, però, è trattenuto al limitare della sala degli dei. Ad ognuno dei sei chiamati è concesso di fare un discorso per esaltare le proprie imprese. Questi discorsi sono scritti, dal nostro poeta, con fine accorgimento. Giulio Cesare ed Alessandro gareggiano fra di loro, per attribuirsi la maggior gloria, Cesare tentando di dimostrare che le sue imprese furono assai più ardue ed eroiche di quelle d'Alessandro, questi ribattendo gli argomenti dell'altro, ed insistendo, sopratutto, sulla circostanza da lui affermata che la gloria di Cesare viene dall'imperizia e dalla pochezza dell'ingegno del suo avversario, Pompeo. Costui, si vede, non era nelle buone grazie di Giuliano. Ottaviano vanta la saggia amministrazione ch'egli ha fatto dell'impero, la fine della guerra civile, l'aver dati alla potenza romana due confini ben definiti, l'Istro e l'Eufrate, l'aver sanate le piaghe che le guerre continue avevano inflitte allo Stato. Pare ad Ottaviano di aver meglio governato degli imperatori guerrieri. Traiano ricorda, insieme alle imprese di guerra, la sua mitezza verso i cittadini, la temperanza del suo governo, e, con le sue parole guadagna la simpatia degli dei. Gli succede Marco Aurelio, e subito Sileno dice sottovoce a Bacco — «Ascoltiamo questo stoico; chi sa quali paradossi, e che meravigliose massime ci vorrà rivelare! — Ma Marco Aurelio, guardando Giove e gli altri Dei — Per me non è il caso, o Giove, o Dei, di far discorsi e gare. Se voi ignoraste le cose mie, sarebbe conveniente che io ve ne istruissi. Ma siccome a voi nulla è nascosto, così voi mi darete quel premio che io posso davvero meritarmi. — E Marco parve agli Dei mirabilmente saggio, come colui che sapeva quando convenisse parlare e quando fosse bello tacere.»382 — Finalmente Costantino, rimasto sul limitare della sala, non vorrebbe parlare, ben sentendo come le sue imprese siano inferiori a quelle degli altri. Ma, dovendo dir qualche cosa, cerca goffamente di dimostrarsi superiore agli altri per le qualità dei nemici da lui combattuti, e perchè, invece di insorgere contro buoni cittadini, come avevano fatto Cesare ed Ottaviano, aveva vinto dei perversi tiranni. — Marco Aurelio, egli soggiunge stoltamente, col suo silenzio ha dimostrato di esser inferiore a tutti noi. — E Sileno — «O Costantino, tu ci presenti, come opera tua, i giardini d'Adone. — E che vuoi tu dire, coi giardini d'Adone? — Son quelli che le donne, in onore dell'amante di Afrodite, compongono con vasetti, in cui hanno piantate delle erbe. Verdeggiano per un istante, e poi subito appassiscono!». — E Costantino arrossì, comprendendo come ciò alludesse all'opera sua383.

Si vede che Giuliano sentiva una profonda antipatia per lo zio e cercava di diminuirne la fama. Quest'antipatia ha la sua naturale origine dalla posizione che Costantino aveva fatto al Cristianesimo. Ma può parer singolare che in questo esame che gli imperatori subiscono davanti agli dei, non si faccia alcun cenno di ciò appunto che ai loro occhi doveva essere la colpa maggiore di Costantino. Ma, forse, Giuliano non voleva dare a quel fatto, che per lui era un episodio passeggero, per quanto empio, una importanza maggiore di quella che a lui pareva avesse; fors'anche, non voleva scemare l'effetto della frecciata finale che, come vedremo, egli ha scagliata all'apostasia di Costantino.

Finiti i discorsi, il concorso dovrebbe esser chiuso. Ma gli dei non sono ancora soddisfatti, perchè, per determinare il merito di ciascuno, non basta conoscere le opere, nelle quali anche la Fortuna può aver avuta gran parte; bisogna conoscere l'intenzione con cui si son fatte. E qui Mercurio incomincia un nuovo interrogatorio. — Con qual fine, dice egli ad Alessandro, hai tu agito e ti sei tanto affannato? — Per vincer tutti, egli risponde. — E lì Sileno, con un lungo e scherzoso discorso, conduce Alessandro a riconoscere di non aver saputo vincere sè stesso. — E quale, fu, domanda Mercurio a Cesare, lo scopo della tua vita? — Essere il primo, e non solo non essere ma anche non esser creduto secondo a nessuno. — Certo, osserva Sileno, tu fosti il più potente dei tuoi concittadini. Ma a farti amare da essi non riuscisti, per quanto ti atteggiassi a filantropo, e per quanto li adulassi. — Augusto che risponde di aver avuto a scopo della sua vita il governar bene, e Traiano che afferma aver avuto le medesime aspirazioni di Alessandro, ma con maggior moderazione, sono anch'essi scherniti da Sileno. Il solo Marco Aurelio, con la semplicità delle sue risposte, vince i sarcasmi del satirico dio. — Quale a te sembra, chiede Mercurio a Marco Aurelio, esser la scopo più bello della vita? — Imitare gli Dei, egli risponde. — Ma cosa intendi, dice Sileno, per imitazione degli Dei? — E Marco Aurelio — Aver meno bisogni che sia possibile, e beneficare quanti più si può. — E tu, dunque, avevi bisogno di nulla? soggiunge Sileno. — E Marco — Io di nulla, e di ben poco questo mio corpicciattolo. — Sileno, esaurita ogni risorsa, cerca di imbarazzare il saggio imperatore, rammentandogli le riprovevoli indulgenze verso la moglie ed il figlio. Ma Marco Aurelio esce d'impiccio con una citazione d'Omero ed invocando l'esempio dell'indulgenza di Giove che ha insegnato a tollerar la moglie, ed una volta, ha detto a Marte — io ti colpirei col fulmine, se non ti amassi perchè mi sei figlio. — Venuto il turno di Costantino, questi è addirittura schiacciato dagli scherni di Sileno, e gli dei finiscono per votare, in maggioranza, per Marco Aurelio. Allora Mercurio, per incarico di Giove, annuncia ai concorrenti che, per larghezza divina, tutti, e vincitori e vinti, possono scegliersi un dio presso cui vivere protetti. Alessandro, appena ciò udito, siede presso Ercole, Ottaviano presso Apollo, Marco Aurelio si stringe a Giove e Saturno, Cesare è raccolto da Marte e da Venere, Traiano si accosta ad Alessandro. E qui viene la strana chiusa che bisogna riprodurre con le parole stesse di Giuliano: «Costantino, non trovando negli dei un archetipo della vita, scorgendo, vicino a sè l'Incontinenza, le corse incontro. Essa lo accolse dolcemente, lo abbracciò, lo adornò di pepli brillanti, e lo condusse alla Dissolutezza, presso la quale era Gesù che gridava; — Corruttori, assassini, uomini esecrabili e scellerati, venite a me con fiducia. Lavandovi con questo poco d'acqua io vi renderò puri in un istante, e, se di nuovo diventerete colpevoli, io darò il modo di purificarvi ancora, pur che vi battiate il petto ed il capo. — Costantino fu ben lieto di star con lui, e condusse via i suoi figli dal consesso degli dei. Ma i demoni, vendicatori dell'empietà lo tormentarono, lui ed i suoi, e loro fecero pagare il fio del sangue che hanno sparso dei loro congiunti».

Sul finir della scena, Giuliano presenta sè stesso, ultimo degli imperatori, e si fa dire da Mercurio: « — A te concedo di conoscere il padre Mitra. Tu attienti ai suoi comandi, e troverai un insegnamento ed una traccia sicura della tua vita, e quando dovrai andartene, la buona speranza di aver per guida un dio clemente»384.

Qui c'è davvero uno scherno atroce ed un'interpretazione supremamente iniqua dell'ispirazione di Gesù. Ma dobbiamo osservare che qui l'indicazione — Gesù — non si riferisce alla persona del Cristo evangelico, ma ad una personificazione della religione cristiana, quale era ai tempi di Giuliano, e quale a lui si palesava. Ora, il vero è, come già l'abbiamo osservato più volte, che il Cristianesimo aveva, per nulla, moralizzati i costumi degli uomini. Nel passo di Giuliano, ciò ci appare evidente dal fatto che fu possibile allo scrittore di accusare Gesù di esser stato addirittura il demoralizzatore del mondo. Il Cristianesimo aveva potuto metter radice, perchè poteva soddisfare certe aspirazioni dell'anima umana al momento in cui era apparso. Ma il Cristianesimo non poteva moralizzare gli uomini, perchè gli uomini non si moralizzano per effetto di una dottrina che venga loro impartita dal di fuori, migliorano, bensì, per le condizioni dell'ambiente in cui vivono, e del quale è conseguenza diretta l'idea tutta relativa della moralità. Pagani o cristiani, gli uomini avevano quella data quantità di doti buone o cattive che armonizzavano con la tempra dei costumi esistenti; non è la morale che crea i costumi, sono i costumi che creano la morale. Nei primi tempi del Cristianesimo, quando a diventar Cristiani si correva un grande pericolo, non lo diventavano che coloro i quali erano suscettibili di un esaltamento di convinzione, e di una disposizione eroica al sacrifizio di sè stessi; tutti quindi ci sembrano santi. Ma, quando il Cristianesimo fu riconosciuto come religione prima tollerata, poi dominante, esso divenne, come tutte le altre religioni, una veste che si indossa, ma che lascia intatto l'uomo che ne è ricoperto. Fra i cristiani non meno che fra i pagani, v'erano i buoni ed i cattivi, gli egoisti ed i benefici, i crudeli ed i pietosi. S. Ambrogio sarà stato un uomo migliore di Simmaco o di Libanio rimasti pagani, ma Giuliano, rimasto pagano, era moralmente tanto ammirabile quanto erano disprezzabili Costantino e Costanzo, sebbene convertiti al Cristianesimo. Ora, la corte scellerata, per quanto cristiana, dei Costantiniani non poteva non essere un focolare putrido di ogni fermento abbominevole. Giuliano vedeva nello zio e nel cugino gli assassini della sua famiglia, e li vedeva, insieme, esaltati dai Cristiani e lavati d'ogni macchia, pel semplice effetto di una conversione affatto formale. Da qui il suo aborrimento, il quale, date le condizioni speciali in cui aveva vissuto, diventa spiegabile. L'errore di Giuliano, errore, del resto, comune negli uomini, fu quello di imaginare un responsale in ciò che era inevitabile, e quindi di far risalire, con una sacrilega leggerezza, al fondatore del Cristianesimo la responsabilità di ciò che era la conseguenza della natura umana, posta in un determinato momento della sua evoluzione385.

In questo dialogo, al quale, come a tutti gli scritti di Giuliano, non manca che il lavoro della lima, per esser eccellente, egli ci dice quale sia secondo lui il dovere di un sovrano. Ed è così alta la sua idea del dovere ch'egli comprende in una disapprovazione comune tutti gli imperatori che l'hanno preceduto, eccettuando il solo Marco Aurelio. Pare che anche le glorie guerresche non trovassero grazia agli occhi suoi, e non costituissero un merito per chi le avesse guadagnate. Giuliano, pertanto, avrebbe dovuto essere un imperatore pacifico, tutto intento a quella propaganda religiosa che era la sua più viva preoccupazione. Ma la natura vinse la ragione ed egli dimostrò che, malgrado le sue belle teorie, egli aveva molto di quell'Alessandro a cui per bocca del sarcastico Sileno non risparmiò le sue frecciate. Questo neoplatonico incoronato era, nel profondo dell'essere, un soldato, e le attrattive della gloria avevano per lui un fascino ch'egli non confessa, ma che era irresistibile. È così che il primo suo pensiero, appena toccato il trono, fu di gittarsi in quella folle guerra di Persia, che non era voluta che dallo spirito di avventura e dal desiderio di far stupire il mondo con un'impresa colossale. Quanto fosse vivo ed impaziente quello spirito ce lo dice Libanio, il quale, nel discorso necrologico, descrive l'ardore di Giuliano nel correre a quell'impresa. A stento egli concesse un breve indugio pur necessario all'istruzione dei soldati e dei cavalli, e, intanto, fremeva pel timore che alcuno potesse dire di lui, schernendolo, che egli era della medesima famiglia del timido Costanzo. Il re di Persia gli manda una lettera, proponendogli di deferire ad una commissione arbitrale il componimento delle discordie fra la Persia e l'Impero. Tutti scongiuravano Giuliano di accettare la proposta. Ma egli, gittando via la lettera, dichiara esser disonorevole il discutere coi distruttori di tante città, e risponde al re non essere bisogno di ambasciatori, perchè egli stesso, fra breve, sarebbe venuto da lui. Ecco una risposta che avrebbero, forse, data molti di quegli imperatori a cui egli ricusa la sua ammirazione, ma che non sarebbe uscita dal labbro del saggio Marco Aurelio, il quale faceva la guerra, con coscienza rigorosa, come ogni cosa inerente al suo ufficio, ma, insieme, tristemente e senza passione, ed avrebbe tanto preferito astenersene ed impiegare il tempo nelle sue melanconiche meditazioni! Ma, in Giuliano, la filosofia ed anche la pedanteria si univano all'ardore giovanile ed al desiderio d'azione, così da far di lui una delle figure più originali, più ricche di contrasti e più interessanti della storia.

Il lungo studio che abbiamo fatto dell'opera e degli scritti di Giuliano ci ha già condotti ad aver un'idea chiara della natura di questa personalità così interessante e paradossale che ha illuminate, come di una meteora passaggera, le tenebre crescenti in cui stava per affondare l'antica civiltà. Ma non vogliamo abbandonarla, senza aver cercato, nelle sue lettere, qualche traccia più precisa delle sue doti e dei suoi difetti. Le lettere di Giuliano stanno fra i più interessanti documenti della letteratura greca. Sventuratamente, pur nel numero esiguo in cui son rimaste, ci pervennero guaste, incerte nel testo, manomesse con interpolazioni o con omissioni, così che sarebbe desiderabile che, su di esse, come, del resto, sugli altri scritti di Giuliano si esercitasse l'acume della critica moderna, e se ne avesse un'edizione che le illustrasse in tutti i rispetti linguistici, letterari e, sopratutto, storici. Alcune di queste lettere non sono che esercizi retorici, altre sono editti e manifesti a città e magistrati, e, queste, noi già le conosciamo. Molte sono brevi, spiritosi o commossi sfoghi delle impressioni del momento, ed è in esse che naturalmente si riflette più genuina l'anima che le dettava.

Ma, prima di leggere qualcuna delle vere lettere di Giuliano, diamo un'occhiata a due altri interessanti suoi scritti, che stanno fra la lettera ed il trattato, l'epistola a Temistio, e l'esortazione a Sallustio.

Temistio era uno dei più insigni personaggi dell'epoca. Scrittore e retore famoso, egli teneva scuola a Costantinopoli, ebbe il favore di tutti gli imperatori da Costanzo a Teodosio, e sostenne anche l'alto ufficio di prefetto di Costantinopoli. Senz'essere ascritto al cenacolo neoplatonico, egli era un ellenista fervente. Ma, spirito alto e generoso, raccomandava sopratutto la libertà del pensiero e la tolleranza religiosa. È famoso il discorso tenuto, da lui pagano, all'ariano imperatore Valente onde persuaderlo a desistere dalla persecuzione contro i Cristiani ortodossi386. In quel discorso, Temistio si pone al punto di vista di quel deismo razionale, indifferente delle forme del culto, a cui s'era ispirato per un momento, Costantino, nel decreto di Milano. Temistio deve aver esercitato una buona influenza sull'animo di Giuliano.

La lettera a Temistio è propriamente sintomatica dell'indole del giovane imperatore e della disposizione del suo spirito. Pare che Giuliano, appena salito al trono gli avesse scritto per confidargli le ansie, le incertezze da cui era conturbato, ed insieme, il rimpianto della vita di studio a cui doveva rinunciare per sempre. Temistio gli rispose, pare, con una certa durezza, richiamandolo alla grandezza dei suoi nuovi doveri e quasi rimproverandolo di un colpevole desiderio d'ozio e di pace. Giuliano non rimase sotto i rimproveri dell'amico filosofo, e gli scrisse questa lettera assai fine e dignitosa, una delle sue migliori cose, ed una testimonianza parlante della sua ragionevolezza ed onestà. Nulla di più caratteristico di un tale intimo ed amichevole dibattito fra maestro e discepolo, nel quale quest'ultimo dà la ragione delle sue incertezze e dei suoi dubbi, e rivela le aspirazioni che nutriva in cuore e che la sorte non gli permetteva di realizzare. Certo, l'uomo che così sentiva e scriveva non poteva essere il mostro infernale che Gregorio ha voluto ritrarre nella sua colonna infame.

«Io prego con tutto il fervore — così comincia Giuliano — di poterti confermare nelle speranze di cui mi scrivi, ma temo di fallire alle esagerate aspettazioni che di me tu fai nascere negli altri e più ancora in te stesso. Essendomi, già da tempo, persuaso esser mio dovere di gareggiare con Alessandro e con Marco Aurelio, per non dire degli altri insigni per virtù, mi prendeva un'agitazione ed un timore grandissimo di parer del tutto privo del coraggio dell'uno e di non raggiungere, nemmeno in piccola parte, la perfetta virtù dell'altro. Ripensando tutto ciò, io mi sentiva indotto a lodare la vita senza cure, e mi era dolce ricordare i colloqui d'Atene, e non desiderava che di cantare per voi, o amici, come coloro che portano gravi pesi alleggeriscono cantando la loro sofferenza. Ma tu, con la tua lettera recente, mi hai reso ancor maggiore il timore e più difficile il cimento, dicendomi che Dio mi ha affidata quella stessa missione, per la quale Ercole e Dionisio, da sapienti insieme e da re, purgarono la terra e il mare della bruttura che li imbrattava. Tu vuoi che, scuotendomi di dosso ogni pensiero di quiete e di riposo, io mi studî di lottare in modo degno dell'aspettazione. E qui tu rammenti i legislatori, Solone, Pittaco, Licurgo, e soggiungi che ora si richiede da me, più ancora che da quelli, la fermezza nella giustizia. Nel leggere queste parole rimasi stupito. Poichè io ben so che tu non ti faresti mai lecito nè di adulare nè di mentire, e, quanto a me, io ho la coscienza che la natura non mi ha conferita nessuna qualità preclara, fuori di una sola, l'amore della filosofia. E qui taccio delle avverse vicende che finora hanno reso del tutto inutile quel mio amore. Io, dunque, non sapeva che pensare di quelle tue parole, quando Dio mi suggerì che tu, forse, volevi incoraggiarmi facendomi delle lodi, e mostrandomi la grandezza dei cimenti, in cui è travolta la vita dell'uomo politico. Ma quel discorso mi distoglie da quella vita assai più che non mi esorti. Se uno avvezzo a navigare il Bosforo, e non facilmente e di buon animo neppur questo, si udisse predire, da qualcuno esperto di arte divinatoria, ch'egli dovrà attraversare l'Egeo o l'Jonio e avventurarsi in alto mare, e l'indovino gli dicesse — Ora, tu non perdi di vista le mura e i porti, ma là tu non vedrai più nè faro nè roccia, lieto se scoprirai una nave da lontano e parlerai ai naviganti, e più e più volte pregherai Dio di farti toccar terra, di farti trovare il porto prima del termine della vita, così che tu possa consegnare intatta la nave, e ricondurre sani e salvi i naviganti alle loro famiglie, e dar il tuo corpo alla terra materna, e, dato anche che tutto questo avvenga, tu non lo saprai che in quell'ultimo giorno — credi che colui il quale ascoltasse tale discorso sceglierebbe per soggiorno una città vicina al mare, o, piuttosto, dicendo addio alle ricchezze ed ai guadagni del commercio, tenendo a vile la conoscenza di uomini illustri e di amici stranieri, di popoli e di città, troverebbe saggio il detto di Epicuro, il quale ci insegna di vivere nascosti? E si direbbe che tu, ben sapendo tutto ciò, hai voluto prevenirmi coll'involgermi nei tuoi rimproveri ad Epicuro, e col combattere in lui la mia convinzione»387. E Giuliano continua affermando ch'egli non merita questi rimproveri indiretti del suo maestro, perchè nessuno più di lui abborre la vita oziosa. Ma è naturale ch'egli provi un'ansiosa dubbiezza nell'assumere un ufficio pel quale si richiedono doti speciali e nel quale poi la fortuna vale meglio della virtù. E la fortuna è doppiamente pericolosa, perchè quando è avversa ci abbatte, e quando è favorevole ci corrompe. Anzi è più difficile uscir illesi da questo secondo pericolo che dal primo. E Giuliano afferma che la prosperità ha trascinato alla rovina e Alessandro e i Persiani e i Macedoni e gli Ateniesi e i Siracusani e i magistrati di Sparta e i generali dei Romani e mille imperatori e re. Giuliano invoca a sostegno della sua tesi la testimonianza di Platone, il quale, nelle meravigliose sue Leggi, dimostra il potere che ha la fortuna nel governo delle cose umane, e, ciò che per Giuliano è ancora più grave, ci insegna per mezzo di un mito, che l'uomo preposto a regger i popoli deve cercare di avvicinarsi alla virtù di un Dio. Dopo di aver citato il testo platonico, Giuliano esclama: «Or dunque che ci dice questo testo integralmente riprodotto? Ci dice che un re, sebbene, per natura, sia un uomo, deve diventare, per sua volontà, un essere divino, un demone, gittando via tutto quanto ha di selvaggio e di mortale nell'anima, fuor di ciò che è necessario alla conservazione del corpo. Or se un uomo, pensando a ciò, trema nel vedersi trascinato ad una vita siffatta, ti pare che di costui possa dirsi che non desidera che l'ozio epicureo, e i giardini e il sobborgo d'Atene, e i mirteti e la casetta di Socrate?»388. Con una punta di giusto risentimento verso il maestro Giuliano esclama: — Giammai mi si vide preferire questi agi alle fatiche — e rammenta l'angustia della sua giovinezza tribolata, e le lettere che mandava a Temistio, quando, a Milano, prima di partire per la Grecia, egli era esposto, pei sospetti di Costanzo, a supremi pericoli, lettere che «non erano piene di lamenti, e che non rivelavano nè piccolezza d'animo, nè avvilimento, nè mancanza di dignità». Se non che, non è sola la testimonianza di Platone che rende esitante e pauroso il giovane imperatore. C'è anche Aristotele, che si accorda con Platone nel chiarire le grandi ed insuperabili difficoltà che si trovano nel governo dei popoli, e che ritiene, lui pure, il compito superiore alle forze della natura umana389. E, dopo aver riprodotto e commentato il testo di Aristotele, Giuliano continua: — «Per tutti questi timori, io più volte mi lascio andare a lodar la mia vita di prima. E la colpa è tua, non già perchè mi hai posto a modello uomini illustri, Solone, Licurgo, Pittaco, ma perchè mi consigli a portar fuori la mia filosofia dalle pareti domestiche a cielo scoperto. Sarebbe come se ad uno, che, in causa della malferma salute, si esercita, a stento, un pochino in casa, tu dicessi: — Ora, tu sei giunto ad Olimpia, e tu passi, dalla palestra domestica, nello stadio di Giove, dove avrai spettatori i Greci convenuti d'ogni parte, e primi fra gli altri i tuoi concittadini, di cui devi esser campione, ed alcuni dei barbari che tu devi riempire di stupore, onde render loro più temuta la tua patria. — Certo ciò varrebbe a togliergli il coraggio ed a renderlo tremante prima della gara. Ebbene, con le tue parole, tu ora mi hai reso tale. E se io ho rettamente giudicato di tutto ciò, e se in qualche parte mancherò al mio dovere, o se sbaglierò completamente, ben presto me lo dirai».

Dopo aver così risposto, con dignitosa modestia, ai rimproveri di Temistio che lo accusava di tiepidezza, Giuliano, nel chiudere la sua lettera, non lascia senza confutazione una delle affermazioni con cui il maestro aveva cercato di richiamare il discepolo alla coscienza del suo dovere, e, più ancora, all'amore della iniziata impresa. Temistio, pare, gli aveva scritto che la vita d'azione è preferibile e più onorevole della vita contemplativa e che, pertanto, egli doveva esser lieto di trovarsi in una posizione nella quale gli era necessaria un'azione perenne. Giuliano, con un accento in cui si sente il rimpianto di un ideale perduto, risponde: «O caro capo, degno di tutta la mia venerazione, io voglio parlarti di un altro argomento intorno al quale la tua lettera mi ha lasciato incerto e turbato. Io desidero di esser istrutto anche di ciò. Tu dici che la vita attiva è più meritevole di lode della vita del filosofo, e chiami in testimonio Aristotele»390. Ma Giuliano sostiene che il testo di Aristotele non dice affatto ciò che Temistio vuol cavarne, poichè Aristotele parla bensì dei legislatori e dei filosofi politici e, in genere, di quelli che fanno puramente un lavoro mentale, ma non già degli uomini lunatici, e molto meno dei re. Sì, dice Giuliano, gli uomini più felici e più benefici sono i pensatori, e la loro gloria è ben maggiore di quella dei conquistatori. «Io dico che il figlio di Sofronisco ha compiuto cose ben più grandi di Alessandro... Chi mai fu salvato dalle vittorie di Alessandro? Quale città per lui fu meglio governata? Quale uomo diventato migliore? Ne troveresti molti che per lui sono diventati più ricchi, nessuno diventato più sapiente e più assennato, se pur non è diventato più vano e superbo. Ma tutti coloro che ora si salvano per virtù della filosofia, si possono dire salvati da Socrate»391. Il filosofo, conclude Giuliano, invocando, con figliale riverenza, ad esempio la vita stessa di Temistio, confermando con gli atti i suoi insegnamenti, e mostrandosi tale quale vorrebbe fossero gli altri, è assai più efficace e più utile consigliere delle belle azioni di colui che le impone coi decreti e con le leggi.

Per sentire quanto v'ha di strano e di interessante in queste considerazioni e in quest'aspirazione alla vita tranquilla e serena del filosofo, dobbiamo ricordare che ci vengono da un uomo il quale si era accinto alla più arrischiata delle imprese, un uomo che, dal fondo della Gallia, era venuto, con una piccola schiera, ai Balcani, onde strappare al cugino Costanzo la corona imperiale. Come mai un uomo siffatto, appena raggiunto lo scopo, si abbandonava allo scoraggiamento, al desiderio di solitudine studiosa? Certo, nè Giulio Cesare, passato il Rubicone, nè Bonaparte, dopo il 18 brumajo, si sarebbero espressi come Giuliano. Che vi sia, nella lettera a Temistio, come in tutti gli scritti di Giuliano, una parte la quale non è che un esercizio scolastico non lo si potrebbe negare. Ma, pure, chi legge questa lettera sente che la tesi non è inventata a freddo, e riproduce veramente una data condizione di spirito. Giuliano era essenzialmente un'anima contemplativa. Non era un ambizioso; non fu il desiderio del potere che lo spinse alla sua perigliosa avventura. Se non ci fosse stato un movente d'ordine ben diverso, egli forse non si sarebbe mosso dalla Gallia, e non avrebbe accettata, dai suoi soldati, la dignità imperiale. La sua condotta, in Antiochia, non fu quella di un uomo smanioso dell'applauso, amante di popolarità, desideroso di allargare e di consolidare la sua base, ma quella, bensì, di un uomo invasato di un'idea. Quest'idea, la cui realizzazione gli si imponeva come un dovere, lo aveva mosso ad assumere una parte che non era in rispondenza alle aspirazioni del suo animo, all'imagine di felicità che gli brillava nella mente ansiosa di studio, nella fantasia allucinata da mistiche aspirazioni. Egli si considerava lo strumento necessario ad un determinato programma, la restaurazione dell'Ellenismo, che per lui voleva dire la restaurazione della saggezza e della virtù. Vedemmo, nell'allegoria del discorso contro Eraclio,392 come questo programma fosse per lui l'espressione di un ordine divino, come egli attribuisse al volere degli dei e la salvezza sua e la designazione all'autorità imperiale. Ed egli, certamente, credeva in tutto ciò. Giuliano era propriamente esaltato nel suo ideale e pronto a dedicargli tutte le forze dell'ingegno e della volontà. Un gruppo d'uomini illustri, Sallustio, Massimo, Giamblico, Temistio, Libanio, vedeva in lui la sola speranza di salvezza dalla marea crescente di Cristianesimo e di barbarie che minacciava di tutto travolgere, e lo eccitava, lo spronava, temeva solo ch'egli non si mostrasse abbastanza ardente nell'azione, e non esitava a rimproverare di mollezza, lui, l'eroe di Strasburgo, il generale infaticato, il sapiente amministratore. E non è senza un lieve sentimento di amarezza verso gli amici ed insieme di modesta e generosa dignità ch'egli così chiude la sua lettera a Temistio: «Il riassunto di questa mia lettera che è diventata più lunga di quanto doveva è questo: — non è già perchè io fugga la fatica, o corra dietro al piacere ed all'ozio, o ami l'agiatezza che io mi lagno della vita politica. Ma, come dissi cominciando, io so di non aver nè l'educazione adatta, nè l'attitudine naturale, e di più ho il timore di far torto alla filosofia che, pur tanto amando, io non acquistai, e che, già d'altronde, non è onorata dai nostri contemporanei. Io già vi scrissi tutto ciò, ed ora respingo i vostri rimproveri, con tutta la forza. Iddio mi conceda buona fortuna ed una saggezza degna della fortuna! Ma io sento d'aver bisogno d'essere aiutato prima di tutto dall'Onnipotente e poi con ogni mezzo, da voi, o cultori della filosofia, ora che io son chiamato a guidarvi e che per voi corro il cimento. Che se Dio prepara agli uomini, per mezzo mio, qualche bene più grande di quanto darebbe la mia educazione e l'opinione che io ho di me stesso, voi non dovete irritarvi per le mie parole. Io ho la coscienza di non aver altra buona qualità se non quella di non credere di essere un grand'uomo non essendolo, e, quindi, vi supplico e vi scongiuro di non chieder a me grandi cose, ma di affidar tutto a Dio. Così io non sarò responsale delle mancanze, e, nei felici momenti, sarò saggio e temperato, non attribuendo a mio merito le opere altrui. Facendo risalire, come è giusto, ogni cosa a Dio, gli mostrerò la mia gratitudine come a voi consiglio di mostrargli la vostra».

La lettera a Temistio è un documento altamente onorevole per Giuliano, è una prova parlante della modestia e della serena tranquillità d'animo e di giudizio del giovane imperatore. Non meno interessante e adatta a rivelare la gentilezza del carattere di Giuliano, è l'altra lettera, da lui diretta a Sallustio, per dirgli tutto il suo dolore nel vederlo partire e per cercare qualche ragione di coraggio e di conforto. Sallustio è il più insigne ed il più saggio degli uomini che Costanzo aveva messo intorno al Cesare che andava a rappresentarlo nella Gallia, ed il solo in cui Giuliano avesse piena fiducia, perchè lo sentiva veramente amico. Ma, conosciuti i rapidi e grandi successi, ottenuti da Giuliano, il perfido Costanzo deliberò di richiamarlo, perchè, come ci dice Giuliano stesso, nel manifesto agli Ateniesi, per la sua stessa virtù gli era divenuto sospetto393. E lo storico Zosimo aggrava l'accusa, affermando che il movente di Costanzo era stata l'invidia degli allori guerreschi raccolti dal cugino per aver seguiti gli insegnamenti del sapiente consigliere394. Comunque sia la cosa, il fatto è che Giuliano sentì acerbamente la ferita del distacco, non interruppe mai le sue relazioni coll'amico lontano, e quando fu sul punto di abbandonare la Gallia per correre ad affrontare Costanzo, lo richiamò per affidargli il governo e la difesa di quella grande provincia. Quanta e quale fosse la sicurezza del criterio di Sallustio, ci appare mirabilmente nel fatto ch'egli solo comprese la follia ed il pericolo della spedizione di Persia, ed all'imperatore che si era mosso per l'infausta impresa, scriveva per scongiurarlo di fermarsi e di non correre alla rovina395.

Nella lettera di commiato che Giuliano scrive all'amico il quale, in obbedienza al volere di Costanzo, sta per abbandonarlo, c'è, come negli altri scritti, una larga dose di quella retorica scolastica, che era l'ingrediente uggioso per noi, ma indispensabile della letteratura della decadenza ellenica. Ma, insieme, c'è l'espressione di un affetto profondo e vero, e di una raffinatezza di sentimento e di coltura che ci dimostra come la consorteria — per usare una brutta parola moderna — ellenistica che circondava Giuliano rappresentasse una selezione nella società già mezzo barbarica del secolo quarto, e trovasse, in questa stessa sua condizione di aristocratico intellettualismo, una ragione di esistere.

Giuliano comincia la sua lettera con parole affettuose, ed esprime il pensiero che le disgrazie, sopportate con coraggio, trovano il rimedio in sè stesse, perchè danno vigore al carattere dell'uomo. «Dicono i saggi che anche i più tristi degli avvenimenti recano a chi ha intelletto un benefizio che è più grande del male. Così l'ape, dall'erba più acre che cresce intorno all'Imetto, assorbe un dolce succo, e ne compone il miele. E noi vediamo che, ai corpi naturalmente sani e robusti, abituati a nutrirsi comecchessia, i cibi più aspri, talvolta, non solo sono innocui, ma son causa di forza, mentre ai corpi delicati, per natura e per abitudine, e malaticci per tutta la vita, anche i cibi più leggieri arrecano sovente gravissimi mali. Ora, dunque, coloro che hanno cura del loro carattere, così da non averlo del tutto infermo, ma moderatamente sano, se anche non potranno aver la forza di Antistene e di Socrate, il coraggio di Callistene, l'impassibilità di Polemone, sapranno però tenere una via di mezzo, e trovare un conforto anche nelle più tristi congiunture»396.

Fin qui ha parlato il retore. Ora, entra in scena l'amico che, con accento di sincera commozione, esclama: «Ma, se io mi esamino, per constatare come sopporto e sopporterò la tua partenza, sento di essere tanto addolorato, quanto lo fui la prima volta ch'io dovetti abbandonare il mio educatore. Poichè, in un attimo, ecco di tutto mi ritorna la memoria, della comunanza dei travagli, che, a vicenda, insieme sostenemmo, della semplice e pura consuetudine, della schietta e saggia conversazione, della nostra associazione in ogni bella impresa, del nostro eguale ed inflessibile aborrimento dei malvagi, così che noi vivemmo, vicini l'uno all'altro, nell'eguale disposizione d'animo, amici uniti nei costumi e nei desideri. E, insieme a tutto ciò, mi ritorna in mente il verso d'Omero — Abbandonato era Ulisse.... — Poichè io ora sono paragonabile a costui, ora che Dio ti ha sottratto, come già fece con Ettore, fuori dai dardi, che i calunniatori gittavano contro di te, dirò meglio contro di me, perchè essi, in te volevano ferirmi ben sapendo che io era vulnerabile solo nel caso che riuscissero a privarmi della compagnia del fidato amico, del coraggioso commilitone, del sicuro collega nel pericolo. Ma io credo che tu soffra non meno di me, appunto perchè tu ora partecipi meno alle fatiche ed ai pericoli, e, per ciò, temi di più per questo mio capo. Il pensiero delle cose tue non veniva, per me, secondo a quello delle cose mie, ed io sapeva che tu ti confortavi in egual modo con me. E, pertanto, io mi addoloro assai, perchè a te che, per ogni rispetto, potevi dire — io non ho pensieri, tutto mi va bene — io solo sia causa di dolore e inquietudine»397.

Giuliano, citando un detto di Platone, insiste sulla difficoltà in cui verrà a trovarsi, di dover governare, senz'amici intorno. Poi continua: «Ma non è già solo per l'aiuto che a vicenda ci davamo nel governo, e che ci rendeva facile il resistere a quanto si faceva contro di noi dalla sorte e dagli avversari, ma bensì per la minacciata mancanza d'ogni conforto e diletto che io sento dilaniarmi il cuore. A qual'altro benevolo amico mi sarà dato di rivolgere lo sguardo? Di qual'altro procurarmi la sincera e pura intimità? Chi ci consiglierà con saggezza, ci rimbrotterà con benevolenza, ci spingerà al bello e al buono senza arroganza ed alterigia, ci esorterà, levando l'amaro dalla parola, come si toglie alle medicine ciò che hanno di troppo aspro, e si lascia ciò che hanno di utile? Tutto ciò io raccoglieva dalla tua amicizia. E, privato come sono di tanto bene, quali ragionamenti varranno a persuadermi, ora che son quasi per esalare l'anima nel desiderio di te e della tua affettuosa saggezza, a non vacillare ed a sopportare coraggiosamente ciò che Dio mi ha imposto?»398.

Giuliano, per cercar delle ragioni di conforto per lui e per Sallustio, si rivolge agli esempi degli antichi, e ricorda Scipione, Catone, Pitagora, Platone, Democrito, che tutti sopportarono con rassegnazione l'assenza degli amici. Poi, con un movimento che è proprio tutto retorico, pone in bocca a Pericle, il quale, partendo per la spedizione di Samo, dovette rinunciare alla compagnia di Anassagora, sebbene, anche lontano, continuasse a governarsi coi suoi consigli, un artifizioso discorso, di cui egli vuole applicare al caso proprio i lunghi ragionamenti. Chiuso lo scolastico discorso, così continua:

«Con tali alti pensieri, Pericle, uomo magnanimo, liberamente cresciuto in libera città, ammoniva la sua anima. Io, nato dagli uomini presenti, conforto e guido me stesso con argomenti più umani. E cerco di attenuare l'amarezza del dolore, sforzandomi di adattare qualche conforto ad ognuna delle imagini tristi e dolorose che mi cadono davanti dalla realtà delle cose»399.

E con arguta finezza continua: «Il primo di tutti i guai che mi si presentano alla mente è che, d'ora innanzi, io sarò lasciato solo, privo di ideale compagnia, e di liberi ritrovi, poichè non vi ha nessuno con cui io possa conversare con piena fiducia. Ma non mi è forse facile conversare con me stesso? O, forse, vi sarà qualcuno che mi porterà via anche il pensiero, e mi obbligherà a pensare e ad ammirare contro mia volontà? Ciò sarebbe meraviglioso come lo scrivere sull'acqua, il cuocere una pietra, o lo scoprir l'orma dell'ala dei volanti uccelli. Ebbene, dal momento che nessuno ci potrà privare di ciò, troviamoci sempre insieme, dentro di noi, e Dio ci aiuterà. Poichè non è possibile che un uomo, il quale si affida all'Onnipotente, sia affatto trascurato ed abbandonato. Che anzi Dio gli tiene sopra le mani e gli infonde coraggio, gli ispira la forza, gli suggerisce ciò che deve fare e lo distoglie da ciò che non deve. Così la voce del demone seguiva Socrate e gli vietava di far ciò che non doveva. E Omero, parlando d'Achille, esclama — gli pose nella mente — indicando il Dio che sveglia i nostri pensieri, quando la mente, rivolgendosi sopra sè stessa, si immedesima con Dio, senza che nulla lo possa impedire. Poichè la mente non ha bisogno dell'orecchio per imparare, nè Dio della voce per insegnare; così che la comunicazione dell'Onnipotente con lo spirito avviene all'infuori di ogni sensazione.... Se dunque noi possiamo confidare che Dio sarà presso di noi, e che noi saremo uniti nello spirito, toglieremo al nostro dolore la sua intensità».

Dopo queste belle parole dettate da un spiritualismo così puro e sublime, Giuliano si diverte a seminar la sua lettera di fiori retorici raccolti nelle reminiscenze omeriche, e poi così la chiude:

«Mi giunge una voce che tu non sarai mandato solamente in Illiria, ma in Tracia, presso i Greci che abitano intorno al mare, fra i quali nato e cresciuto, io appresi ad amare vivamente gli uomini, i paesi e le città. E, forse, nelle anime loro non si estinse ancora del tutto l'amore per noi, e, tu giungendo, sarai accolto con gran festa, e darai loro in ricambio ciò di cui qui ci hai lasciati privi. Ma io non lo desidero e vorrei piuttosto che tu ritornassi presto presso di noi. Ma, per ogni evenienza, io voglio essere non impreparato e senza conforto, ed è per ciò che io mi rallegro con essi che ti vedranno venire, dopo avermi lasciato. Se mi confronto con te, io mi metto fra i Celti, con te, che sei, fra i primi dei Greci, insigne per equità e per ogni virtù, al vertice della retorica, non imperito della filosofia, di cui solo i Greci penetrarono le parti più ardue, inseguendo col ragionamento il vero e non permettendoci di applicarci a miti incredibili ed a prodigi paradossali, come pur fa la maggior parte dei barbari. Ma, comunque ciò sia, non insisto più oltre. Te, poichè ormai io devo congedarti con parole di augurio, te guidi, dovunque tu debba andare, un dio benigno. Il dio degli ospiti ti accolga, e il dio degli amici ti guidi sicuramente sulla terra. Se tu devi navigare, ti si appianino i flutti. Che tu apparisca a tutti amabile ed onorato; che tu possa destar la gioia con la tua venuta, ed il dolore con la tua partenza. Che Dio ti renda benevolo l'imperatore, e ti conceda ogni cosa secondo ragione, e ti prepari un ritorno a noi sicuro e pronto!

«Di questo io prego Dio per te, insieme a tutti gli uomini buoni e saggi, e soggiungo — Salve e vivi lieto, ed a te concedano gli Dei ogni bene ed il ritorno alla tua casa, nella diletta terra paterna»400.

Giuliano portava, nei suoi affetti, l'entusiasmo di un'anima infervorata in alti ideali. Coloro che militavano nel suo campo, che erano partecipi dei suoi propositi, delle sue speranze, delle sue illusioni ricevevano da lui una specie di culto.

L'entusiasmo di Giuliano, di cui vedemmo tante prove negli scritti di lui che abbiamo citati, si manifesta nell'ammirazione illimitata, ardente, iperbolica ch'egli sente pei suoi maestri, la quale lo trascinava ad atti che a molti de' suoi stessi amici parevano sconvenienti alla dignità dell'imperatore. Narra Ammiano Marcellino401 che un giorno, sedendo Giuliano nel tribunale di Costantinopoli, gli si annunciò essere giunto dall'Asia il filosofo Massimo. A tale annuncio, l'imperatore balzò in piedi indecorosamente, e, dimenticando ogni cosa, e la causa stessa che stava giudicando, corse fuori del palazzo, impaziente di incontrarsi col filosofo. Trovatolo, lo abbracciava, lo baciava, e con lui riverentemente ritornava nell'aula. L'onesto Ammiano, che non partecipava alle mistiche aspirazioni del suo imperatore, vede in quest'omaggio eccessivo pubblicamente reso al filosofo una deplorevole ostentazione e il desiderio di vana gloria. Ben diverso è il giudizio di Libanio. Egli ammira, senza restrizione alcuna, l'atto di Giuliano. Narra Libanio che Giuliano aveva ripreso l'uso di prender parte alle riunioni del tribunale, uso che Costanzo aveva abbandonato, perchè non era oratore, mentre Giuliano poteva rivaleggiare per l'eloquenza con Nestore ed Ulisse. L'imperatore stava, dunque, un giorno, tutto intento al suo ufficio, quando gli si annuncia l'arrivo di Massimo. «Alzandosi, in mezzo ai giudici, Giuliano corre alla porta, provando la medesima impressione di Cherefonte alla venuta di Socrate. Ma Cherefonte era Cherefonte e si trovava nella palestra, Giuliano era il padrone del mondo ed era nel tribunale supremo. Così egli dimostrava come la sapienza sia assai più degna di rispetto della potestà regia, e come tutto ciò che, in questa, c'è di buono è un dono della filosofia. Accogliendolo ed abbracciandolo come è costume dei privati fra di loro, o dei re pur fra di loro, lo introdusse nel tribunale, sebbene non ne facesse parte, credendo, in tal modo, di onorare, non già l'uomo col luogo, ma il luogo coll'uomo. Giuliano, in mezzo a tutti, narrava in quale uomo egli si fosse trasformato, e da quale altro, per mezzo di colui; poi, tenendolo per mano, se ne andò. Perchè ha fatto questo? Non solo, come alcuno potrebbe supporre, per rendere a Massimo il contraccambio della educazione ricevuta, ma, anche, per invitare ad educarsi tutti, e giovani e vecchi, poichè, ciò che dal Sovrano è disprezzato, è trascurato da tutti, ma ciò che da lui è onorato è da tutti seguito»402. Ammiano e Libanio partivano, nei loro giudizi, da punti di vista opposti, e non avevano torto nè l'uno nè l'altro. Ammiano, col suo buon senso d'impiegato onesto, deplorava tutto ciò che poteva diminuire la dignità apparente del principe; Libanio, ellenista fervente, ammirava l'omaggio reso dall'imperatore all'ideale filosofico a cui si ispirava il rinascimento del Politeismo. Ma Ammiano, il quale, praticamente, vedeva assai meglio di Libanio, s'ingannava quando supponeva che, nell'atto di Giuliano, ci fosse ostentazione.

Nella personalità paradossale di Giuliano le più opposte tendenze si trovavano riunite, senza escludersi a vicenda, e sinceramente si manifestavano, a seconda dei casi e degli eventi del momento. Il neoplatonico fervente era schietto, quando, all'annuncio dell'arrivo del venerato maestro, dimenticava di essere imperatore. Le sue lettere sono riboccanti di espressioni di ardente ammirazione per quei filosofi che lo avevano iniziato ai misteri dell'Ellenismo rigenerato. Fra queste lettere le più entusiastiche sono quelle dirette a Giamblico403.

Pare che Giamblico scrivesse a Giuliano per rimproverarlo della rarità delle sue lettere. Il principe risponde che, se anche il rimprovero fosse meritato, la ragione della sua colpa è tutta nella naturale timidezza che lo prende al pensiero di corrispondere con un tanto uomo, ed esclama: «O generoso, tu che sei il salvatore riconosciuto dell'Ellenismo, tu devi scrivere a noi senza risparmio, e scusare, per quanto è possibile, la nostra esitanza. Poichè come il Sole, quando lampeggia coi puri suoi raggi, opera secondo sua natura, senza far distinzione di chi viene sotto la sua luce, così tu, inondando di luce il mondo ellenico, devi, senza risparmio, largire i tuoi tesori, se anche taluno, o per timore o per rispetto, non ti rende il contraccambio. Anche Esculapio non guarisce gli uomini per la speranza della ricompensa, ma adempie dovunque il mandato filantropico che gli è naturale. Ciò devi far tu pure che sei medico delle anime e delle menti, onde salvare, in ogni modo, l'insegnamento della virtù, simile ad un buon arciero, il quale anche se non ha davanti a sè l'avversarlo, esercita, per ogni evento, la mano. Certo non è eguale il risultato per noi e per te, per noi quando riceviamo i tuoi colpi maestri, per te, quando, per caso, ti arrivano quelli che sono mandati da noi. Se anche scrivessimo mille e mille volte, sarebbe un gioco come di quei fanciulli omerici che, sul lido, lasciano che si distrugga ciò che essi hanno costrutto col fango. Ma ogni tua piccola parola è più efficace di qualsiasi corrente fecondatrice, ed a me sarebbe più caro ricevere una sola lettera di Giamblico che tutto l'oro di Lidia. Se hai un po' d'affetto per chi ti ama — e lo hai, se non m'inganno — guarda che noi siamo simili ai pulcini sempre bisognosi del cibo che tu rechi loro, e scrivici di continuo, e non indugia ad alimentarci delle tue virtù»404.

Vediamo quest'altro sfogo di entusiasmo, nel ricevere una lettera del filosofo «..... io sono con te anche se sei assente e ti veggo coll'anima come se tu fossi presente, e nulla può rendermi satollo di te. Tu non cessi dal beneficare i presenti, e, gli assenti, a cui scrivi, li rallegri e li salvi insieme. Infatti, quando testè mi si annunciò esser giunto un amico apportatore di tue lettere, io era, da tre giorni, malato di stomaco, e mi doleva tutto il corpo, così da non poter liberarmi della febbre. Ma, come dissi, appena mi si annunciò che, fuori della porta, v'era chi recava la tua lettera, balzando in piedi, come uno che non fosse più padrone di sè stesso, uscii prima che giungesse. E appena io ebbi nelle mani la lettera, lo giuro per gli dei e per quello stesso affetto che a te mi lega, sull'istante fuggirono tutti i miei dolori, e la febbre, quasi atterrita dall'invitta presenza del salvatore, tosto scomparve. Quando poi, aperta la lettera, la lessi, imagina lo stato dell'anima mia e la pienezza del mio piacere! Io ringraziava e baciava quel carissimo spirito, come tu lo chiami, quel veramente amorevole ministro delle tue virtù, pel cui mezzo io aveva ricevuto i tuoi scritti. Simile ad augello, spinto dal soffio di un venticello propizio, egli mi aveva portato una lettera, la quale non solo mi procurava il piacere di avere le tue notizie, ma anche mi sollevava dai miei mali. Potrei, forse, dire tutto ciò che io provai, leggendo quella lettera? Troverei parole sufficienti ad esprimere il mio amore? Quante volte dal mezzo ritornai al principio? Quante volte temetti di dimenticare ciò che vi aveva appreso? Quante volte, come nel giro di una strofa, io univa la conclusione al principio, ripetendo, come in un canto, alla fine del ritmo, la melodia del principio! Quante volte portava la lettera alle labbra, come una madre che bacia il figlio! Quante volte le fui sopra con la bocca, come se abbracciassi la più cara delle amanti! Quante volte, baciandola, ho parlato e guardato alla soprascritta che portava, come un profondo suggello, la traccia della tua mano, quasi per trovare nella forma delle lettere l'impronta delle dita della tua santa destra!... E, se mai Giove mi concedesse di ritornare al patrio suolo, e io potessi venire al tuo sacro focolare, tu non dovrai risparmiarmi, ma mi legherai, come un fuggitivo, ai tuoi banchi amati, trattandomi come un disertore delle Muse, e correggendomi coi castighi. Ed io non subirò di mala voglia la pena, ma con animo grato, come la correzione provvidenziale e salvatrice di un buon padre. Che se tu volessi affidarti al giudizio che io farei di me stesso, e mi concedessi di agire come voglio, o uomo insigne, sarebbe per me una grande dolcezza l'attaccarmi alla tua tunica, e così non ti lascerei mai, per nessuna ragione, ma sarei sempre con te e verrei teco dovunque, come quegli uomini doppi che sono descritti nelle favole. E le favole, probabilmente, in quei racconti, pare quasi che scherzino, ma, in realtà, accennano a ciò che ha di più sublime l'amicizia, figurando, nel legame dell'unione, l'omogeneità delle anime dell'uno e dell'altro»405.

Per quanto risuoni nelle frasi ardenti di questa lettera un po' di esaltamento fittizio, è impossibile non udirvi l'eco di un sentimento vero. Nessun principe ha mai scritto ad un professore di filosofia ciò che Giuliano scrive ai suoi maestri. Giuliano si trovava, davanti all'Ellenismo, press'a poco nella posizione dei primi cristiani, quando s'infervoravano per un'idea che vedevano divisa e compresa da pochi. Era un vero apostolato ch'egli intendeva di esercitare, un apostolato in cui erano interessate le sorti dell'umanità, e, pertanto, egli sentiva per coloro che erano per lui gli iniziatori, i campioni di un grande movimento di restaurazione religiosa e di riforma dei costumi, un senso di venerazione che faceva impallidire e piegava al suolo la sua dignità d'imperatore. Giuliano era un santo dell'Ellenismo, e non avrebbe esitato un istante a correre al martirio e ad incontrare festosamente, da quell'eroe ch'egli era, la morte. Egli, pertanto, come tutti i santi, godeva nell'umiliarsi davanti alla grandezza ideale degli annunciatori di quel principio di fede in cui sentiva rigenerarsi lo spirito suo. Certo, fa un senso curioso il veder tanto fervore di devozione pei maestri di un Neoplatonismo superstizioso che già tanto era traviato dal puro panteismo del grande Plotino. Ma, in primo luogo, noi vedemmo come il Neoplatonismo, nella mancanza di una figura divina e di un culto determinato, dovesse necessariamente corrompersi e decadere in un simbolismo grossolano e confuso. In secondo luogo, non dobbiamo dimenticare che Giuliano era un giovane entusiasta, un letterato colto ed innamorato dell'antica civiltà, non era un pensatore preciso e profondo. Le confuse creazioni dei neoplatonici del suo tempo facevano facilmente presa sulla sua eccitabile fantasia. D'altronde, ciò che propriamente stava a cuore di Giuliano era l'Ellenismo, la restaurazione e la conservazione delle discipline, dei costumi, delle lettere, delle arti che avevano fatto l'ornamento e lo splendore del mondo greco. Il suo entusiasmo pel Neoplatonismo era un entusiasmo di secondo grado. Giuliano era un neoplatonico fervente perchè era un fervente ellenista. Egli vedeva nella religione simbolica del Neoplatonismo il solo possibile surrogato del Cristianesimo invadente. Nella guerra, che muoveva alla nuova potenza distruggitrice della sua materna civiltà, egli sventolava, come un labaro santo, la bandiera dei suoi mistici maestri.

L'entusiasmo di Giuliano, per l'idea a lui diletta e per gli uomini che la rappresentavano, è l'indizio sicuro della tempra generosa ed eccitabile dell'indole sua. Quest'indole si rivela nella maggior parte delle sue lettere agli amici e si veste di una forma e di uno stile decadente, come or si direbbe, di uno stile, cioè, che riproduce le squisitezze artifiziose di uno spirito, il quale si compiace nell'elaborazione infaticata delle proprie impressioni e dei propri pensieri, e finisce per attenuare, con la sottigliezza dell'ingegno, l'espressione efficace e forte del sentimento. Ma vi era, in Giuliano, scrittore, una grazia che resiste e rivive in mezzo a tutti gli artifizi di stile. Vediamo, per esempio, questi bigliettini ch'egli scriveva a Libanio, un maestro da lui venerato non meno di Giamblico e di Massimo. Libanio gli aveva promesso di mandargli un suo discorso. Ma il discorso non giungeva, e Giuliano gli scrive406:

«Poichè ti sei scordato della promessa (è il terzo giorno e il filosofo Prisco non venne, e mi scrive che indugierà ancora) son qui a rammentarti di pagare il tuo debito. Sì, un debito, ben lo sai, di cui a te sarebbe assai facile fare il pagamento, ed a me dolcissimo il riceverlo. Mandami, dunque, il discorso e i tuoi santi ammonimenti, ma, per Mercurio e le Muse, manda presto, poichè, in questi tre giorni, tu mi hai proprio logorato, se è vero ciò che dice il poeta siciliano, che nell'aspettazione s'invecchia in un giorno. Se ciò è vero, e lo è, tu mi hai triplicata la vecchiaia, o carissimo. Io detto tutto questo, in mezzo alle occupazioni. Non son più capace di scrivere, perchè ho la mano più pigra della lingua, sebbene anche la lingua per mancanza d'esercizio, sia diventata pigra ed impacciata. Stammi bene, o fratello desideratissimo ed amatissimo».

E, ricevuto questo aspettato discorso, l'entusiastico imperatore scrive a Libanio407:

«Ieri lessi gran parte del tuo discorso prima di pranzo. Dopo pranzo ho letto, senza mai fermarmi, il resto. Te felice che puoi così parlare, più felice che puoi così pensare! Che logica, che ingegno, che sintesi, che analisi, che argomentazione, che ordine, che esordî, che stile, che armonia, che composizione!».

E al suo diletto Massimo che dopo aver dimorato, per qualche tempo, presso di lui, aveva voluto lasciarlo, così scrive408: «Il saggio Omero legiferò che dobbiamo accogliere amorevolmente l'ospite che arriva e lasciarlo andare quando vuol partire. Ma, fra noi due, più assai della amorevolezza che viene dai doveri dell'ospitalità, vale quella che deriva dalla ricevuta educazione e dalla pietà verso gli dei, così che nessuno avrebbe potuto accusarmi di trasgredire la legge d'Omero, se io avessi voluto trattenerti più a lungo vicino a me. Se non che, vedendo il tuo corpicciuolo bisognoso di maggior cura, io ti concessi di ritornartene in patria, e provvidi alla comodità del tuo viaggio. Tu potrai dunque servirti della vettura di Stato. Possano viaggiar teco, con Esculapio, tutti gli dei, e ci concedano di ritrovarci insieme».

Quando l'affetto è meno vivo, diventa più artifiziosa e ricercata la frase, come in questo biglietto ad Eugenio409. «Si dice che Dedalo, plasmando ali di cera ad Icaro, osasse coll'arte far violenza alla natura. Io lodo l'arte di colui, pur non ne ammiro il pensiero di affidare l'incolumità del figlio a solubile cera. Ma, se a me fosse lecito, come dice il poeta di Teo, cambiare la mia natura con quella degli uccelli, io non volerei verso l'Olimpo o verso l'amante sospirata, ma alle prime pendici dei vostri monti, onde abbracciar te, o mia cura, come dice Saffo. Ma poichè la natura, avvincendomi coi legami del corpo umano, non vuole che io m'innalzi al cielo, verrò con le ali delle mie parole, e ti scrivo e son con te per quanto io posso. E già, non per altra ragione Omero chiamò alate la parole, se non perchè possono penetrare dovunque, come i più leggieri fra gli uccelli, e posarsi dove loro aggrada. Scrivimi, dunque, tu pure, o amico, poichè tu hai eguali se non più forti l'ali delle parole, con cui tu puoi raggiungere i compagni ed allietarli dovunque, come se fossi presente».

Una lettera commossa è quella diretta all'amico Amerio, il quale gli aveva annunciata la morte della moglie. C'è, in essa uno stoicismo raggentilito e più umano che non fosse quello impassibile e sereno di Epitteto e di Marco Aurelio410.

«Non senza lagrime io lessi la lettera che tu mi scrivesti per la morte della tua consorte, in cui mi esprimevi l'eccesso della tua angoscia. Poichè, oltre all'essere, per sè stesso, un caso ben degno di dolore che una donna giovane, saggia, cara al marito e madre di buoni figliuoli si spenga, prima del tempo, come una fiaccola splendidamente accesa e che, in breve, perde la fiamma, è per me non meno triste il pensiero che questo dolore sia toccato a te. Poichè meno di tutti meritava tale angoscia il nostro buon Amerio, un uomo così saggio ed il dilettissimo fra i nostri amici. Ora, se fosse un altro a cui io dovessi scrivere in una simile congiuntura, mi converrebbe di fare un lungo discorso, per insegnargli che l'evento è umano e che lo si deve sopportare come inevitabile, e che dal troppo piangere nulla si ottiene, e dirgli infine tutto quanto può essere, per un uomo ignorante, conforto al dolore. Ma poichè, rivolgendomi ad un uomo che sa ammaestrare gli altri, mi parrebbe sconveniente tenergli dei discorsi che sarebbero buoni per chi non sa esser saggio, permetti che, lasciando ogni altra considerazione, io ti rammenti il mito e insieme il ragionamento verace di un uomo sapiente, di cui forse tu avrai già notizia, ma che dai più è ignorato. Se tu vorrai usarne, come di un farmaco consolatore, tu troverai un conforto all'angoscia, non meno che nella tazza che, con eguale intento, la donna di Sparta offriva a Telemaco.

«Si narra che Democrito d'Abdera, non riuscendo a trovar parole che valessero a consolare Dario che piangeva la morte della bella sposa, gli promettesse di ricondurre alla luce la dipartita, pur ch'egli volesse procurargli tutte le cose occorrenti. Rispondendogli Dario di non risparmiar nulla di ciò che gli avrebbe reso possibile l'adempimento della promessa, egli, rimasto sospeso per piccolo tempo, soggiungeva di posseder già tutto quello di cui aveva bisogno; una cosa sola ancor gli mancava, che non sapeva dove prendere, ma che Dario, re di tutta l'Asia, avrebbe subito e facilmente trovata. Quale fosse, chiedendogli Dario, questa cosa che al re solo era dato di rintracciare, si dice che Democrito rispondesse che, se egli avesse scritti sulla tomba della moglie i nomi di tre uomini, del tutto esenti da afflizioni, colei subito si sarebbe ravvivata, trasgredendo la legge della morte. Imbarazzato Dario non riusciva a trovar nessuno a cui non fosse toccata qualche sventura; ed allora Democrito, ridendo, come era solito, gli diceva — Perchè dunque, o il più irragionevole degli uomini, ti lagni eccessivamente, come se tu fossi il solo a provar tanta sventura, mentre non puoi trovar neppur uno in tutte le passate generazioni che non abbia mai sofferto qualche domestico dolore? — Ora, si comprende come Dario, uomo barbaro, incolto, dato al piacere ed alla passione, dovesse apprender tutto ciò. Ma tu, che sei Greco e cresciuto con una saggia educazione, devi avere in te stesso la medicina, e, se questa non s'invigorisse col tempo, sarebbe una vergogna per la ragione!».

Giuliano, diventato imperatore, desiderava conservare l'amicizia cogli antichi compagni di studio, ed era lieto quando alcuno di essi gli mostrava l'intenzione di avvicinarsi a lui e di venire alla sua corte. All'amico Basilio che appunto gli aveva scritto per annunciargli la sua venuta, risponde con questa lettera gentile ed incoraggiante:

«Il proverbio dice — Non annunci la guerra, — ed io aggiungo il detto della commedia — tu annunci promesse d'oro. — Orsù, dunque, fa seguire il fatto alle parole, ed affrettati a venire a noi. L'amico riceverà l'amico. La comune e continua occupazione negli affari pare molesta a coloro che non se ne fanno un'abitudine. Ma coloro che hanno comuni le cure diventano premurosi e cortesi e pronti a tutto, come io stesso ne faccio esperienza. Chi mi sta intorno mi agevola il mio compito, così che, non mancando ai miei doveri, io posso anche riposarmi. Ci troviamo insieme, senza l'ipocrisia della Corte, della quale sola credo che finora tu hai fatto l'esperienza, con la cui veste i cortigiani, lodandosi l'un l'altro, si odiano con un odio quale non l'hanno i nemici dichiarati. Noi, invece, pur rimproverandoci e sgridandoci a vicenda, quando bisogna, con la conveniente libertà, ci amiamo come se fossimo intimi amici. Così ci è permesso di lavorare senza sforzo, e di non essere intolleranti del lavoro, e di dormire tranquillamente. Poichè quando io veglio, veglio non tanto per me quanto per gli altri tutti, come è mio dovere. Ma, forse, io ti stordisco di ciance e d'inezie, e faccio una brutta figura, poichè io mi son lodato come Astudamante. Ma ti scrissi tutto ciò, perchè vorrei persuaderti ad approfittare dell'occasione per renderti utile a me, con la tua presenza, da quell'uomo saggio che sei. Affrettati dunque e serviti del corriere di Stato. Quando avrai passato presso di noi tutto il tempo che ti piacerà, tu potrai andare, licenziandoti da noi, dove meglio ti parrà»411.

Graziosissima e singolarmente interessante è la lettera412 con cui Giuliano fa dono all'amico Evarghio di un suo campicello.

«Io pongo a tua disposizione e ti dono un piccolo podere di quattro campi che ebbi, in Bitinia, dalla mia nonna, certo non sufficiente perchè un uomo, possedendolo, creda di aver acquistato qualche cosa di grande e ne vada superbo; ma il dono non deve riuscirti del tutto sgradito, se mi lasci dirne ad uno ad uno i pregi. Posso ben scherzare con te che sei pieno di grazia e di spirito. Dista dal mare non più di venti stadi, e nessun mercante e nessun nocchiero, con le ciarle e con la prepotenza, disturba il paesaggio. Ma non mancano, per questo, i favori di Nereo; ha pesci freschi e ancor tremolanti, e, da un colle, poco lontano dalla casa, vedrai il mare della Propontide, e le isole, e la città che ha il nome del grande imperatore; non porrai il piede sui fuchi e sulle alghe, nè avrai il disgusto dei rifiuti schifosi gittati dal mare sul lido e sulla sabbia e delle innominabili sozzure, ma intorno a te saranno alberi sempre verdi e timo ed erbe fragranti. Ah, che pace il giacere colà, leggicchiando un libro, e poi riposare la vista nel giocondo spettacolo delle navi e del mare! Quando io era giovanetto, quel podere mi era carissimo, perchè ha limpide sorgenti, ed un bagno delizioso, ed un orto ed alberi. Diventato uomo, sentii desiderio dell'antico soggiorno, e vi venni più volte, e con ragione. Vi ha là anche un ricordo piccino della mia sapienza d'agricoltore, un breve vigneto, che dà un vino odoroso e dolce che non ha bisogno del tempo per acquistar pregio. Vedrai Bacco e le Grazie. Il grappolo ancor sul ceppo, o premuto nel torchio, odora di rosa, ed il mosto nei vasi, a dirla con Omero, è un estratto di nettare. Ah, perchè mai questo vigneto non ha maggiore ampiezza? Forse io non fui un agricoltore previdente. Ma siccome io son sobrio col bicchiere di Bacco, e mi piacciono assai più le Ninfe, così ne preparai appena quanto bastasse per me e per gli amici — merce sempre scarsa fra gli uomini. — Questo è il mio dono per te, o caro capo. È piccolo, ma sarà gradito venendo ad un amico da un amico, ed alla casa dalla casa, come dice il saggio poeta Pindaro. Scrissi questa lettera, in tutta fretta, alla luce della lampada. Se vi trovi qualche errore, non, rimproverarmi acerbamente, nè da retore a retore».

Questa lettera è un piccolo capolavoro. Vibra, in essa un sentimento della natura, rarissimo fra gli antichi, e qualche cosa di squisito che non può esser proprio che di un'anima aperta alle più vaghe impressioni. Quanti pensieri saran passati per la mente del giovanetto meditabondo che, dal colle solitario, fra una pagina e l'altra d'Omero, guardava il mare, le navi e la lontana Costantinopoli! Quest'ultimo figlio della Grecia risentiva in sè tutto l'incanto della civiltà e del pensiero ellenico che una religione nemica, la religione dei suoi persecutori, voleva annientare, ed egli sognava di conservarla, quella civiltà, di farla rivivere, di salvare gli Dei che i suoi poeti divinamente avevano cantati, e che tanta gloria avevan data ad un mondo che oggi li ripudiava!

Noi vediamo, dunque, come, in mezzo alle sue tempestose vicende, l'animo di Giuliano sapesse conservarsi sereno ed aperto a tutte le impressioni della natura e dell'arte. Egli si studiava di agire, in ogni cosa, razionalmente, e credeva di riuscire nei suoi sforzi per serbarsi esente di ogni impulso passionale. I suoi consigli sono sempre ispirati alla più pura saggezza. Ad un amico egli scrive413: «Ci compiacciamo di sapere che, nella condotta degli affari, tu cerchi di conciliare il rigore con la dolcezza. Poichè l'unire la dolcezza e la temperanza alla fermezza ed alla forza, ed usare di quella coi docili, di questa coi malvagi per la loro correzione, è opera, come io credo, di un'indole e di una virtù non piccola. In vista di questi scopi, noi ti preghiamo di armonizzare l'una cosa e l'altra al solo bene, poichè i più saggi degli antichi giustamente credettero che tale deva essere il fine di tutte le virtù. Possa tu vivere sano e felice più a lungo che sia possibile, o fratello desideratissimo ed amatissimo».

La rettitudine ed il coraggio di Giuliano, così giustamente ammirato da Ammiano e da Libanio, appaiono in tutta luce nella lettera da lui diretta al medico Oribasio, al tempo dei suoi urti con Florenzio, in Gallia, per frenarne gli abusi finanziari. Dopo aver narrato ad Oribasio quel sogno dei due alberi, che già conosciamo,414 Giuliano così continua: «Quanto a quello sciagurato eunuco io vorrei sapere se ha detto di me le cose che mi scrivi, prima di trovarsi con me o dopo. Per ciò che riguarda la sua condotta, è noto che, più volte, mentre egli trattava ingiustamente i provinciali, io tacqui più di quanto sarebbe stato conveniente, non prestando orecchio a questo, non ammettendo quello, non credendo a quest'altro, ed altro ancora mettendo a colpa di coloro che gli stavano intorno. Ma, quando egli volle farmi partecipe della sua turpitudine, mandandomi le sue scellerate e vituperevoli relazioni, che doveva io fare? Tacere o combattere? Il primo partito era stolto, servile ed empio, il secondo giusto e coraggioso, ma non concesso dalle presenti circostanze. Che feci dunque? Alla presenza di molti, che io ben sapeva lo avrebbero ripetuto a lui, esclamai: — Colui dovrà pure rettificare le sue relazioni che sono veramente riprovevoli. — Ebbene, colui, avendo ciò udito, si trattenne dall'agire con saviezza, per modo che, pur essendogli io tanto vicino, fece cose che non avrebbe fatto neppure un tiranno che fosse appena ragionevole. E allora come doveva comportarsi un uomo che seguiva le dottrine di Platone e di Aristotele? Non curarsi dei miseri e lasciarli preda dei ladri, o difenderli con ogni mezzo? Ma a me parrebbe vergognoso che, mentre si condannano a morire e si privano della sepoltura quegli ufficiali che abbandonano le loro schiere, fosse poi lecito di abbandonare le schiere dei poverelli, quando essi devono lottare coi ladri, tanto più avendo dalla nostra parte Dio, che ci diede il nostro posto. E, se mi toccherà di soffrire per questo, io mi sentirò non poco incoraggiato dalla mia buona coscienza. E, se anche dovessi cedere il posto ad un successore, non me ne dorrei, poichè è meglio viver poco ma bene, che molto e male».415.

Ciò che Giuliano qui scrive si attaglia così esattamente a Florenzio ed all'episodio narrato da Libanio che parrebbe non possa sollevarsi alcun dubbio nella identificazione della persona. Ma c'è quell'appellativo di eunuco che non si sa spiegare, perchè Florenzio aveva moglie e figli. Alcuni, pertanto, vedono in questo nemico, di cui parla Giuliano, il cortigiano Eusebio, l'eunuco che spadroneggiava alla corte di Costanzo e che tanto odiava il principe. E imaginano un'ispezione che Eusebio avrebbe fatta in Gallia, per ordine dell'imperatore e che avrebbe dato origine agli urti con Giuliano416. La cosa è possibile, ma affatto fantastica, ed è più ragionevole il supporre che la parola ανδρόγυνος sia qui semplicemente un insulto, senza essere un'indicazione di una condizione reale.

Però, malgrado questa grande saggezza a cui Giuliano cercava di indirizzare la sua vita, egli, come vedemmo nel corso di questo studio, si abbandonava talvolta all'impeto della passione. Nè, certo, può essere ammirata la sua condotta verso i consiglieri di Costanzo all'indomani della sua vittoria, nè giustificata la sua ira contro Atanasio. Nella sua intima corrispondenza noi abbiamo le tracce di desideri sfrenati e di deplorevoli eccessi. Il caso però è curioso e serve ad illuminare la sua figura così complicata e piena di contraddizioni. Giuliano aveva il furore della lettura. Abbiamo visto con quale trasporto egli ringraziasse l'imperatrice Eusebia perchè, sapendolo sprovvisto di libri, al momento in cui da Milano partiva per la Gallia, gli aveva data un'intiera biblioteca. Quando, ad Alessandria, venne assassinato il vescovo Giorgio, l'imperatore diede agli Alessandrini una buona lavata di capo,417 ma poi li lasciò tranquilli, e non è un giudizio temerario il dire che, in fondo, non era stato scontento di un tumulto che pareva sollevato in odio dei Cristiani. Di una sola cosa Giuliano vivamente si preoccupava, ed era di impadronirsi dei libri del vescovo assassinato. In questa sua preoccupazione egli mette una foga che finisce per essere iniqua e crudele. Appena avvenuta la morte di Giorgio, scrive al prefetto d'Egitto418: «Alcuni amano i cavalli, altri gli uccelli, altri le fiere. Io, fin da fanciullo,. non ebbi amore più forte che quello dei libri. Sarebbe, dunque, assurdo che io lasciassi che se ne impadronissero degli uomini, ai quali non basta l'oro per satollare il loro amore della ricchezza e pensano di potermeli portar via facilmente. Mi farai, dunque, un favore speciale, se raccoglierai tutti i libri di Giorgio. Ne aveva molti di filosofia, molti di retorica, molti relativi alla dottrina degli empi Galilei. Questi ultimi, io ben vorrei distruggerli tutti quanti, se non fosse il timore di veder distrutti, insieme ad essi, anche i libri buoni. Tu, dunque, farai di tutti la più minuta ricerca. In questa ricerca ti potrà esser guida il segretario di Giorgio, il quale, se realmente ti porrà sulla traccia, sappia che avrà per premio la libertà. Se poi cercasse d'ingannarti in questo affare, mettilo, senz'altro, alla prova dei tormenti. Io conosco i libri di Giorgio, se non tutti, molti davvero. Me li diede, infatti, quando io era in Cappadocia, per ricopiarli, e poi me li riprese».

Pare che il prefetto d'Egitto, che era quell'infelice Edichio che, poco più tardi, sentì tutta l'ira di Giuliano per non essersi mostrato abbastanza vigoroso contro Atanasio, non riuscisse felicemente nel suo incarico di raccogliere i libri del vescovo assassinato, e che anche la tortura inflitta al segretario non avesse giovato allo scopo. Infatti abbiamo, nell'epistolario, quest'altro bigliettino diretto a Porfirio, probabilmente un impiegato dell'amministrazione egiziana419. «Giorgio aveva una ricca e grande biblioteca. Vi erano libri di filosofia, d'ogni scuola, e molti di storia, e in quantità non minore i libri dei Galilei. Ricercando in fretta questa biblioteca, provvedi a spedirmela ad Antiochia, e ricordati che tu ti esporresti ad un grandissimo castigo, se non ponessi tutta la cura nel rintracciarla, e se non riescissi coi rimproveri, coi giuramenti d'ogni specie, e, se si tratta di schiavi, usando, senza risparmio, la tortura, ad obbligare tutti coloro che sono in sospetto di aver sottratti alcuni di quei libri a venire a riportarteli».

Davvero, per quanto possa parer ammirabile in un uomo, come Giuliano, un sì grande amore dei libri e della coltura, non è giustificabile, in nessun modo, questa violenza di procedimento che lo fa diventare tirannico e crudele. Qui, certo, c'è una grave macchia sul carattere del nostro eroe. Ma è un caso unico, crediamo, questo di un uomo potentissimo e saggio in ogni cosa, che perde la testa al punto di diventar iniquo..... per amore dei libri! Qui, c'è tutto l'uomo, con tutte le sue contraddizioni e con la sua meravigliosa versatilità. Ricordiamo che Giuliano si trovava in Antiochia, dove, in pochi mesi, doveva organizzare l'ardua spedizione di Persia, cosa a cui si applicava con tutta l'intensità di uno spirito nutrito di esperienza militare. Queste gravissime cure non gli impedivano, come vedemmo nel Misobarba, di polemizzare con gli Antiochesi, di occuparsi di infiniti affari religiosi ed amministrativi. Ma, in mezzo a tutte queste preoccupazioni, trovava ancora tanta libertà, tanta serenità di pensiero da sentir il desiderio di aver subito, presso di sè, la biblioteca filosofica del vescovo assassinato. In fondo, egli sarebbe stato più lieto di poter metter le mani su quei volumi, in parte già noti a lui, che gli richiamavano i suoi studi giovanili, di poter svolgere rispettosamente quei papiri che contenevano i tesori della sapienza antica, di scorrere i documenti meno noti della letteratura cristiana, onde combatterne più efficamente la dottrina, sarebbe stato, dico, più lieto di tutto ciò che delle pompe imperiali, e fors'anche, della futura e sperata vittoria contro il re di Persia. Singolare imperatore! Tanto più singolare, perchè le sue manìe di letterato e di erudito non gli toglievano di essere un eroico avventuriero, un grande capitano ed un saggio amministratore.

Se Giuliano non si fosse perduto nella sua utopia religiosa e non fosse corso incontro alla propria rovina, avrebbe saputo ricomporre l'impero sopra la base di un saggio governo e ridargli la prosperità come aveva fatto in Gallia. Nella convivenza che noi abbiamo avuto con lui, nei vari momenti della sua vita e sotto i molteplici aspetti con cui si rivelava, abbiamo avuto la più chiara prova del suo alto sentimento di giustizia che, non solo da Libanio, ma anche da quel giudice imparziale e sicuro che è Ammiano, gli è pienamente riconosciuto. Ed abbiamo anche veduto come uno de' suoi propositi più fermi fosse di condurre l'amministrazione della pubblica cosa e della Corte imperiale in modo che si togliessero gli spaventosi abusi che inquinavano lo Stato, e ne venisse un alleviamento delle gravezze sotto cui le popolazioni gemevano e si assottigliavano. La Gallia lo aveva salutato restauratore della pubblica fortuna, gli Ebrei erano sollevati dalle arbitrarie imposte di cui erano caricati; se l'impresa di Persia richiedeva ancora grandi contributi da parte dei sudditi, l'imperatore aveva dichiarato, come vedemmo da Libanio, che il suo ritorno vittorioso sarebbe stato il segnale di una riforma finanziaria che avrebbe ridonato il sangue nelle vene ormai esauste dell'economia dell'impero. L'epurazione radicale della Corte imperiale da lui compiuta, appena entrato in Costantinopoli, e la cacciata delle migliaia di parassiti che vi prosperavano a spese dei sudditi, se fu precipitato, secondo il parere di Ammiano e di Socrate, fu però salutare nei suoi effetti finanziari ed è la più eloquente affermazione della rettitudine del giovane imperatore. Finalmente la cura intensa con cui procurava di ottenere che nessuno si sottraesse alle cariche a cui era chiamato, e che fossero aboliti i privilegi, così da eguagliare tutti i cittadini nei rischi e nelle gravezze della pubblica amministrazione, cosa contro la quale i Cristiani, a cui i precedenti imperatori avevano largiti appunto quei privilegi, protestavano come se si trattasse di un'offesa ai loro diritti, non può non essere cordialmente approvata da ogni giudice imparziale.

Ma vi ha un atto amministrativo di Giuliano su cui vogliamo fermarci un istante, poichè ci dimostra la sollecitudine del pubblico bene da cui era inspirato ed anche la praticità dei provvedimenti a cui sapeva discendere dalle nubi delle speculazioni mitiche e dalle preoccupazioni di condottiero e di riformatore.

Noi vedemmo, più volte, nelle lettere e nei biglietti che Giuliano mandava agli amici, espressa la licenza di servirsi della vettura dello Stato. Nell'invito fatto all'ariano Aezio di venire da lui, gli concede l'uso di un cavallo di rinforzo. Queste curiose indicazioni si collegano a uno dei provvedimenti amministrativi che a Giuliano stavano più a cuore, il riordinamento del servizio postale dell'impero. Le comunicazioni fra le varie parti di un impero che comprendeva quasi tutto il mondo conosciuto erano rese possibili e relativamente facili da un sistema stradale ammirabile, il vanto maggiore dell'amministrazione romana. Su quelle strade era organizzato un vero servizio di trasporti e corrieri, di case di ricambio dei cavalli e di alloggio, che agevolava il traffico, come or si direbbe, governativo e privato. La spesa del mantenimento del sistema postale era sostenuta dalle provincie e dalle città per cui passavano le strade. Ora, l'abuso si era infiltrato, ben presto, anche in questo servizio, e, nei tempi precedenti il governo di Giuliano, era diventato tanto enorme da disordinarlo radicalmente. Tutte le autorità imperiali, grandi e piccine, distribuivano a chi loro garbava, facoltà di passaggio gratuito, evectiones, e le finanze municipali, già esauste, dovevano far le spese dei viaggi dei cittadini. I concilii, i sinodi vescovili che, sotto il regno di Costanzo, si succedevano con crescente frequenza, nelle sedi più lontane, ed a cui i prelati accorrevano a schiere, accompagnati dai loro seguaci teologici, in mezzo al lusso di un clero corrotto e dominatore, portavano, in special modo, lo scompiglio nell'andamento della posta ed obbligavano i contribuenti a spese enormi. Ammiano, con parole in cui si sente l'intenzione ironica, ci descrive «le caterve dei vescovi che correvano, innanzi e indietro, da un sinodo all'altro, con vetture e cavalli appartenenti al servizio pubblico» ed aggiunge che Costanzo era tanto intento nello sforzo di regolare a suo arbitrio il dogma teologico, da recidere i nervi del sistema postale — rei vehiculariæ succideret nervos420. Libanio fa una curiosa descrizione delle condizioni deplorevoli in cui era caduto il servizio per gli abusi spaventosi che lo scompigliavano. Le autorità cittadine non potevano più reggere alle esigenze dei richiedenti. Le bestie morivano per le fatiche; i mulattieri e i cavallanti scappavano sulle montagne per togliersi ad un lavoro diventato insopportabile421.

Giuliano, appena insediato imperatore, mise, con mano fermissima, un freno agii abusi, e regolò con legge le prestazioni dei servizi gratuiti, le evectiones. Solo i governatori delle Provincie potevano accordarle. I magistrati inferiori ne avevano un numero limitato, e dovevano aver ricevuto, caso per caso, l'autorizzazione dell'imperatore. Gli effetti di questa riforma pare siano stati salutari e rapidissimi. Libanio, dopo averci fatta quella singolare descrizione e detto che i consigli municipali, che dovevano provvedere alle spese, erano del tutto rovinati, così continua: «Giuliano fermò tale abuso, proibendo i viaggi non strettamente necessari ed affermando essere egualmente pericoloso tanto il concedere come il ricevere questi servizi gratuiti. E si vide — egli continua con la sua solita esagerazione — una cosa incredibile, cioè che i mulattieri erano costretti ad esercitare i muli, i cavallanti i cavalli, poichè, come prima soffrivano pei cattivi trattamenti, ora soffrivano per l'eccesso dell'ozio»422. Fatta la dovuta parte all'iperbole dell'apologista, resta sempre un merito grandissimo di Giuliano nell'aver voluta e praticata una riforma così saggia e così civile. La diligenza scrupolosa con cui l'applicava si vede, appunto, nei pochi permessi per l'uso della posta pubblica ch'egli concede a qualcuno degli amici di cui desiderava la venuta. Si comprende che la legge di Giuliano doveva essere seriamente obbedita, se proprio era necessaria la parola diretta dell'imperatore per avere un favore che, poco prima, entrava nelle abitudini comuni.

La condotta di Giuliano, amministratore di un immenso impero, non è dunque meno ammirabile di quella di Giuliano duce di potenti eserciti ed organizzatore di grandi ed arrischiate imprese. Il solo errore da lui commesso, come amministratore, fu la violenza economica esercitata sul mercato d'Antiochia. All'infuori di questo errore, dovuto anch'esso alle buone intenzioni del principe e che, del resto, era la conseguenza dell'assoluta ignoranza delle leggi economiche in cui viveva la società antica, noi non troviamo nel troppo breve governo di Giuliano atto alcuno che non giustifichi l'asserto di Libanio che, se il tempo gli fosse stato concesso, egli avrebbe restaurata la prosperità di tutto l'impero come aveva fatto di quella della Gallia.

Della rettitudine e della bontà dell'uomo privato ci fanno fede le sue lettere di cui abbiamo veduto numerosi saggi, constatando che fine gentilezza d'animo fosse in questo giovane che pur aveva passati i suoi anni più belli fra le durezze delle guerre, nella vita degli accampamenti militari. Esiste, però, un punto della storia di Giuliano che rimane oscuro, intorno al quale i suoi stessi contemporanei, brancolando nell'incertezza, hanno tessuto una rete di sospetti e di leggende. Io voglio parlare delle relazioni di Giuliano coll'imperatrice Eusebia, e del suo contegno con la moglie Elena. Già vedemmo come Ammiano Marcellino, pur tanto amico di Giuliano ed ammiratore di Eusebia, accusi apertamente costei d'aver uccisa Elena, per mezzo di un lento veleno propinatole, dice il buon Ammiano, per attenuarne la responsabilità, allo scopo di impedire che avesse figli. E vedemmo anche come fossero diffuse voci più calunniose, secondo le quali Giuliano stesso avrebbe, con l'aiuto di un medico, avvelenata la moglie423. A Libanio riesce cosa facile il distruggere quest'ultima accusa. Ma il fatto stesso che l'accusa si era sparsa, unito all'altro della notizia curiosa che ci è data da Ammiano, dimostra che, se non nel popolo, almeno nell'ambiente della Corte, si sospettava che un dramma d'amore si fosse intrecciato nelle vicende del giovane principe. Dissi nell'ambiente della Corte, poichè se lo scandaloso racconto fosse uscito dal cerchio dei cortigiani e fosse corso nel popolo, sarebbe giunto all'orecchio di Gregorio, al quale avrebbe fornito un motivo oratorio veramente prezioso, ed è facile imaginarsi con quanta gioia il terribile polemista ne avrebbe fatto argomento di un'eloquente invettiva424.

Se noi guardiamo un po' addentro in questo oscuro episodio, troviamo che il sospetto può nascere non tanto dalle relazioni palesi di Giuliano con la cugina Eusebia quanto dal suo contegno verso la moglie Elena. Giuliano, come sappiamo,425 fu due volte a Milano, durante il soggiorno della bella imperatrice, la prima nel 354, chiamatovi, dopo la morte del fratello Gallo, per esservi processato e certamente ucciso, se Eusebia non fosse intervenuta. Giuliano fu relegato a Como e poi mandato ad Atene; la seconda volta, sul finir del 355, per esser investito dell'autorità di Cesare, sempre per l'influenza che Eusebia aveva sul marito. Ora, che, durante queste due dimore, il principe potesse avere coll'imperatrice relazioni segrete pare estremamente improbabile. La corte di Costanzo era popolata di nemici acerrimi di Giuliano che spiavano ogni suo movimento e che avrebbero colto al volo l'occasione per rovinare, nell'animo dell'imperatore, l'odiato principe e, insieme a lui, la donna audace della quale l'innamorato Costanzo subiva il fascino irresistibile. Giuliano, nel suo panegirico di Eusebia, parla di lei come di un'apparizione divina, davanti alla quale egli prova un sentimento di timorosa riverenza e di profonda gratitudine. Vi si sente la parola di un suddito devoto, non già quella di un amante infervorato. Ma, si potrebbe dire, il panegirico era un documento ufficiale e Giuliano non poteva tradir sè stesso ed Eusebia. Il riserbo era imposto dalla più elementare prudenza. Ma di importanza capitale è il racconto che ci fa Giuliano, nel manifesto agli Ateniesi, della sua esitanza a mandare una lettera all'imperatrice nei giorni in cui si trattava della sua elezione a Cesare426, pel timore che la lettera potesse essere scoperta. Qui Giuliano dice indubbiamente la verità. Eusebia, nel 361, quando Giuliano scriveva il manifesto, era morta. Giuliano era un ribelle dichiarato e nessun ritegno poteva frenargli la parola, nessuna ragione di prudenza consigliarlo a velare la verità. Noi pertanto dobbiamo credergli quando afferma che le relazioni con Eusebia erano così poco confidenziali ch'egli non solo non poteva parlarle, ma non osava nemmeno mandarle un biglietto. Dunque nessuna intimità, e, meno ancora, nessun intrigo amoroso è mai esistito fra i due cugini. La loro vicendevole simpatia doveva venire, più che da altro, dalla comunanza delle aspirazioni intellettuali. Eusebia, nata in Macedonia, usciva da una famiglia greca ed era stata allevata in Grecia, in mezzo alle tradizioni ed alle abitudini della coltura antica; così che, oltre alla bellezza, portava in dote, come dice Giuliano, una retta educazione ed un intelletto elegante427. Sposata ad un imperatore cristiano, entrata in una Corte in cui i grandi dignitari dell'Arianesimo dominavano sovrani, essa avrà seguito necessariamente l'indirizzo religioso di coloro che la circondavano. Ma le sue preferenze intellettuali dovevano essere per l'Ellenismo in cui era cresciuta. Ora, per quanto Giuliano fosse rimasto lontano dalla Corte, vi dovevano essere note la sua passione per lo studio e le sue relazioni coi filosofi del tempo. Eusebia, pertanto, vedeva in Giuliano un greco genuino, ne comprendeva le aspirazioni, ne ammirava le attitudini. Da qui in lei il desiderio di salvarlo dall'uragano di barbarie cristiana che minacciava di sommergerlo. Giuliano stesso, nel suo panegirico d'Eusebia, spiega appunto in questo modo la protezione per lui: «Essa, egli dice, mi divenne promotrice di tanti beni, perchè ha voluto onorare in me il nome della filosofia. Questo nome era stato, non so come, applicato a me che, certo, amo fervidamente la cosa, ma che poi tralasciai di praticarla. Ma essa onorava il nome. Io non trovo nè posso immaginare altra causa per la quale mi fu così efficace ajutatrice e vera salvatrice, adoperandosi, con ogni sforzo, per conservarmi intatta la benevolenza dell'imperatore...428» È ad Eusebia che Giuliano deve ciò ch'egli considera la sua più grande fortuna, di essere, cioè, mandato ad Atene, a sprofondarsi negli studii: è Eusebia, che, come sappiamo, fornisce a Giuliano, partente per la Gallia, quella ricca e svariata biblioteca, per la quale la Gallia si è trasformata, come egli dice, in un Museo di libri greci429.

Noi siamo, dunque, in alto, in un'aria di pura intellettualità. Eusebia e Giuliano ci appaiono come due genii di poesia e di saggezza. Eusebia, nel panegirico di Giuliano, si presenta circonfusa di un'aureola di santità: è una figura divina. Nel contemplarne il ritratto, disegnato dal suo devoto e riconoscente ammiratore, par di risentire un po' di quel fascino che la bella imperatrice esercitava sui milanesi d'or son quindici secoli e mezzo. Ammiano Marcellino, che aveva veduto Eusebia alla corte di Milano e conosceva quanto essa aveva fatto per Giuliano, non ha che parole di ammirazione per la sua virtù, ed afferma, scrivendo di lei già morta, che non aveva rivali per la bellezza del corpo e dei costumi e che, nell'altissimo culmine in cui si trovava, aveva saputo conservarsi umana430. Ammiano pare non sospetti di relazioni illecite fra Giuliano ed Eusebia, ed attribuisce l'azione dell'imperatrice in favore del perseguitato principe alla giusta estimazione ch'essa faceva delle sue virtù. Ma, a turbare la pura serenità di tale imagine, ecco che Ammiano ci racconta un episodio pel quale la bella filosofessa si trasformerebbe in una donna malvagia ed odiosa. Noi già abbiamo accennato a questo fatto. Ma qui vogliamo rivederlo più attentamente, perchè si tratta di chiarire un mistero che influisce sinistramente sul nostro giudizio del carattere di Giuliano. Noi sappiamo che Costanzo, chiamato Giuliano alla dignità di Cesare gli aveva dato in moglie la propria sorella Elena, onde render più stretti i legami che lo univano al cugino, ritornato nei suoi favori. Il matrimonio, al dire di Giuliano stesso, era stato preparato da Eusebia431. Elena, figlia di quell'imperatrice Fausta, uccisa, a quel che narra Zosimo, nel 326, da Costantino, in un'orribile tragedia di gelosia432, doveva avere, nel novembre del 355, non meno di trent'anni. Pare, dunque, che Eusebia combinasse un matrimonio di pura convenienza. Ma Elena, l'anno seguente, in Gallia, era rimasta incinta. Ebbene, Eusebia, narra Ammiano, avrebbe guadagnata la levatrice, e questa, con un voluto errore di operazione ostetrica, avrebbe ucciso il bambino sul punto di nascere. Ma questo bel fatto pare non accontentasse Eusebia. Costei avrebbe invitata Elena a venire dalla Gallia a Roma, nell'occasione del solenne viaggio che, nel 357, essa vi fece con Costanzo. Il pretesto dell'invito era l'affettuosa premura di far partecipe Elena dei festeggiamenti romani; il motivo vero era di propinare all'infelice un sottile veleno, pel quale dovesse abortire, ogniqualvolta rimanesse incinta. Pare, che l'azione lenta del veleno, minando l'organismo della donna, la conducesse, tre anni dopo, a morte, morte misteriosa, appena accennata da Ammiano e da Giuliano, e che, dai nemici di quest'ultimo, gli fu, addirittura, attribuita, quasi egli fosse stato l'avvelenatore della moglie433.

Tutte queste voci poco precise hanno l'aria di non essere che pettegolezzi di una Corte malvagia, abituata ai delitti. La gelosia dell'amante deve essere esclusa, come causa determinante, perchè, davvero, poco si comprenderebbe una gelosia che si eserciti a distanza, senza l'inasprimento di passione che dà la vicinanza e la vista dell'essere amato. La gelosia della madre che, non avendo figli, — Eusebia non ne aveva — non voleva che ne avesse neppur la cugina, si sarebbe rivelata, in un modo così atroce, la prima volta, nel caso dell'infanticidio commesso dalla levatrice, e in un modo così raffinato, la seconda volta, coll'intrigo dell'invito a Roma, per propinare il veleno, da esser poco credibile per sè stessa ed inammissibile affatto in una donna come Eusebia di alta coltura, e di animo tanto generoso da non esitar a gittarsi nella pericolosa impresa di salvare un principe perseguitato, sfidando le ire e le macchinazioni dei cortigiani potenti. È possibile che questa donna che tanto aveva fatto per collocare Giuliano in una posizione in cui potesse far conoscere e valere le sue virtù, fosse poi rosa dall'invidia, al pensiero che quest'uomo da lei ammirato e salvato, avesse dei figli? È possibile che di lei si possa dire «tanta tamque diligens opera navabatur ne fortissimi viri soboles appareret»?434.

Pertanto a me pare che l'ipotesi più probabile è che Ammiano raccogliesse le invenzioni e le voci calunniose che, in odio di Eusebia, dovevano correre nell'ambiente cortigiano in cui aveva vissuto, e le ripetesse senza tanti scrupoli, come, con una mancanza di scrupoli ancora più grande, i nemici di Giuliano le volgevano a danno ed in accusa diretta di lui. Però, dobbiamo ammettere che, se quelle voci calunniose hanno potuto diffondersi ed esser credute, vi deve pur essere stato qualche fatto, qualche circostanza che dava loro un'apparenza di credibilità. Ora, noi non abbiamo nessun documento col quale ricostruire la storia della relazione coniugale di Giuliano con la moglie Elena. Tuttavia da alcuni indizii possiamo indurre che Elena è stata una donna infelice, una sposa trascurata. Giuliano, che parla e scrive di tutto e di tutti con tanta facilità ed abbondanza, non ha nei suoi scritti, e pubblici e confidenziali, neppure una parola per la moglie che pur gli fu compagna nei cinque anni della sua dimora in Gallia. Egli fa un cenno del suo matrimonio, nel panegirico di Eusebia, sol per dire che l'imperatrice lo combinò, poi nel manifesto agli ateniesi ricorda che, nel momento in cui avveniva il pronunciamento militare a Parigi e che i soldati circondavano il palazzo, egli si trovava a riposare, al piano superiore, in una camera vicina a quella di sua moglie, ancora vivente435. Quel gelido ancora vivente — ἔτι τῆς γαμετῆς ζώσης — è la sola orazione funebre di Giuliano per la moglie. Essa era morta, a Vienna, nell'inverno del 360, mentre il marito già si atteggiava da imperatore, in pompe e feste solenni. Il solo atto pietoso di Giuliano verso di lei fu di mandarne la spoglia a Roma, onde esser deposta, in un sepolcro della via Nomentana, presso quello della sorella Costantina.

La sorte infelice di questa donna commosse la fantasia dei contemporanei e diede gli elementi per creare intorno a lei una leggenda, per vedere il mistero ed il delitto dove non era, probabilmente, che un intreccio naturale di tristi circostanze. Eusebia e Giuliano furono creduti colpevoli ed autori di una morte, che la sventura sola aveva, a poco a poco, avvicinata e prodotta. La moglie di Giuliano è una di quelle pallide figure che passano fuggevoli, ombre leggere, all'orizzonte della storia, circonfuse e come consacrate da un'aureola di lento e segreto martirio. Sposata, già matura, ad un uomo che non l'amava, cristiana ed educata in un ambiente cortigiano, affatto chiusa alle influenze elleniche, essa non poteva comprendere il marito, e non era da lui compresa. Nessuna comunanza intellettuale esisteva in quella coppia, unita da un puro vincolo di convenienza. Le gioie che poteva avere dalla maternità le erano state rapite. Nell'aspro soggiorno della Gallia, viveva in continue strettezze e spaventi. Vedeva venir avanti e farsi ognora più minaccioso il pericolo dell'urto fra il marito ed il fratello, l'urto ad evitare il quale essa era stata sacrificata e posta inutilmente, come simbolo di pace, fra i due contendenti. Scoppiata la ribellione e proclamato Giuliano imperatore, Elena non resse all'idea della guerra fraterna. Giuliano, tutto assorto nei suoi preparativi, nei suoi piani, nei suoi sogni, non l'ascoltava. Ed essa conosceva troppo il fratello, per non essere sicura che, una volta vittorioso — e tutto faceva credere probabile la sua vittoria — egli avrebbe presa una terribile vendetta. Lacerata da queste ansie crudeli, che la tormentavano nel segreto dell'anima, Elena, struggendosi, si è consumata e sparve, vittima gentile, dimenticata dal marito che stava per gittarsi nella tempesta della più audace avventura.

Possiamo, dunque, concludere, con l'imparzialità di cui ci siamo fatto un dovere assoluto, che, se a Giuliano non può esser imputato nessun delitto domestico, egli non è stato certo un marito esemplare, ed, anzi, assai probabilmente ha fatto l'infelicità della moglie. Colpa per sè stessa assai grave, ma che pure, nella storia dei mariti di tutti i tempi, non esclusi quelli dell'oggi, può trovare qualche attenuante.

CONCLUSIONE

Io diceva, cominciando questo studio, che nessun destino è stato più miserando di quello di Giuliano, perchè la Chiesa, da lui inutilmente combattuta, si è vendicata coprendo di una maschera odiosa la sua nobile figura e rendendo esecrato il suo nome, che pur avrebbe avuto tanto diritto al rispetto ed all'ammirazione dei posteri. Ma, dopo essere stati lungamente nella sua compagnia, noi sentiamo farsi più viva la commiserazione pel suo destino, perchè non vi ha, forse, nella storia, altro esempio di tante e così splendide doti completamente sciupate in una vana impresa. Pochi fra gli uomini apparsi sulla scena del mondo meglio di lui forniti di tutte le forze necessarie ad esercitare sugli eventi un'azione duratura. Nessun uomo più miseramente scomparso, senza lasciare traccia alcuna di sè. L'opera di Giuliano è stata passeggera e vana come il solco di una barca sulla superficie dell'acqua. Appena passata la poppa, le acque divise si riuniscono ancora ed il solco non è più rintracciabile. Così appena Giuliano spirava là, nella sua tenda, sulla pianura persiana, il suo tentativo effimero svaniva nel nulla, e la storia riprendeva il cammino come s'egli non fosse mai esistito. Si può dire che il Cristianesimo non si è nemmeno accorto della guerra che Giuliano gli ha mossa. Non l'ha fermato, neppure per un istante, nella sua propaganda, non ha influito, in nessun modo, sul suo indirizzo e sulle sue ulteriori manifestazioni.

La fortuna, sempre bizzarra, aveva, al tramonto dell'Impero, posto sul trono dei Cesari, un uomo di vivo ingegno e d'animo forte e retto. Ed egli non ha servito a nulla! I suoi sforzi si sono esauriti nel vuoto. Un'idea, completamente sbagliata, si era impadronita di lui, ed ha piegata la sua azione in una direzione in fondo alla quale avrebbe trovato il baratro. Egli vi si è avanzato come un sonnambulo che non ha la coscienza del mondo reale da cui è circondato. Non c'è, nella storia, spettacolo più triste di questo sciupìo di forze preziose, ma non c'è nemmeno spettacolo più interessante, perchè lo studio delle cause che hanno reso possibile il sorgere di una così grande illusione in uno spirito pur così aperto ed intelligente ci dà il mezzo di comprendere e di valutare, nella sua portata reale, la rivoluzione religiosa che ha condotto a rovina l'antica civiltà.

Quelle cause, noi le abbiamo scrutate e discusse nel corso di questo lavoro. Ma non sarà inutile riassumerle ed insistervi, poichè in esse sta tutto l'interesse della vita di Giuliano e, nella loro analisi, sta la ragione del lungo studio che abbiamo intrapreso.

Cerchiamo, primieramente, di abbracciare con uno sguardo il gran quadro di cui abbiamo esaminate le varie parti. Il Cristianesimo era riuscito vittorioso dell'antica civiltà, perchè aveva portati nel mondo due principî essenzialmente novatori, i quali rispondevano alle condizioni ed ai bisogni del tempo. In una mano portava il monoteismo, diventato indispensabile ad un mondo pel quale l'antico politeismo si era ormai vuotato d'ogni sostanza; nell'altra mano portava una legge morale che urtava contro l'antica organizzazione della società basata sulla prepotenza della forza, una legge che glorificava la debolezza e la sventura, ed avrebbe dovuto inaugurare una nuova società basata sull'amore e sulla coscienza della fratellanza umana. Se non che, il Cristianesimo, adoperando come due leve quei due principî novatori, ha potuto compiere la parte negativa del suo programma, ha potuto smuovere dai cardini e rovesciare l'antica civiltà, ma non ha potuto compiere la parte positiva, così che il giorno in cui, uscito vincitore dalla lotta secolare da lui eroicamente affrontata, istituiva una nuova società, questa si fondava ancora sulla prepotenza della forza, sulla violenza e sul sopruso, e la sua legge divina rimaneva un ideale luminoso, ma senza efficacia diretta sulle azioni dell'uomo. Quale la ragione di questo strano fenomeno? Perchè mai, abbattuta l'iniquità antica da un Vangelo divino, sorgeva una nuova iniquità più tenebrosa di quella che era stata combattuta e sconfitta? La ragione di quel fenomeno storico è che l'imperativo categorico di una legge morale non si trova già all'infuori e al di sopra dell'umanità, si trova, bensì, dentro di essa, nella condizione essenziale del suo spirito in un dato momento storico, e nella conseguente necessità della sua organizzazione. Non è la legge morale che rinnova la società, è la società già rinnovata che s'impone la legge morale. Ora, una società non si rinnova, se non si rinnova il suo modo di comprendere sè stessa e l'universo. Fin quando esisteva il concetto antropomorfico della divinità, ed il concetto antropo e geocentrico dell'universo, l'umanità poteva cambiar di veste, ma, nella sostanza, doveva rimanere sempre eguale a sè stessa. Posto il concetto di un Potere soprannaturale e soprarazionale, di un trascendente dotato di un arbitrio assoluto, l'umanità avrebbe sempre trovato il modo di eludere la legge che le era pesante, di piegare quel Potere alle sue passioni, di farlo venire a patti, di dare alla forma esterna il valore di un compenso contrattuale. Il rinnovamento della società non poteva verificarsi se non quando al concetto di un arbitrio soprannaturale venisse a sostituirsi il concetto del determinismo inalterabile di un sistema naturale. Bisogna che l'umanità ponga sè stessa e l'universo nel vero per organizzarsi con una legge a cui non possa sottrarsi. La legge morale che il Cristo ha rivelata è la più sublime di tutte, è, anzi, assolutamente perfetta, ma quella legge, appunto perchè moralmente basata sul vero, doveva rimanere inefficace in un mondo intellettualmente basato sul falso.

Giuliano, venuto al trono dopo mezzo secolo di Cristianesimo vittorioso, trovava il vizio ed il delitto dominanti nella Corte, le lotte intestine squarcianti la Chiesa ed il Clero, una profonda corruzione in tutte le membra dell'impero cristiano. Egli s'illuse di poter salvare la civiltà e di moralizzare il mondo, ritornando all'antico e fondando una specie di Paganesimo cristianizzato. Giuliano, pertanto, non può dirsi un retrogrado perchè, da una parte, cercava di ridurre ad un gerarchia monoteista il panteon ellenico, e, d'altra parte, riconosceva il valore delle virtù che il Cristianesimo avrebbe dovuto diffondere nell'umanità. Ma non può dirsi nemmeno un ingegno novatore, perchè non ha saputo portare nel mondo nessun nuovo principio intellettuale, non voleva che rivestire delle forme antiche quegli stessi principî teologici e morali che il Cristianesimo aveva proclamati, quei principî che gli avevano data la vittoria. Per iniziare una rivoluzione veramente geniale e feconda, Giuliano avrebbe dovuto farsi promotore di una religione senza sacrifici e senza culto, ed, intuendo la possibilità di sollevare il mondo e l'uomo dal terrore di un arbitrio trascendente ed assoluto e dai ceppi della superstizione, avrebbe dovuto porre le basi di una civiltà che s'innalzasse sulla ragione e sulla scienza. Ma di tutto ciò Giuliano non ebbe nemmeno il più lieve sentore.

Il Cristianesimo, quale è apparso in Palestina, nella persona e nell'insegnamento del suo fondatore, era la pura espressione di un sentimento morale, l'aspirazione ad un ideale di giustizia, una protesta terribilmente eloquente nella sua mitezza contro le iniquità del mondo. La predicazione di Gesù, tanto originale pel soffio affascinante di poesia che l'animava e per la squisita semplicità della forma, continuava il solco già iniziato dai grandi profeti del tempo della decadenza d'Israele, i quali ponevano nella conversione alla santità della vita la condizione del risorgimento del loro popolo. Per Gesù, ed è qui che sta propriamente la novità divina del suo Vangelo, la santità della vita si esplicava nel concetto della fratellanza di tutti gli uomini davanti ad un unico Padre, e, di conseguenza, nella condanna della prepotenza e dell'abuso della forza, nell'esaltazione degli umili, dei sofferenti, degli offesi.

Il primitivo insegnamento cristiano constava di due buone novelle, per l'efficacia delle quali ha potuto sprofondare le radici anche in quei suoli, che in apparenza, non gli erano adatti, perchè mancanti di ogni lavoro di tradizioni preparatorie. In primo luogo, annunciava un'imminente trasformazione che avrebbe cangiata la faccia del mondo, puniti gli oppressori, sollevati gli oppressi. In secondo luogo, affermava la rivelazione di una persona divina, che aveva avuta un'esistenza storica, che era una persona ben determinata e concreta, sulla cui esistenza non era alcun dubbio, in cui, pertanto, si poteva credere con una sicurezza, la quale faceva ormai completamente difetto alle esaurite divinità dell'Olimpo ellenico. Con la prima promessa, il Cristianesimo calmava la sete di giustizia da cui era tormentato un mondo soffocato dall'abuso della forza, eretta in diritto, mentre, con la rivelazione del Cristo divino, rispondeva all'aspirazione di quello stesso mondo di aver un Dio, in cui potesse credere, da sostituire agli dei antichi, nei quali non credeva più. E, quando poi si vedeva questo Dio prendere sopra di sè tutte le miserie umane e morir perseguitato, come l'ultimo degli schiavi, l'apoteosi della sventura era compiuta, e il Cristianesimo diventava naturalmente la religione a cui accorrevano tutti gli infelici.

Pertanto, il Cristianesimo, nel periodo primitivo della sua esistenza, era una religione essenzialmente morale e tutta di sentimento. Paolo, è vero, appena convertito, aveva cercato di dare una spiegazione razionale al processo della redenzione. Mente logica per eccellenza, Paolo non si è convertito, se non quando quel processo fu ben chiaro in lui. Ma il pensiero paoliniano rimase, per molto tempo, più che altro, un fatto personale, e non pare che abbia esercitata, se non molto più tardi, una grande influenza sullo svolgimento dottrinario del Cristianesimo. Era l'azione della sua persona, del suo spirito, della sua volontà, era l'annuncio della imminente rigenerazione del mondo per la ricomparsa del Cristo, salvatore degli oppressi, la buona novella che chiamava alla nuova dottrina le turbe dei credenti. Per quasi un secolo e mezzo, il Cristianesimo, si mantenne in questo ambiente di fede semplice, all'infuori di ogni apparato di dottrina sistematica. Coloro che si chiamavano Cristiani non avevano di comune che una fede monoteista, fondata sulla rivelazione di Dio, avvenuta nel Cristo, la speranza di una vita eterna, garantita dal Cristo, e la coscienza del dovere, assunto col battesimo, di tenere una condotta rispondente all'esempio, lasciato dal Cristo. Gli scritti cristiani, anteriori alla seconda metà del secolo secondo, la διδαχή, la prima lettera di Clemente, le lettere d'Ignazio, gli scritti di Papia, la lettera di Barnaba, mostrano la completa assenza di ogni apparato dottrinario nel Cristianesimo primitivo, il quale non era, in fondo, che una norma di condotta appoggiata, ad alcune verità e, sopratutto, ad alcune promesse rivelate dal Cristo. Quei Cristiani primitivi vivevano, con tutta l'anima, nella loro fede, e non sentivano alcun bisogno di rappresentarsela con un complesso di dottrine determinate. Qual'era la dogmatica di quei Cristiani? Ce lo dice Barnaba436. «Tre sono i dogmi del Signore, la speranza... la giustizia... l'amore». E nella chiusa della sua lettera, nel descrivere le due vie che si aprono al credente, la via della luce e la via delle tenebre, egli traccia un programma il quale non è che l'eco fedele della morale evangelica, in cui non è neppur l'ombra di un principio dottrinario437.

Una prova singolarmente interessante della povertà delle dottrine filosofiche nel Cristianesimo genuino, fino alla seconda metà del secolo secondo, la troviamo nell'Ottavio di Minucio Felice. Al tempo degli Antonini, e precisamente sotto il regno di Marco Aurelio, durante il quale avvenne la composizione di quel dialogo, il Cristianesimo cominciava ad aver le sue reclute anche nella classe colta della società romana. Minucio Felice era un avvocato di grido, un oratore ciceroniano, uno scrittore elegante, un filosofo erudito. La sua difesa del Cristianesimo ci dà, pertanto, una idea esatta di ciò che fosse il Cristianesimo per quegli spiriti colti. Ebbene, il Cristianesimo di Minucio Felice non è che un deismo monoteista estremamente semplice e razionale, che non conosce neppur le prime linee di un sistema teologico e metafisico, che abborre le esteriorità del culto, che pone in diretto contatto con Dio la coscienza dell'uomo. «Qui innocentiam colit, deo supplicat; qui junstitiam, deo libat; qui fraudibus abstinet, propitiat deum; qui hominem periculo subripit, deo optimam victimam cedit. Hæc nostra sacrificia, hæc dei sacra sunt. Sic apud nos religiosior est ille qui justior»438. Era l'alta moralità del Cristianesimo, era la razionalità dell'idea monoteista, era, infine, la semplicità del culto, ciò che costituiva per gli spiriti eletti l'attrattiva del Cristianesimo nascente. L'indole positiva dell'ingegno latino impediva la fioritura dei parassiti metafisici.

Se non che, nel mondo ellenico, il Cristianesimo non poteva conservarsi in questo stato di semplicità dogmatica. La mente greca era tutta imbevuta di speculazione metafisica. Non era, dunque, possibile che la religione, cioè un'istituzione in cui è rappresentato il vincolo che unisce il mondo alla sua causa, potesse conservarsi estranea alla metafisica. Era, anzi, fatale che diventasse essa pure una metafisica. Questa sorte era già toccata allo stesso Giudaismo che, pure, in origine, al pari della religione di Maometto, era completamente impervio alla speculazione filosofica. Bastò che il Giudaismo si allargasse, con le sue colonie, nel mondo greco, perchè dovesse piegarsi all'efficacia trasformatrice del pensiero filosofico, e costituisse, sulla base del logos filoniano, una vera e propria metafisica. Fu in questo ambiente di ebraismo ellenizzato che lo scrittore del Vangelo giovannico attinse l'identificazione del Cristo col logos, e così aperse la porta alla speculazione filosofica che doveva in breve impadronirsi della religione. Il Gnosticismo fu il primo frutto del connubio del Cristianesimo col mondo greco. Il Gnosticismo cristiano, che probabilmente ebbe le sue radici in un Gnosticismo ebraico, in cui era degenerata la filosofia filoniana, fu una specie di Neoplatonismo anticipato, una metafisica fantastica e curiosa che si attortigliava intorno all'idea del logos, e la soffocava con le sue frondi lussureggianti. Nel Gnosticismo, il Cristianesimo, perdendo il suo carattere di rivelazione di un principio rigeneratore dell'anima umana, si trasformava in una complicata cosmologia, in cui il processo di creazione si risolveva in un dualismo divino, fra i termini estremi si intrometteva una gerarchia di spiriti e di divinità minori, sulla quale primeggiava il logos, emanazione immediata del Dio supremo.

Dissi che il Gnosticismo cristiano fu una specie di Neoplatonismo anticipato. Ciò è esatto, nel senso che l'uno e l'altro dei due sistemi, col mezzo delle molteplici emanazioni divine, ricreavano un politeismo effettivo sotto le ali di un monoteismo teorico. Ma ciò non toglie che fra i due sistemi esistesse un'antipatia profonda, perchè il Gnosticismo, innestandosi sul tronco del Cristianesimo, ne aveva preso il concetto pessimista con cui quest'ultimo giudicava il mondo. Ed, anzi, non riuscendo a spiegare la creazione di un mondo cattivo per parte di un dio buono, era caduto nel dualismo, e dava ad un dio perverso la responsabilità della creazione della materia. Il processo della redenzione, compiuto dal logos disceso in terra, constava appunto nella vittoria del dio buono, e nella conseguente liberazione delle anime dalla servitù della materia e del male.

Ora, nulla più odioso di questo sistema cosmologico pel Neoplatonismo genuino, pel quale il mondo è ottimo, perfetto in ogni sua parte, rappresenta una fase di un processo evolutivo, in cui il bene e il male hanno un valore relativo ed hanno ognuno, la loro ragion d'essere, un processo al quale l'idea di redenzione non può che essere estranea, perchè l'idea del redimere implica la premessa di un errore e di una colpa che il Neoplatonismo non vuole vedere nel mondo e che a lui parrebbe irriverente al concetto di Dio. Il Neoplatonismo, per bocca stessa di Plotino, ha combattuto apertamente il pessimismo gnostico, ed è anzi, probabilmente, su questa via ch'esso si incontrò col Cristianesimo, e lo ha poi conglobato nella stessa polemica con cui combatteva il Gnosticismo439.

L'apparizione del Gnosticismo cristiano che minacciava di ricondurre il Cristianesimo al Politeismo, ebbe la conseguenza di far nascere, come antidoto della dottrina falsa, una dottrina vera, d'aver quindi dato origine ad una teologia ortodossa, la quale servisse di strumento per rintuzzare gli errori gnostici. Ora, la teologia ortodossa, finchè rimaneva nell'ambiente latino, non poteva spiegare le ali a voli metafisici di grande altezza. Per quanto avesse, anch'essa, come punto di partenza l'idea del logos divino, pure non era il processo cosmologico, ma, bensì, il processo di redenzione che costituiva per lei l'essenza della religione. Non è il logos creatore, ma il logos redentore che ispira la teologia d'Ireneo e di Tertulliano. Ma, nel Cristianesimo, ha prevalso lo spirito greco, e questo ha sollevata la speculazione cristiana ad una vetta, su cui, con Clemente d'Alessandria e con Origene, si trasformò in un immenso sistema di metafisica cosmologica che solo, per la presenza del Cristo redentore, si distingueva dalla filosofia neoplatonica che le sorgeva al fianco.

Noi abbiamo già veduto quale fosse, nelle sue linee principali, il pensiero d'Origene, quali le conseguenze che ne derivarono, quale lo svolgimento del pensiero cristiano; abbiamo veduto come il Cristianesimo si tramutasse in una dogmatica lussureggiante e come il mondo sia stato travolto in una bufera di dispute metafisiche, nella quale completamente si esauriva l'interesse religioso. Ora, questa trasformazione della religione in scienza, o, diremo con parola più esatta, in filosofia, fece sì che il requisito richiesto per esser cristiano non fu più il riconoscimento di una data norma di condotta morale e l'aspirazione ineffabile ad unirsi col Dio padre, rivelato dal Cristo. Fu, bensì, il riconoscimento della verità di un dato complesso di dogmi filosofici, l'essere ascritto ad un dato sistema dottrinario e scolastico. Questa curiosa ed essenziale trasformazione ha condotto con sè l'impoverimento morale del Cristianesimo. Nei tempi eroici del Cristianesimo, per esser cristiani bisognava praticare date virtù, come insegna Ottavio nel dialogo di Minucio Felice; nel terzo e nel quarto secolo bisognava professare una data dottrina. Lo sciagurato Costantino, che s'era coperto di delitti, ed aveva uccisi il figlio e la moglie, era, agli occhi del grande Atanasio, un imperatore venerando, perchè aveva raccolto il Concilio di Nicea ed aveva sostenuta la formola dell'ομοουσιος. Nelle lotte teologiche che hanno, per tre secoli, dilaniata la Chiesa, da una parte e dall'altra, non si guardava, nel Cristiano, che una cosa sola, la professione dottrinaria. Il programma del Discorso sulla montagna e della lettera di Barnaba o della διδαχή aveva ceduto il posto alle formole dogmatiche che i Concilî si scagliavano l'uno contro l'altro e che venivano raccolte dai partigiani delle guerreggianti dottrine. In questa condizione di cose, in cui il Cristianesimo si era intellettualmente ellenizzato, abbandonando la sua prima natura, questa fu così completamente dimenticata che, quando si volle ricreare, nel mezzo dell'edificio teologico, un sistema di morale, non si ritornò al Vangelo e nemmeno a Paolo, ma si ripresero le tradizioni dello stoicismo greco e latino. Ambrogio stesso, scrivendo il suo libro dei Doveri, non fece che ricopiare il libro di Cicerone, il quale, come si sa, non era che un rifacimento del trattato dello stoico Panezio. Se non che, ogni efficacia redentrice in un Cristianesimo siffatto che, intellettualmente, si arrampicava sulle rocce aride della metafisica, e moralmente abbandonava il principio vivente dell'amore e della fratellanza per risollevare la statua marmorea di una virtù nutrita dell'idea astratta del dovere, non poteva che spegnersi del tutto. Diventò una religione formalista, e, quel che è peggio, una religione che poneva la salvezza non più nel rinnovamento dell'uomo interno, come voleva Paolo, ma nel riconoscimento di esteriorità, tanto dottrinali che rituali, le quali, da quella luminosa aspirazione all'ideale, con cui si era affermata nel suo nascere, la tramutavano in una complicata superstizione.

Ma il Cristianesimo non poteva perdere intieramente l'efficacia moralizzatrice che gli aveva data la sua forza primitiva e la sua ragion d'essere. La trasformazione della Chiesa in un'organizzazione intellettuale che non richiedeva che il consenso a determinate dottrine, portò, di conseguenza, la secessione di quegli spiriti che, nella religione, cercavano qualche cosa di più, e che, pertanto, non potevano acconciarsi alla mondanità opportunista di una religione ufficiale. Costoro si ritraevano dal mondo e dalla vita sociale e davano origine all'ascetismo monacale, che fu, come già accennammo, il ricovero in cui vennero a rifugiarsi le tendenze ideali che il Cristianesimo aveva gittate nel mondo.

Ecco, dunque, lo spettacolo che offriva la società cristiana, nella seconda metà del secolo quarto, quando già si erano svolte le conseguenze del riconoscimento del Cristianesimo, fatto da Costantino. Il Cristianesimo si era pervertito per adattarsi alle esigenze della società in cui entrava come elemento essenziale della sua organizzazione. Gli ideali altissimi che aveva rivelati al mondo, inapplicabili affatto alla vita reale di quei tempi, già accennavano a separarsene nell'isolamento dei monasteri, e il Cristianesimo non appariva, a chi ne stava fuori, che come una forza distruttiva, la quale, rovesciando tutte le tradizioni di patriottismo e di coltura su cui si era innalzata l'antica civiltà, ne rendevano inevitabile la catastrofe. Questo era il punto di vista da cui guardava il Cristianesimo il filosofo imperiale che, unico superstite della famiglia di Costantino, saliva al trono dei Cesari. Innamorato, nel fondo dell'anima, della civiltà ellenica, egli voleva impedirne la rovina, considerava come un supremo dovere il difenderla dai pericoli che terribilmente la premevano. Per questo, egli odiava il Cristianesimo il quale voleva, è vero, usufruire della sua eredità, ed apprendere a parlare ed a scrivere secondo i suoi insegnamenti, ma, nella realtà, la dissolveva e le toglieva ogni forza di resistenza.

Pensatore educato alla scuola dei neoplatonici, Giuliano trovava preferibile la dottrina di Plotino e di Porfirio, ed, andando più in sù, la dottrina di Platone a quella d'Origene e d'Atanasio che ne era la derivazione intorbidata. Moralista severo, egli era disgustato della corruzione in cui il Cristianesimo era caduto, appena assunto alla dignità di religione riconosciuta. Tutte le passioni, tutti i vizî vi avevano libera fioritura. Nè la Corte imperiale, nè le grandi città dell'Impero erano state moralizzate dalla conversione al Cristianesimo. La cristianissima Antiochia offriva a Giuliano uno spettacolo scandaloso. Egli non poteva tacere il suo stupore ed il suo sdegno, così da diventare antipatico agli Antiochesi, assai più perchè rigido censore dei loro costumi che perchè nemico della loro religione.

In tale condizione di cose, parve a Giuliano che egli dovesse e potesse risollevare le sorti della civiltà antica, dell'Ellenismo, com'egli diceva, col ricostituire il Politeismo e col volgergli di nuovo la corrente del sentimento e delle abitudini popolari. Ma sentì di non poter far questo, se insieme non iniziava la riforma del Politeismo. Gli dei naturalistici e nazionali dell'antico Olimpo greco-latino erano completamente esauriti e nessuno poteva più credere in essi. Giuliano, come vedemmo, li conservò, trasformandoli in altrettante espressioni simboliche, aggruppate intorno ad un unico principio divino, a sua volta rappresentato dal Sole, che era per lui il re dell'universo. In ciò Giuliano non era che un neoplatonico, seguace più di Giamblico che di Plotino, e non era per nulla un novatore. Ma ciò che è propriamente originale ed interessante è che Giuliano, nel rinascimento dell'Ellenismo, vedeva la vittoria di un alto principio di morale e di virtù. Giuliano era un uomo, per eccellenza, virtuoso, austero, alieno da tutti i godimenti mondani, idealista di natura e di educazione. Ora, egli non riconosceva affatto che il Cristianesimo fosse stato un fattore di moralità. Se si esclude il precetto dell'elemosina ai poveri, per la quale egli eccita i suoi seguaci ad imitare i Galilei, non vi ha virtù ch'egli riconosca esercitata dai Cristiani. Non vedeva, sopratutto in alto, fra i vescovi stessi, che avidità di guadagno, ambizioni, lotte accanite, incontinenza e violenza. Ed egli voleva ricondurre nella pratica della vita quelle virtù che il Cristianesimo mondano lasciava esulare nei cenobî. Qui sta propriamente la chiave esplicativa del tentativo di Giuliano. Il Cristianesimo non aveva moralizzato il mondo, egli credette di poterlo moralizzare ravvivando l'Ellenismo, che per lui conteneva la somma della sapienza, della bellezza e della bontà.

Per far questo, Giuliano voleva ricondurre il mondo al Politeismo, ma ad un Politeismo essenzialmente riformato. La religione, nel mondo antico, era propriamente una funzione dello Stato. Un urto, una discordia, una separazione fra la religione e lo Stato non era neppure imaginabile; la religione era necessariamente l'ancella dello Stato, perchè era lo strumento necessario, il fattore indispensabile della sua conservazione. Il Cristianesimo perseguitato portò nel mondo il concetto di una religione che si costituisce come una forza indipendente dallo Stato. Ma, appena fu riconosciuto come religione ammessa nell'Impero, rivelò la tendenza a sovrapporsi allo Stato, così da rovesciare le parti e da fare della religione, organizzata disciplinarmente nella Chiesa, la potenza dominatrice dello Stato servo.

Ebbene Giuliano, e questo è uno dei tratti più singolari del suo tentativo, volendo fare della sua religione un istituto moralizzatore, volle, egli pure, separarla dallo Stato, e tentò di organizzare una vera Chiesa politeista, la quale fosse maestra ed esempio di dottrina e di virtù. Noi abbiamo veduto, nell'analisi delle istruzioni date da Giuliano a personaggi cospicui di quella sua Chiesa, come l'organizzazione formasse una delle principali sue preoccupazioni, ed a quali sottili cure e provvedimenti egli sapesse discendere. Dicemmo anche che, per la purezza delle intenzioni e per la natura dei consigli, ch'egli dava ai suoi sacerdoti, relativi alla condotta ed alle abitudini che avrebbe desiderato vedere in essi, le lettere di Giuliano potrebbero considerarsi come pastorali di qualche vescovo cristiano che s'ispirasse agli ideali dei primi tempi, e produce un ben curioso effetto il sentirvi, talvolta, un'eco genuina di quello stesso Vangelo che Giuliano così cordialmente disprezzava. Egli voleva propriamente fondare sulla santità la sua Chiesa politeista, così che da essa emanasse un soffio di epurazione morale. E per riuscire a questo, nell'entusiasmo della propaganda, dava di cozzo nelle abitudini e nei costumi del suo tempo. Giuliano era un puritano politeista. Ora, tentare il connubio del puritanesimo col politeismo era cosa che non poteva venir in mente che ad un sognatore, educato nel misticismo delle sette neoplatoniche. Il mondo si ribellava a questo strano tentativo di imporgli una morale severa, in nome di Bacco e d'Apollo, diventati simboli di idee mistiche e filosofiche. La società, che aveva, in sì breve tempo, corrotto il Cristianesimo, non era per nulla disposta a lasciarsi disciplinare e correggere dal Politeismo riformato. Ancora si sarebbe capito il ritorno alla religione festosa e libera dell'Ellenismo genuino. Ma Giuliano, col suo culto pesante e severo, toglieva al Politeismo ciò che ne era stato la grazia, il fascino supremo, e non trovava, all'infuori che nei pochi iniziati da cui era circondato, che freddezza e scherno. Si comprende il suo scopo. Egli voleva tener in piedi la civiltà antica che si sfasciava in ogni sua parte, sotto l'azione del Cristianesimo che le toglieva le tradizioni, gli ideali, le credenze, tutto, infine, quel complesso di principî di sentimenti che sono la ragion d'essere di una civiltà. Ma, insieme, sentiva che il Cristianesimo si era siffattamente insinuato in tutti i meati, se posso così esprimermi, dell'anima sociale e individuale che il ritorno all'antico sarebbe stato impossibile, ed egli si è accinto all'impresa, non meno impossibile, di cristianizzare la società e la religione, senza farle diventar cristiane. Egli vedeva che il Cristianesimo, nella metafisica e nelle forme esteriori del culto, si avvicinava al Politeismo, come si era ridotto ad essere nel Neoplatonismo e nei Misteri, al punto di poter dire che ne era una copia, e credette di poterlo abolire, sostituendogli la filosofia di Plotino e di Giamblico e i riti dei Misteri, a cui quella filosofia serviva di base, aggiungendovi, come un cemento che tenesse insieme l'edificio, l'istituzione di una gerarchia sacerdotale, la quale riproducesse, con più puri costumi, la gerarchia della Chiesa Cristiana. E così quel giovane entusiasta ed illuso s'imaginava che avrebbe salvato l'Ellenismo, con la sua civiltà, le sue glorie, le sue tradizioni, la sua poesia, le sue arti!

Giuliano non sentiva che al suo Politeismo riformato mancava ciò che formava la forza del Cristianesimo e che gli dava la possibilità di vivere e di diventar sempre più potente, anche quando il suo riconoscimento ufficiale e la sua trasformazione in un potere dello Stato, gli avevano tolto intieramente quel carattere di protesta contro le iniquità del mondo che era stato la fonte genuina del fascino da lui esercitato al suo primo apparire. Il mondo aveva bisogno di credere in un Dio; non era possibile che si appagasse di larve, di simboli, di ombre metafisiche; voleva un Dio, diremo così, storico, che gli fosse imagine, rappresentanza, garanzia del Potere supremo che regge l'universo. Se il Dio ebraico non fosse stato un Dio esclusivamente nazionale e, sopratutto, se non ci fosse stato l'ostacolo insuperabile della circoncisione, forse, il mondo si sarebbe convertito a lui, e Gesù sarebbe stato propriamente il Messia di Jahve. Non essendo questo possibile, il Dio ebraico, per passare in Occidente, ha dovuto ellenizzarsi, facendo assidere presso di sè il suo rivelatore, che diventava un figlio ed, insieme, un intermediario fra lui ed il mondo. La grande forza del Cristianesimo si trovò nel fatto che la realtà di quel procedimento vi era assicurata, garantita dalla storicità oggettiva della persona di Gesù. Il mondo aveva in Gesù una rappresentazione divina, determinata, precisa, ammirabile, amabile per eccellenza, e della sua esistenza reale non era possibile dubitare. La navicella della fede, sbattuta dalle onde dei cozzanti sistemi filosofici, aveva trovato il porto in cui ancorarsi stabilmente. Quali fossero gli involucri teologici con cui si gravava e si nascondeva quella figura divina, quali fossero anche i traviamenti a cui le passioni, i pregiudizi, gli errori degli uomini trascinavano i principi essenziali del suo insegnamento, il Dio rimaneva sempre vivente ed esercitava sulle anime un'attrattiva irresistibile. Si pongano a confronto gli inni infiammati d'amore che S. Agostino innalza a Dio nelle sue Confessioni con le invocazioni di Giuliano al Sole ed alla Madre degli Dei e subito si sente come il Cristiano vivesse nella verità del sentimento, e quanto sforzo ragionato entrasse, invece, nell'entusiasmo fittizio del Pagano. Così noi abbiamo visto come Giuliano s'irritasse pel culto che i Cristiani rendevano ai sepolcri dei santi e dei martiri. Ma è chiaro che la memoria di coloro che col sangue avevano testimoniato della loro fede doveva imprimere un continuo eccitamento all'ardore della fede, e sollevare facilmente all'ideale appunto perchè posava sulla realtà. Quale efficacia potevano mai avere, davanti a queste imagini, davanti al Cristo che era vissuto in un momento storico, che aveva rivelate promesse divine con un linguaggio umano e comprensibile da tutti, i pallidi e confusi fantasmi che Giuliano evocava, dai tenebrosi santuari dei Misteri, e dalle mistiche elucubrazioni dei filosofi neoplatonici? Se Giuliano fosse stato uno spirito veramente religioso, uno spirito in cui la sete del divino fosse stata prevalente, avrebbe tosto sentito come il duello da lui promosso fra il dio Sole ed il Cristo fosse senza speranza pel suo dio astrale, costretto a cedere il campo, anzi, a svanire in faccia all'Uomo-dio che lo affrontava nella pienezza della sua realtà.

Giuliano, da vero neoplatonico, non comprese, non sentì dove fosse propriamente la forza del Cristianesimo, quale fosse la causa essenziale che gli aveva data una così meravigliosa vittoria sulle potenze del mondo. Questa forza e questa causa vanno cercate nel principio di redenzione di cui il Cristianesimo era il nunzio desiderato. Il Cristianesimo era una religione pessimista nel senso che poneva il male come un fatto inerente al mondo ed all'umanità, ma insegnava, insieme, a redimersene, a sollevare lo sguardo, le speranze, le aspettazioni dall'iniquità della terra alla giustizia, al perdono, alla felicità del cielo. Una religione non può essere veramente efficace sull'anima umana, se non parte da un concetto pessimista. Quando il mondo appare come un male, l'anima umana si attacca con passione alla promessa di un oltretomba felice. La fede nella promessa le ispira la devozione, l'eroismo, l'abbandono di tutta sè stessa alla gioia del sacrifizio, all'ascetica voluttà dell'amore divino. Il concetto ottimista uccide la religione, le toglie la sua radice più profonda, la riduce a cerimonie festose, a riti formali da cui l'anima è assente. Certo, un pensatore sublime, come Plotino, potrà, dalla contemplazione di un universo perfetto, assurgere all'estatica visione di Dio, ma la moltitudine non sa seguirlo, e rimane avvinta alle preoccupazioni di una lieta mondanità.

Giuliano non seppe comprendere che il Cristianesimo era forte perchè era la religione degli infelici, la religione della sventura e del pentimento: non seppe penetrare nel concetto della redenzione che ne era la pietra angolare. Il logos Cristo poteva trovare dei rivali nei numi simbolici del Neoplatonismo, ma il Cristo redentore vinceva tutto e tutti, e si trascinava dietro le anime, sitibonde di palingenesi morale, con una forza d'attrazione a cui nulla poteva resistere.

Giuliano non era un reazionario come alcuni, sopra false apparenze, lo vollero giudicare. Giuliano desiderava la conservazione del Politeismo, perchè vi vedeva il balsamo che avrebbe salvato l'Ellenismo; ma non voleva il Politeismo col significato naturalistico o con le forme nazionali di un tempo chiuso per sempre. Voleva riformarlo, organizzarlo a seconda delle esigenze dei tempi nuovi. Ma, se Giuliano non era un reazionario, egli era però nell'antitesi più recisa con quel che oggi si chiama il libero pensiero. In questo egli era davvero l'uomo del suo tempo. Aveva un'inclinazione alle speculazioni metafisiche, ma aveva la negazione dello spirito scientifico. Nessuno ha più di lui riconosciuta la necessità dell'intervento continuo, diretto della divinità in ogni fenomeno della natura, in ogni avvenimento della vita. La superstizione pagana da lui rimessa in onore era assai più furiosa ed oscura della superstizione cristiana. Forse il politeismo di Giuliano, se per un'ipotesi impossibile, fosse stato vittorioso, sarebbe riuscito meno funesto alla scienza del monoteismo cristiano, perchè la teocrazia politeista non avrebbe mai raggiunto il rigore della teocrazia ortodossa che, per secoli, ha governato il mondo e fermato il pensiero dell'uomo. Ma, certo, punto non entrava nelle intenzioni di Giuliano di promuovere la libertà del pensiero. Giuliano non aveva, come, del resto, non l'avevano i suoi maestri neoplatonici, nessun sentore di ciò che fosse la scienza. Nè Epicuro, nè Lucrezio, e nemmeno Aristotele erano gli autori di Giuliano. Il razionalismo serviva a Giuliano, come aveva servito a Platone, a Plotino, e come doveva servire a S. Agostino ed a S. Tomaso, non ad altro che ad affermare il soprarazionale e il soprannaturale, ed a rinchiudere in tale affermazione il pensiero dell'uomo, senza lasciargli uscita possibile per osservare il mondo e conoscere la realtà. La civiltà antica declinava e si spegneva, tanto nel Neoplatonismo quanto nel Cristianesimo, nella rinuncia alla ragione. Non restavano che l'uomo in terra con le sue passioni, il trascendente in cielo con la sua inaccessibilità. Fra i due termini estremi, tenebre impenetrabili.

Così considerato, il tentativo di Giuliano ci appare privo di ogni geniale novità. Giuliano non era uno spirito inventore. Egli credeva di poter salvare la civiltà antica, serbandone vive le forme esterne, tenendo in piedi tutto l'apparato di istituzioni religiose che ne avevano accompagnato lo svolgimento, in cui era raccolta tanta parte delle sue memorie, delle sue tradizioni, delle sue abitudini. Ma egli non sapeva che, se il Cristianesimo affrettava il dissolvimento dell'antica civiltà, questa sarebbe, in ogni modo, caduta, perchè le mancava il principio essenziale del progresso, e quindi non poteva riparare le perdite che il tempo reca a qualsiasi organismo; era diventata decrepita, aveva perduta ogni forza vitale, non poteva resistere alla barbarie che si avanzava giovanile e baldanzosa.

Il principio essenziale del progresso è la scienza, non la scienza di ipotesi e di fantastiche concezioni metafisiche, ma la scienza oggettiva che scopre e segue il processo razionale da cui è determinata la fenomenalità della natura. L'uomo, mercè la sua facoltà d'astrazione, ricrea idealmente, nel suo pensiero, l'universo, rappresentandolo in una serie di cause e di effetti che si svolge nello spazio e nel tempo. Ed in tale rappresentazione ideale si determina la vita dell'individuo e della società. Ora, quando quella rappresentazione è illusoria e fallace — e non può non esser tale quando non è che il frutto di una ragione che si nutre di sè stessa — ne viene una determinazione della vita necessariamente errata ed incapace di miglioramento, che vuol dire di progresso, perchè, senza conoscenza oggettiva, il vero rimane nascosto. La concezione antropocentrica dell'universo e la concezione antropomorfica della divinità, imaginata come un Potere, posto all'infuori e al disopra della natura e dell'umanità che esso regge con un arbitrio assoluto, posano sopra un'illusione della mente umana, e immobilizzano la vita in una rete d'errori nei quali quanto più cerca di districarsi e tanto più si avvolge.

Il gittare in mezzo a questo errore fondamentale di concepimento un principio morale, giusto e vero a nulla giova, perchè la falsità della concezione in cui vive la mente umana ne rende impossibile l'applicazione, anzi lo sterilizza e lo corrompe. Quando s'imagina che il mondo è governato da un Dio, fatto a somiglianza dell'uomo, un Dio che si guadagna con le preghiere, gli omaggi, le offerte, tosto le passioni umane, che vogliono essere soddisfatte, cercano e trovano la libertà del movimento in una religione formalista che dà all'uomo il mezzo di ottenere da Dio la desiderata impunità. Di ciò il Cristianesimo ha data una prova meravigliosa. Il Vangelo era stato propriamente la buona novella. Gesù era venuto a rivelare quel sublime principio della fratellanza e della solidarietà umana che è la sola fonte da cui può scaturire la moralizzazione del mondo. Ma la fonte si è subito ostruita. Il mondo non è stato punto moralizzato dal Cristianesimo, il quale, per l'errata concezione metafisica dell'universo e della divinità, è tosto diventato una religione di forme esterne e di dottrine fantastiche imposte come verità assolute, una religione, che, nelle gesta della sua onnipotente gerarchia, è diventata la negazione di sè stessa, ed ha data al mondo quella società feroce, selvaggia, terribilmente appassionata, senza pietà e senza amore, di cui la Divina Commedia e i drammi di Shakespeare ci presentano il quadro vivente.

Giacomo Leopardi, allorquando, ancor giovanetto, nella solitudine del natio borgo, si sprofondava, con sì tragico abbandono, nella voragine sterminata dei suoi pensieri, scopriva nella ragione la causa del disordine sociale, e la rendeva responsabile dell'umana infelicità. Dalla ragione, dalla sola ragione venivano tutti gli errori, in mezzo ai quali, l'uomo, staccandosi dalla natura, s'era andato perdendo ed intricandosi, come in una rete da cui non poteva liberarsi. Il Leopardi trovava, in questa sua convinzione, la conferma del mito biblico della caduta dell'uomo. Fu l'uso e l'abuso della ragione che ha allontanato l'uomo dallo stato di natura. In questo stato egli era guidato dall'istinto, duce infallibile perchè limitato alla realtà dei fenomeni; nello stato ragionevole, l'istinto cede il posto alla ragione, la quale si pasce d'errori e di larve ed imagina un mondo che non risponde alla verità. Ed è supremamente interessante il vedere come il Leopardi, scrutando, con singolare acume d'osservazione, il problema del destino umano, trovasse, nel suo sistema, la spiegazione del Cristianesimo e della vittoria da esso riportata. Quando gli uomini furono giunti ad un certo grado di coltura e di civiltà, la ragione non bastò più a sè stessa, perchè scomponeva e distruggeva, con le proprie mani, quelle illusioni che aveva create e che erano indispensabili per render tollerabile la vita all'uomo. L'umanità, pertanto, sarebbe andata incontro ad una catastrofe, se non fosse venuta una rivelazione divina, la quale, all'infuori ed al di sopra della ragione, garantisce all'uomo l'esistenza di un mondo ideale, senza la cui certezza, la compagine umana, per l'effetto degli errori irreparabili della ragione, si discioglie come un edificio senza cemento.

Se non che, nel pensatore di Recanati sotto la teoria sta pur sempre il sentimento del nulla, il sentimento dell'infinita vanità del Tutto. Il mondo ideale, garantito dalla rivelazione, non è che un mondo di necessarie illusioni. Da qui l'attitudine disperata dell'infelice poeta che, riconosciuti gli errori della ragione, non vedeva altra salvezza che in un'illusione di cui, pur affermandola, dimostrava la vanità.

Ora il Leopardi era nel vero, quando additava nella ragione, che crea un mondo ideale basato sul falso, la causa dei mali e del disordine umano. Le società animali sono infallibili, perchè condotte, nell'esercizio delle loro funzioni, dall'infallibile istinto. Ma la società umana, finchè la ragione vi agisce con un'interpretazione errata ed illusoria della realtà, non potrà organizzarsi che nella violenza, nel delitto e nella sventura.

Tantum religio potuit suadere malorum!

è un verso che non si applica solo al sacrifizio d'Ifigenia.

Ma il Leopardi non seppe vedere che, se è vero che la ragione, colle sue astrazioni premature ed arbitrarie, ha la funesta facoltà di porre, alla compagine del Tutto, delle cause arbitrarie e fallaci, da cui consegue il danno di un'organizzazione umana basata sull'errore, è pur vero che essa ha, insieme, la provvida facoltà di correggere sè stessa, così che, a poco a poco, sostituisce, nella spiegazione dell'Universo, il concetto della legge al concetto dell'arbitrio, e, per questa via, riesce a togliere alla divinità la veste antropomorfica, di cui essa stessa l'aveva coperta, ed all'uomo il pregiudizio antropocentrico che essa gli aveva donato. L'Universo è un fatto razionale. Ma la ragione, fin dai primi suoi passi, volendo e non potendo spiegarlo razionalmente, lo idealizzava in un'illusione irrazionale. Ora, non è nella rinuncia alla ragione e nella persistenza nell'irrazionale che può collocarsi la salvezza del mondo e dell'umanità. Tale salvezza, come lo attesta tutta la storia del progresso umano, sta solo nel vero e nella luce crescente di un'idealità, che razionalmente lo rappresenti e lo simboleggi.

Fu infatti il pensiero scientifico che ha data una nuova orientazione alla nave dell'umanità. Il giorno in cui prese inizio il movimento verso un nuovo orizzonte non venne a coincidere col giorno in cui il Cristianesimo gittò nel mondo un nuovo principio morale, per quanto perfetto e sublime esso fosse, ma, bensì, con quello in cui la ragione cominciò a squarciare il velo dogmatico che le toglieva la vista della realtà, cominciò ad osservarla e sperimentarla nella sua oggettiva consistenza. Copernico, Keplero, Bacone, Galileo, Newton furono i nocchieri che piegarono la nave dal solco fino allora seguito. Ma ci vollero secoli ancora prima che la conoscenza razionale della verità diventasse un fattore efficace di evoluzione sociale. Il gran fatto del secolo decimonono, il fatto pel quale può dirsi, per eccellenza, il secolo novatore, è quello appunto di aver fondata l'organizzazione dell'umana energia sulla base della scienza, che vuol dire sulla base della verità.

La civiltà non è un fenomeno di sentimento, è un fenomeno essenzialmente intellettuale. L'uomo non esercita la virtù, che vuol dire non agisce pel rispetto e per l'amore verso gli altri uomini, perchè questo rispetto e questo amore glielo si insegni o lo si predichi; è necessario, onde questo avvenga, che i doveri della solidarietà umana gli si impongano, nell'ambiente in cui vive, con un determinismo casuale a cui non possa sottrarsi. Noi vedemmo come l'uomo, ricreando idealmente il mondo nel suo pensiero, prima che albeggiasse la conoscenza scientifica, non ricreava, col prodotto dei suoi sensi imperfetti, che un tessuto di errori, di larve, di fantasie. E, su questa base ideale, per quanto falsa, si organizzava la società. Il Cristianesimo ha gittato nel mondo il principio della fratellanza umana che, facendo tutti gli uomini solidali gli uni degli altri, avrebbe dovuto inaugurare il regno della Giustizia. Ma il Cristianesimo non diradava le tenebre in cui brancolava la ragione, e, pertanto, lasciava intatta la fallace creazione ideale, su cui si fondava la compagine della società. La sua opera non poteva, nei riguardi del progresso umano, che essere infeconda, perchè la verità di sentimento, che aveva portata nel mondo, era isterilita dall'errore intellettuale contro cui veniva ad urtarsi. Affinchè il principio vero della solidarietà umana si evolva sicuramente è necessario che l'umanità posi sul vero; è necessario che il mondo ideale che essa porta nel pensiero riproduca il mondo della realtà. Rendere possibile la rispondenza del mondo ideale al mondo della realtà, ecco l'ufficio della conoscenza scientifica. Ed ecco perchè noi assistiamo al fenomeno in apparenza singolare, eppur naturale nella sua essenza, che i principî morali posti dal Cristianesimo, calpestati durante i secoli nei quali il Cristianesimo dominava come religione indiscussa e indiscutibile, si rivelano viventi ed efficaci oggi che il Cristianesimo è diventato una religione discutibile e discussa. Le virtù fondamentali del Cristianesimo, la carità, la fratellanza, il rispetto dei deboli, in quei secoli tenebrosi, allignavano, qua e là, in qualche anima eletta, nella cella di qualche cenobita; l'umanità ricorreva, di quando in quando, a quelle virtù, come ad un empiastro pe' suoi mali. Ma la violenza, il sopruso, la crudeltà erano il diritto riconosciuto, incontestato del più forte. Oggi le cose sono radicalmente mutate. La necessità delle virtù che il Cristianesimo impone è sentita anche da coloro che gli si ribellano contro, e si veggono spuntare gli albori lontani di un tempo più sereno, sebbene pel cielo, corrano ancora, a grandi masse, le nuvole tempestose e la società sia ancor tutta una lotta in cui la forza, troppo spesso, preme il diritto. Nel mondo dello spirito non v'ha fenomeno più grande di questa permanenza dell'ideale cristiano, per la quale quei principi morali che furono posti dal Cristianesimo, venti secoli or sono, e che ne costituiscono l'essenza, sono diventati così potenti e luminosi che oramai non si può imaginare una società, la quale non sia basata sovra di essi, e si riconosce che il progresso sociale porta con sè la loro applicazione.

L'uomo antico professava un concetto dell'universo, attinto alla speculazione metafisica dei grandi pensatori di Grecia. Il Cristiano professava un concetto della vita orientato secondo la rivelazione divina di una norma morale. La Chiesa riuscì a riunire forzatamente quei due concetti in un tutto organico. Tale riunione era necessaria per la vittoria del Cristianesimo, ma, in essa, il concetto morale fu sacrificato al concetto filosofico, e ne venne una società in cui l'idealità morale del Cristianesimo era calpestata da quelli stessi che avrebbero dovuto realizzarla. Caduto il concetto filosofico dell'antichità davanti al concetto scientifico del pensiero moderno, ecco riappare vivente il genuino ideale cristiano, e riappare appunto perchè contiene i germi di un'eterna verità.

Questa cristianizzazione della società, che si manifesta coll'orrore che oggi ispira la guerra, un tempo condizione normale dell'umanità, e col sentimento crescente dei doveri che avvincono l'uomo ai suoi simili, così che cresce insieme il sentimento della responsabilità che compete ad ognuno nella vita solidale della società, è dunque, un fenomeno che indirettamente dipende dall'indirizzo scientifico che nel secolo decimonono, fu preso dalla civiltà. La conoscenza razionale, della realtà, mettendo in fuga gli errori e le larve, rende l'uomo capace di rappresentare idealmente, nel suo pensiero, un universo vero, e, siccome, in questa rappresentazione, il concetto della solidarietà di tutte le manifestazioni della vita acquista un'efficacia sempre maggiore, così si crea una condizione di cose in cui le verità morali intuite dal Cristianesimo primitivo s'impongono come un dovere necessario, come un imperativo categorico a cui l'uomo sempre più difficilmente trova il modo di sottrarsi.

Se l'antichità, insieme alla sua sapienza organizzatrice, alla poesia ed alle arti, avesse avuto lo spirito scientifico, avesse potuto creare la scienza oggettiva, la scienza che investiga l'universo con l'osservazione e l'esperienza, scopre le leggi inalterabili che lo reggono, e se ne serve per domare la natura ed aggiogarla al proprio servizio, la civiltà non avrebbe avuto oscuramento; le invasioni barbariche sarebbero state respinte, e l'incivilimento del mondo, in luogo di discendere in una curva profonda, per poi risalire alla vetta del pensiero moderno, avrebbe seguito una linea sempre ascendente, guadagnando alcuni secoli al progresso umano. Tale mancanza di indirizzo scientifico nella civiltà antica pare strana quando si vede come di quell'indirizzo essa abbia avuto il sentore. La mente d'Aristotele poneva il principio dell'esistenza di una legge intrinseca all'universo, considerato come il prodotto di un processo di moto investigabile e determinabile dal pensiero umano. E quando ricordiamo come Euclide avesse già affinato e perfezionato, in grado eccellente, quello strumento indispensabile nelle ricerche intorno alla natura, che è la matematica; come Archimede avesse scoperte alcune fra le leggi principali della meccanica e della fisica; come ad Erone fosse già balenata l'idea di servirsi del vapore, quale forza motrice; come Ipparco e Tolomeo avessero applicato il calcolo alle osservazioni dei fenomeni celesti, e Galeno avesse fatte profonde osservazioni di anatomia e di fisiologia, dobbiamo riconoscere che il pensiero antico, dopo di essere arrivato fin sulla soglia della conoscenza oggettiva, si è fermato, e non ha saputo entrare nel santuario. La causa di tale funesta fermata, la quale, togliendo alla società antica la possibilità di rinnovarsi e di progredire, l'ha condannata ad un'inevitabile decadenza, io credo deva esser cercata nell'organizzazione di quella società, basata essenzialmente sulla schiavitù. La macchina del mondo antico era alimentata dalla forza materiale dell'uomo stoltamente sciupata in un lavoro servile ancora. Da qui la conseguenza che, essendo il lavoro imposto e non giovando a chi lo produceva, mancava l'impulso per giungere da un risultato migliore ad un altro migliore ancora. Tutto rimaneva rinchiuso, pietrificato in date forme che non contenevano nessun germe di continua e vitale trasformazione. La scienza fornisce al lavoro i mezzi per progredire; ma il lavoro, quando si giova di quei mezzi, reagisce, a sua volta, sulla scienza, la trattiene sulla via dell'esperienza, la spinge a trarre dalle sue scoperte tutte le conseguenze che vi sono latenti. L'ineguaglianza dei diritti umani e la conseguente mancanza della libertà del lavoro produssero l'effetto che l'attività umana trovò sbarrate le vie che era pur chiamata a percorrere, e così andò perduta una forza preziosa la quale, se avesse potuto svolgersi liberamente, avrebbe trasformato il mondo ed avrebbe fatta partecipe la società antica di quel continuo incremento nei mezzi di padroneggiare la natura, da cui viene la possibilità del progresso. Le società antiche erano basate unicamente sulla robustezza dell'indole; ma l'indole, nelle vittorie, nella prosperità, si corrompeva, ed esse percorsero rapidamente a ritroso tutta la via su cui si erano avanzate, e si consumarono in una decadenza da cui nulla valeva a sollevarle.

Tale decadenza non era stata, in nessun modo, rallentata dal Cristianesimo. Anzi, esso l'aveva precipitata, sconvolgendo le basi religiose e patriottiche su cui posava la vita civile dell'Impero. Il Cristianesimo aveva razionalizzata la morale portando nel mondo i principi della fratellanza e della giustizia, ma non aveva razionalizzata la rappresentazione ideale del pensiero umano, nella quale, anzi, aveva reso ancor più forte e predominante il concetto del soprannaturale.

Il Cristianesimo, diventato una Chiesa costituita e onnipotente, ha dato a questo concetto una forma vigorosamente dogmatica e ne fece uno strumento per rinchiudere il pensiero entro insuperabili barriere e per togliergli ogni libertà di movimento. Ora la libertà del pensiero e la libertà del lavoro sono, e l'una e l'altra, fattori essenziali della conoscenza scientifica della realtà; senza di essi non vi ha civiltà progressiva e non vi ha moralità sicura. Il mondo antico non conobbe la libertà del lavoro, il mondo cristiano non conobbe la libertà del pensiero. Pertanto, nè l'uno nè l'altro di quei mondi ebbe una civiltà progressiva. Questa non cominciò ad albeggiare, se non quel giorno in cui quelle due libertà, alleandosi in un indirizzo comune, hanno aperta allo spirito umano la via per giungere alla conoscenza razionale e per attenuare, se non per distruggere radicalmente, le illusioni antropocentriche ed antropomorfiche per cui l'uomo ricrea nella sua mente, con un'imagine falsa, perchè basata sovra un'idea errata, il mondo della realtà.

L'impresa tentata dall'imperatore Giuliano di fermare il Cristianesimo e di far tornare il mondo al Politeismo ellenico, di sostituire l'Ellenismo al Cristianesimo, è interessante perchè è un sintomo ed una prova della corruzione in cui era caduto il Cristianesimo stesso, quando, al sicuro della persecuzione ed, anzi, riconosciuto come istituzione legale e come strumento di regno, non ebbe più intorno a sè quelle condizioni a cui era dovuta la sua virtù. Ma l'impresa di Giuliano è condannabile dal punto di vista filosofico e storico. Dal punto di vista filosofico perchè non indicava neppur lontanamente un pensiero che accennasse ad uscire dalla ferrea cornice delle idee del tempo, non rappresentava che un atteggiamento, lievemente diverso, di un pensiero che, nel fondo, restava identico a sè stesso, tendeva, anzi, a sprofondare sempre più la ragione umana nelle tenebre dense e non rischiarabili dell'irrazionale ed a sostituire al fecondo principio religioso del Cristianesimo lo sterile formalismo di larve senza vita. Non ebbe nessun valore storico, perchè passò come un sogno effimero; non lasciò e non poteva lasciar traccia alcuna. Non fu che un segno dei tempi, un segno che il mondo antico precipitava a rovina, e che, sulla rovina, sarebbe rimasto ritto solo il Cristianesimo, vincitore dei barbari stessi, ai quali avrebbe trasmesse le misere reliquie di una civiltà di cui era stato l'unico erede, dopo averla sconfitta, di quella civiltà per salvar la quale l'infelice Giuliano aveva voluto risollevare dalla tomba le schiere esauste degli Dei dell'Ellade.

Ma, se il tentativo era folle e destinato a perire, se rivela uno strano acciecamento in chi lo promuoveva, se ci fa sorridere questo furore di misticismo superstizioso in un uomo che pretendeva di combattere il Cristianesimo, e sorridere non meno l'illusione di questo pensatore che non si accorge di aggirarsi col suo nemico in uno stesso cerchio di pensiero, se troviamo riprovevole il pregiudizio intellettuale che non gli permetteva di discernere, sotto la corruzione del Cristianesimo, il principio vivificatore che il Cristianesimo portava nel mondo, non possiamo chiudere l'animo nostro alla simpatia per l'uomo, che, scomparso così giovane, ha trovato il tempo di lasciare, in sè stesso, un mirabile esempio d'eroismo, d'entusiasmo e di fede, che ha posto a servizio di un'idea la sua fortuna e l'immenso potere da lui conquistato, che, poeta e soldato, impavido ad ogni minaccia, perseguitato e misero nei primi anni giovanili, poi, d'un colpo, al fastigio della gloria e della potenza, ha serbata quasi sempre intatta la serena padronanza del pensiero e della volontà, ha sempre tenuto fisso lo sguardo all'idea che era il faro della sua vita. L'imperatore Giuliano ci appare come un'imagine fuggitiva e luminosa all'orizzonte, sotto cui era già tramontato l'astro di quella Grecia, che era per lui la Terra santa della civiltà, la madre di quanto v'ha, nel mondo, di bello e di buono, di quella Grecia che con figliale ed entusiastico affetto egli chiamava la vera patria — τὴν άληθινήν πατρίδα!

INDICE DELLA MATERIA

Introduzione pag. 1

Giuliano l'apostata, 2 — La Chiesa e Giuliano, 3-4 — Ammiano Marcellino, 5 — Libanio, 6-8 — Gregorio, 9 — Libanio e Gregorio, 10 — Gli scritti di Giuliano, 11-12 — Eunapio, 13 — Altre fonti, 14 — Socrate e Sozomene, 15 — Critica moderna, 16-17 — Il fenomeno storico, 18-20.

La vita di Giuliano pag. 21

Fanciullezza ed adolescenza, 22-30 — Giuliano a Costantinopoli ed a Nicomedia, 31-36 — Uccisione di Gallo, 37 — Giuliano a Milano poi ad Atene, 38-43 — Ritorno a Milano, 44 — Giuliano Cesare, 45-51 — Giuliano in Gallia, 52-63 — Pronunciamento militare, 64-68 — Guerra Civile, 82 — Giuliano sul Danubio, 83-88 — Giuliano imperatore a Costantinopoli, 89-95 — Giuliano ad Antiochia, 96-98 — Giuliano in Persia, 99-112 — Morte di Giuliano, 113-117.

La discordia nel Cristianesimo pag. 119

Costantino, 120-122 — Dissenso iniziale, 123-129 — Ario, 130-132 — Atanasio, 133-135 — Ortodossia vittoriosa, 136-144 — Corruzione della Chiesa, 145-148 — Ascetismo monacale, 149-151 — Apparenza di conversione della società, 152-153.

Il Neoplatonismo pag. 155

Essenza del Neoplatonismo, 156-160 — Origine del Neoplatonismo, 161-162 — Plotino e Porfirio, 163-168 — I maestri di Giuliano, 169-184.

L'atteggiamento di Giuliano pag. 185

Filosofia di Giuliano, 186-191 — Il Re Sole, 192-200 — La Madre degli Dei, 201-209 — Il discorso contro Eraclio ed il simbolismo divino, 210-221 — Il trattato contro i Cristiani, 222-241 — Celso e Giuliano, 242-244 — Il Politeismo cristianizzato e le Pastorali di Giuliano, 245-266.

L'azione di Giuliano contro il Cristianesimo pag. 267

Tolleranza religiosa e rigori amministrativi, 268-281 — L'episodio del vescovo Giorgio, 282-285 — Disordini popolari e i Cristiani persecutori, 286-293 — L'incendio del tempio d'Apollo, 294-296 — Richiamo dei Cristiani esigliati, 297-306 — Atanasio perseguitato, 307-314 — Il vescovo di Bostra, 315-320 — La legge scolastica, 321-347.

Il disinganno di Giuliano pag. 349

Indifferenza generale, 350-352 — Il caso di Pegasio, 353-355 — Il Misobarba, 356-359 — Analisi della satira, 360-386 — Importanza del Misobarba, 387.

Il principe e l'uomo pag. 389

Giudizi di Ammiano, 390-401 — Giudizi di Gregorio, 402-416 — Gli scritti di Giuliano, 417 — I panegirici di Costanzo, 418-421 — Il banchetto dei Cesari, 422-432 — La lettera a Temistio, 432-442 — La lettera a Sallustio, 442-448 — Le lettere a Giamblico, 448-456 — Lettere agli amici, 456-468 — I libri di Giorgio, 468-471 — Provvedimenti amministrativi, 471-474 — Giuliano ed Eusebia, 474-481 — Giuliano ed Elena, 481-484.

Conclusione pag. 485

Sguardo riassuntivo, 485-486 — I due principî del Cristianesimo, 486-489 — Assenza d'apparato dottrinario, 489-493 — Gnosticismo, 493-495 — Religione e filosofia, 495-497 — Posizione di Giuliano, 498-500 — Politeismo puritano, 500-504 — Non comprese il principio di redenzione, 504-505 — Mancava, come il Cristianesimo, di spirito scientifico, 505-508 — La civiltà progressiva e la scienza, 508-517 — La condanna di Giuliano, 517 — Le attenuanti, 518-519.

NOTE

[1]

A travers l'Apulie et la Lucanie par F. Lenormant, Vol. I, pag. 271 e seg.

[2]

Liban., edit. Reiske, I vol. 580, 15.

[3]

Dissi finora, perchè un libro di Paul Allard: Julien l'Apostat, 1899, di cui è uscito un primo volume, pare voglia colmare la lacuna. Ma la grande difficoltà che si incontra nel parlar di Giuliano è quella di serbarsi assolutamente imparziale. Se lo storico è un credente appassionato, non può non guardare con una preconcetta antipatia, più o meno celata, quest'audace ribelle, prostrato dalla maledizione della Chiesa; se lo storico è un libero pensatore, è trascinato a nascondere a sè stesso i gravi difetti e gli errori del suo eroe. E non mi pare che l'Allard, per quanto critico dotto e sereno, sia affatto esente da quel pregiudizio di antipatia che a lui viene dal punto di vista ortodosso da cui guarda e scrive.

[4]

Juliani Imp. librorum contra Christ. quæ supersunt. Lipsia, 1880.

[5]

Julien l'apostat et sa philosophie. Paris, 1877.

[6]

Flavius Claudius Julianius nach der Quellen. Gotha, 1896.

[7]

Kaiser Julian. Seine Iugend und Kriegsthaten. 1900.

[8]

Kaiser Julians religiose und philosophisce uberzeugung. 1899.

[9]

La fin du paganisme. Paris, 1894.

[10]

Real-Encyklopedie: Julian der Kaiser. Leipzig, 1880.

[11]

Geschichte der Reaction Kaiser Julians. Jena, 1877.

[12]

Il mio libro era già stampato, quando io venni a conoscenza di uno studio di Alice Gardner: Iulian philosopher and emperor, London 1899. — È uno studio di piacevole lettura, elegantemente composto, che esaurisce, riassumendola, tutta l'azione di Giuliano, e che rivela un senso giusto ed acuto del valore delle varie fonti.

[13]

Görres, Die verwandten morde Costantin's des grossen. — Zeits. für wissens. Theol. 1887.

[14]

Iuliani imp. quæ supersunt — recensuit Hertlein, pag. 349, 10 sg.

[15]

Libanii orationes — recensuit Reiske, Vol. I, 524, 19 sg.

[16]

Amm. Marcell. libri qui supersunt — recensuit Gardthausen, Vol. I, 285, 12. Per verità dalla frase di Ammiano risulterebbe che Giuliano fu educato da Eusebio in Nicomedia. Ma, siccome Eusebio, nel 338 o 339, passava dalla sede di Nicomedia a quella di Costantinopoli, bisognerebbe ammettere che il vescovo ha educato ed istruito Giuliano negli anni della sua infanzia, cosa poco verosimile. È, invece, naturale che l'arianeggiante Eusebio, venuto a Costantinopoli, come uomo di fiducia di Costanzo, fosse incaricato dell'educazione del principe giovanetto. Probabilmente, Ammiano, sapendo che Eusebio era stato educatore di Giuliano, con la solita inesattezza degli scrittori antichi, ha confuso il soggiorno, fatto da Giuliano, assai più tardi in Nicomedia, con un supposto soggiorno anteriore, che non è provato da nessun altro documento, e che è, in fondo, già dimostrato impossibile dallo stesso Ammiano, quando dice che Giuliano, ritornando imperatore a Nicomedia, ritrovò le antiche conoscenze da lui fatte durante la sua educazione sotto Eusebio. Quali conoscenze poteva aver avute un bambino non ancora settenne?

[17]

Iulian., 454, 15.

[18]

βέλτιστος σωφροσύνης φὐλαξ (Lib. I, 525, 13).

[19]

Mi pare evidente che Giuliano qui non parli più di Mardonio, ma di altra persona che era nota agli Antiochesi. Ma chi era questo vecchio? Probabilmente Giuliano allude a qualcuno dei suoi maestri di Nicomedia, e la posizione eminente in cui pare si trovi il vecchio fa pensare a Massimo.

[20]

Iulian., 452, 16 sg.

[21]

Amm. Marcell., Vol. I, 271, 4 sg.

[22]

Sozomeni hist. — illustravit Valesius, 483.

[23]

Iulian., 350, 2 sg.

[24]

Gregorii Nazianz. opera — Parisiis, 1630, orat. 3, 58.

[25]

κρύπτων εν επιεικείας πλάσματι το κακοήθες. 59.

[26]

πρωφάσει δῆθεν ὤς τὁν ἢττω γυμνάζων λόγον, τὸ δε ὀντως γυμνασίᾳ κατα τῆς αληθείας 61.

[27]

Iulian., 488, 16.

[28]

Geschichte der Reaction Kaiser Julians, 32.

[29]

Gregor. Naz., Orat. 3, 62.

[30]

Socratis hist., illustr. Valesius, 151.

[31]

Liban., I, 526, 9 sg.

[32]

Idem, 1, 527, 10 sg.

[33]

Liban., I, 159, 2 sg.

[34]

Eunapii ritas sophistarum recensuit Boissonade, 50.

[35]

Iulian., 351, 18 sg.

[36]

Amm. Marcell., Vol. I, 43, 3.

[37]

Iulian., 351, 27 sg.

[38]

Amm. Marcell., 1, 47, 3.

[39]

Iulian., 353, 10 sg.

[40]

Iulian., 152, 2 sg.

[41]

Idem, 352, 10 sg.

[42]

Idem, 152, 11 sg.

[43]

Liban., I, 532, 4 sg.

[44]

Gregor. Naz., orat. IV, 121-22.

[45]

Amm. Marcell., Vol. I, 49.

[46]

Idem, Vol. I, 59.

[47]

Idem, Vol. I, 64. — Iulian., 352, 24 sg.

[48]

Iulian., 354, 13 sg. ἡγήσατο γὰρ ἁπανταχοῦ μοι και παρέστησεν απανταχόδεν τοὺς φύλακας ἐξ Ηλίου και Σελήνης αγγέλους λαβοῦσα.

[49]

Iulian., 353, 26 sg.

[50]

Idem, 355, 3.

[51]

Iulian., 355, 14 sg.

[52]

Amm. Marcell., 64.

[53]

Liban., I, 378-79.

[54]

Amm. Marcell., I, 67.

[55]

Iulian., 159, 4 sg.

[56]

Idem, 158, 8 sg.

[57]

Eunapio ci dà il nome di questi due. Il servo fedele era Evemero, il medico Oribasio. Eunap. 54.

[58]

Iulian., 357, 2 sg.

[59]

Kock, Kaiser Julian. — Allard, Julien l'Apostat.

[60]

Amm. Marcell., Vol. I, 67, 29.

[61]

Amm. Marcell., I, 77, 14 sg.

[62]

Amm. Marcell., I, 82, 5 sg. II, 40, 2.

[63]

Idem, I, 80, 6 sg.

[64]

Idem, I, 100, 25 sg.

[65]

Iulian., 359, 1.

[66]

Amm. Marcell. I, 95, 7 sg.

[67]

Idem, I, 96, 13 sg.

[68]

Liban., I, 539, 5 sg.

[69]

Amm. Marcell., I, 98, 11.

[70]

Idem, I, 102, 23 sg.

[71]

Ammiano, che non prese parte alla campagna della Gallia, ci dà una descrizione così dettagliata della battaglia di Strasburgo, da non lasciar dubbio ch'egli adoperava la fonte di un testimonio oculare. Ora, da due frammenti di Eunapio ed anche, forse, da un passo di Zosimo (3, 2, 8), si può dedurre che doveva esistere una narrazione, scritta da Giuliano stesso, e, forse non solo di questa battaglia, ma anche di una parte almeno della sua campagna contro i barbari. Del resto anche il medico Oribasio, che era al fianco di Giuliano, aveva lasciato delle memorie di ciò che aveva veduto, υπομνήματα di cui Zosimo fece uso.

[72]

Amm. Marcell., I, 110, 25 sg.

[73]

Idem, I, 115, 5 sg.

[74]

Amm. Marcell., I, 116, 12 sg.

[75]

Costui era Sallustio.

[76]

Liban. I, 549, 18 sg.

[77]

Amm. Marcell., I, 129, 21 sg.

[78]

In questa campagna contro i barbari renani è interessante il racconto di Zosimo (3, 7) da cui risulta che Giuliano seppe approfittare dell'aiuto offertogli da un brigante famoso, di nome Carietto, episodio curioso di cui tacciono Giuliano ed Ammiano, forse, per non attenuare lo splendore eroico delle gesta cesaree. Questo Carietto fu poi aggregato regolarmente all'esercito romano (Amm. II, 94, 9).

[79]

Iulian., 360, 10 sg.

[80]

Amm. Marcell., I, 201, 15 sg.

[81]

Amm. Marcell., I, 203, 15 sg.

[82]

Idem, I, 204, 4 sg.

[83]

Amm. Marcell., I, 208, 10 sg.

[84]

Iulian., 363, 26 sg.

[85]

Amm. Marcell., I, 110.

[86]

Iulian., 494, 20 sg.

[87]

Eunap., 104.

[88]

Idem, 53.

[89]

Iulian., 362, 8 sg.

[90]

Amm. Marcell., I, 269, 6 sg.

[91]

Amm. Marcell., I, 198, 5 sg.

[92]

Idem, I, 153, 20 sg.

[93]

Idem, I, 217, 20 sg.

[94]

Amm. Marcell., I, 215, 10 sg.

[95]

Idem, I, 219, 15 sg.

[96]

Idem, I, 219, 29 sg.

[97]

Amm. Marcell., I, 94, 13 sg.

[98]

Il mistero della morte di Elena fu, dai nemici di Giuliano, adoperato contro la sua memoria, allora che il vilipenderla divenne un titolo di onore e di favori. Noi sappiamo da Libanio come un certo Elpidio, il quale aveva cercato di creare imbarazzi a Giuliano quando era nella Gallia, e di sollevargli contro l'esercito (Liban., II, 321, 10 sg.), spargesse la calunnia che Elena fosse stata avvelenata da un medico del seguito di Giuliano, per volere di Giuliano stesso. Libanio insorge, con tutta la forza della sua onesta affezione, contro la stolta menzogna, e, siccome se ne faceva propagatore, in Antiochia, un suo amico e discepolo, Policleto, egli rompe ogni relazione con lui, e non lo riceve più in casa sua (Liban., II, 316 sg.). A questo Policleto dirige un discorso per dimostrargli la stoltezza dell'accusa e l'indegnità del calunniatore Elpidio, uomo spregevole per ogni rispetto, che aveva tentato di tradire Giuliano, e da lui era stato perdonato.

[99]

Amm. Marcell., I, 234, 18 sg.

[100]

Iulian., 367, 27 sg.

[101]

Iulian., 369, 20 sg.

[102]

Liban., I, 558, 1 sg.

[103]

Amm. Marcell., I, 233, 12 sg.

[104]

Amm. Marcell., I, 286, 19 sg. — Iulian., 369, 1 sg.

[105]

Idem, I, 238, 12 sg.

[106]

Amm. Marcell., I, 239, 1 sg.

[107]

Idem, I, 243, 23 sg.

[108]

Iulian., 268, 10.

[109]

Liban., I, 388, 8 sg.

[110]

Idem, I, 417, 2 sg.

[111]

Amm. Marcell., I, 244, 8 sg.

[112]

Amm. Marcell., I, 246, 10 sg.

[113]

Idem, I, 247, 12 sg.

[114]

Liban., I, 415, 18 sg.

[115]

Amm. Marcell., I, 252, 15 sg.

[116]

Idem, I, 255, 13 sg.

[117]

Amm. Marcell., I, 258, 13.

[118]

Amm. Marcell., I, 266, 23 sg.

[119]

Amm. Marcell., I, 222, 5 sg.

[120]

Idem, I, 268, 21.

[121]

Liban., I, 573 sg.

[122]

Liban., I, 573, 10 sg.

[123]

Amm. Marcell., I, 269, 13 sg.

[124]

Liban., I, 565, 12 sg.

[125]

Socrate, lo storico ecclesiastico, parlando dell'epurazione fatta da Giuliano coll'espellere dalla reggia le turbe di cuochi, di barbieri, di eunuchi, di parassiti d'ogni genere, nota come pochi lodassero tali atti del giovane imperatore, mentre i più li biasimavano, perchè col diminuire la magnificenza della reggia, diminuiva insieme il prestigio dell'impero, ed aggiunge un'acuta osservazione; un imperatore, egli dice, può fare il filosofo, però con temperanza e misura, ma il filosofo che vuole far l'imperatore, passa il segno e cade negli spropositi. (Socrat. 139).

[126]

Amm. Marcell., I, 271, 4 sg.

[127]

Amm. Marcell., I, 273, 11 sg.

[128]

Zosimi Historiae — recensuit Reitemeier, pag. 151.

[129]

Amm. Marcell., I, 316, 15 sg.

[130]

Liban., I, 593, 5 sg.

[131]

Liban., I, 577, 7 sg.

[132]

Iulian., 516, 4.

[133]

Amm. Marcell., I, 311, 14.

[134]

Zosimo, 228, 1 sg.

[135]

Amm. Marcell., I, 312, 20 sg. Zosimo, 229, 1 sg.

[136]

Amm. Marcell., I, 319, 1 sg.

[137]

Zosimo, 226-264.

[138]

Amm. Marcell., II, 11, 22 sg. — Zosimo, 243, 7 sg. — Liban., I, 597-98.

[139]

Amm. Marcell., II, 12, 33 sg. — Zosimo, 245, 1 sg.

[140]

Liban., 604, 10 sg.

[141]

Amm. Marcell., II, 22, 15 sg. — Zosimo, 255-58.

[142]

Amm. Marcell., II, 25, 22 sg. — Zosimo, 258.

[143]

Liban., I, 610, 3. ἔτεινε τον λογισμὸν πρὸς τοὺς Ινδῶν ποταμούς.

[144]

Idem, II, 610, 10.

[145]

Gregor. Naz., 115, D.

[146]

Amm. Marcell., II, 26, 5.

[147]

Amm. Marcell., II, 27, 17 sg.

[148]

Idem, II, 31, 13 sg. — Zosimo, 261.

[149]

Amm. Marcell., II, 33, 15 sg.

[150]

Amm. Marcell., II, 47, 20.

[151]

Liban., I, 612, 10 sg.

[152]

οῖς ην ἑν σπουδῆ τὸν ἄνδρα αποθάνειν. — Liban., II, 32, 1 sg.

[153]

ων τιμωμένον απεπνίγοντο. — Liban., II, 48, 1 sg.

[154]

Και νυν ῆσαν οὶ ὲν γονίαις λέγοντες ὃπως ἃπαν τὸ δρᾶμα συνετέθη.

[155]

Sozomen., 517.

[156]

Amm. Marcell., II, 37, 19 sg.

[157]

Liban., 614, 10 sg.

[158]

Zosimo, 150.

[159]

Sozom., 331.

[160]

Liban., II, 161. — ηγησάμενος αύτῳ λνσιτέλειν ἕτερόν τινα νομίζειν θεὸν.

[161]

Sozom., 432.

[162]

κόσμος αισθητός.

[163]

κόσμος νοητός.

[164]

Euseb. histor. recognovit Schwegler, 219.

[165]

Euseb., 277, 20 sg.

[166]

Euseb., 342, 10 sg. — τοῖς ιεροῖς μαθήμασι συγκεκροτημένος.

[167]

Socrate, 8. — φιλοτιμότερον περὶ τῆς αγίας τρίαδος, εν τριάδι μονἀδα εῖναι φιλοσοφῶν, ἑθεολόγεί.

[168]

Socrate, 9. — τοῖς αγαπητοῖς καὶ τιμιωτάτοις συλλειτουργοῖς τοῖς απανταχου της καθολικῆς εκκλησίας.

[169]

Socrate, 12. — Sozom., 348.

[170]

Socrate, 13.

[171]

Socrate, 19.

[172]

Sozom., 357.

[173]

Socrate, 36.

[174]

Idem, 50.

[175]

Idem, 62.

[176]

Amm. Marcell., I, 271, 15.

[177]

Socrate, 88.

[178]

Idem, 89.

[179]

ὅμοιον λέγομεν υιὸν τῳ πάτρι ως λέγουριν αι θεῖαι γράφαι και διδάσκουσι. — Socrate, 126.

[180]

Gummerus, Die homöusianische partei, 1900.

[181]

Confess., 8, 2 sg.

[182]

Müller, Kirchengeschichte, p. 206.

[183]

Amm. Marcell., II, 100.

[184]

Müller, Kirchengeschichte, 199 sg. — Harnack, Dogmengeschichte, II, 413 sg. — Hatch, Griechentum und Christentum. — Marignan, La foi chrétienne.

[185]

Confess. — Lib. 8.º

[186]

Allard, Julien l'Apostat, 329.

[187]

Negri, Meditazioni vagabonde, 439.

[188]

Queste notizie son date da Porfirio, in un brano del suo Trattato contro i Cristiani, riprodotto da Eusebio (Lib. 6, cap. 19). Quest'ultimo confuta, in parte, Porfirio, sostenendo che Ammonio è sempre rimasto cristiano. I critici moderni (Zeller. 3, 450, 459) dimostrano erronea la confutazione di Eusebio, ma, da parte loro, pongono in dubbio la relazione di Origene con Ammonio, e credono possibile un equivoco fra l'Origene cristiano ed un altro Origene, pure scolaro di Plotino. Ma la testimonianza di Porfirio a me pare fortissima. Porfirio era quasi contemporaneo di quei personaggi, ed egli aveva le sue notizie dalla fonte diretta di Plotino, che aveva vissuto nella scuola di Ammonio.

[189]

φήσας πειρᾶσθαι τὸ εν ημῖν θεῖον ανάγειν πρὸς τὸ εν τῷ παντὶ θεῖον, αφῆκε τὸ πνεῦμα.

[190]

Eunap., 10-19.

[191]

Zeller, Die Philosophie der Griechen. — 3º v., 678 sg. — Ritter et Preller, Historia philosophiæ græcæ. — 546 sg.

[192]

Eunap., 27.

[193]

Eunap., 49.

[194]

έκεῖθεν ρύδην εμφοροῦ σοφίας απὰσης καὶ μαθημάτων.

[195]

Eunap., 50 sg.

[196]

Eunap., 63. — Amm. Marcell., II, 170.

[197]

Iulian., 304, 21 sg.

[198]

Eunap., 59.

[199]

66. — αρμονὶαν τὶνα και επιμέλειαν πρὸς τὸ ανθρώπειον εμφυτεύων τοῖς μαθηταῖς.

[200]

67. — γελῶν τὴν ανθρωπίνην ἀσθένειαν.

[201]

Eunap., 109.

[202]

Eunap., 111.

[203]

Eunap., 104. — ό δὲ τοσοῦτον ἐπλεονέκτει ταῖς αλλαις ἀρεταῖς, ὥστε καὶ βασιλέα τόν Ιουλιανὸν απἐδειξε.

[204]

Zeller, V. 3, 734 sg.

[205]

Iulian., 565.

[206]

Iulian., 204, 4 sg.

[207]

Iulian., 168-69.

[208]

τρίτος ὄ φαινόμενος οὑτοσὶ δίσκος ἐναργῶς αῖτιός ἐστι τοῖς αἰσθητοῖς τῆς σωτηρίας. Iulian., 172, 19 sg.

[209]

τὸ φῶς οὐκ εἶδός ὲστιν άσώματόν τι και θεῖον τοῦ κατ ἐνέργειαν διαφανοῦς. Idem, 173, 1.

[210]

S. Giovanni, 1, 4-9.

[211]

ύπεκτίθεσθαι τὸν τόκον.

[212]

Iulian., 188, 5 sg.

[213]

Iulian., 203, 4 sg; 205, 5 sg.

[214]

Iulian., 207, 5 sg.

[215]

λείπεται δὴ λοιπὸν ὰύλους αἰτίας ζητειν ενεργείᾳ προτεταγμένας τῶν ἐνὺλων.

[216]

Iulian., 212, 19 sg.

[217]

Iulian., 215. 5 sg.

[218]

Iulian., 217, 8 sg.

[219]

Idem, 219, 13 sg.

[220]

Iulian., 220, 8 sg.

[221]

Iulian., 232, 13 sg.

[222]

Iulian., 564.

[223]

Iulian., 290, 7 sg.

[224]

Iulian., 284, 19 sg.

[225]

Idem, 280, 1 sg.

[226]

Idem, 280, 15 sg.

[227]

Iulian., 303, 3 sg.

[228]

Iulian., 296, 2 sg.

[229]

Tertull., De Carne Chr., 5, 898.

[230]

Liban., I, 581, 17 sg.

[231]

Neumann. — Iulian, Libr. contra Christ. quæ supersunt, 163.

[232]

Neumann, 177, 7 sg.

[233]

Neumann, 179.

[234]

Intende il dio ucciso e sepolto.

[235]

Neumann, 199.

[236]

Idem, 208.

[237]

Neumann, 213.

[238]

Neumann, 216 sg.

[239]

Neumann, 221 sg.

[240]

Neumann, 225.

[241]

Idem, 228 sg.

[242]

Neumann, 232. τὴν δὲ ὰλήθειαν ουκ ἔνεστιν ιδεῖν έκ ψιλοῦ ρήματος, αλλὰ χρή τι καὶ παρακολυυθῆσαι τοῖς λόγοις εναργὲς σημεῖον, ὄ πιστώσεται γενόμενον την εις τὸ μέλλον πεποιημένην προαγόρευσιν.

[243]

Un piccolo brano del trattato di Giuliano, non compreso fra quelli confutati da Cirillo, venne testè pubblicato da due eruditi del Belgio, i signori Bidez e Cumont, in un loro saggio — Sur le tradition manuscrite des lettres de Julien — il quale dovrebbe essere l'introduzione di una desiderata edizione veramente critica delle lettere dell'Imperatore. Quel brano trovasi in un frammento di una confutazione che Areta, vescovo di Cesarea, nel 10º secolo, avrebbe scritto del trattato di Giuliano, frammento scoperto in una biblioteca di Mosca. Con questo testo il Neumann (Theol. Liter. Zeitung, 1899) è riuscito a ricomporre il passo genuino di Giuliano, che probabilmente apparteneva al secondo libro del trattato giulianeo. Il breve passo è interessante come prova della sottigliezza del polemista, il quale, ricordando l'affermazione del Vangelo di Giovanni che il logos è venuto a toglier via dal mondo il peccato, e mettendola in faccia al disordine ed alle discordie di cui era stato causa l'introduzione del Cristianesimo, disordine e discordie già previste dai Vangeli sinottici, tende a ferire la dottrina della divinità del logos, ad a porre in contraddizione il quarto Vangelo coi tre primi.

[244]

T. Keim, Celsus wahres wort — 1893.

[245]

Keim, 63.

[246]

Keim, 39, «Τοσοῦτον ποιεῖ ὴ πίστις οποία δὴ προκατασχοῦσα».

[247]

Iulian., 371-392.

[248]

Idem, 552-555.

[249]

Idem, 585-588.

[250]

Iulian., 374. φαίην δ’ἅν, εἰ καὶ παράδοξον είπεῖν, ὅτι και τοῖς πολεμίοις ἐσθῆτος και τρυφῆς ὄσιον ὰν εἵν μεταδιδόναι. Τῷ γὰρ ανθρωπίυῳ και ού τῷ τρόπω δίδομεν.

[251]

Neumann, 191.

[252]

Iulian., 277.

[253]

Iulian., 375. ἄνθρωπος γαρ ανθρώπῳ και εκὼν και ἂκων πᾶς έστι συγγενής.

[254]

Idem, 377.

[255]

Iulian., 359 sg.

[256]

Idem, 385 sg.

[257]

Iulian., 388 sg.

[258]

Idem, 390.

[259]

Iulian., 391.

[260]

Iulian., 512.

[261]

Iulian., 552 sg.

[262]

ώς πρῶτον αὺτοκράτωρ ἄκων έγενόμην ἱσασιν οὶ θεοι.

[263]

Iulian., 356, 19 sg.

[264]

Ammian. Marcell., I, 271, 8 sg.

[265]

Amm. Marcell., I, 271, 15.

[266]

Gregor., orat. 3ª, 72-74.

[267]

Socrat., 151.

[268]

Socrate, 153.

[269]

«διωγμὸν δὲ λεγω οπωσοῦν ταράττειν τοὺς ῄσυχάζοντας».

[270]

Sozom., 488.

[271]

Liban., I, 562, 10.

[272]

κᾲν ὴ χείρ θυη, μέμφεται ὴ γνώμη.

[273]

ἔστι σκιαγραφία τις μετάβολῆς, οὖ μετάστασις δὁξης.

[274]

Liban., I, 562, 23 sg.

[275]

Idem, I, 565, 3.

[276]

Ammian. Marcell., I, 269, 13 sg.

[277]

Idem, I, 267, 7 sg.

[278]

Iulian., 503.

[279]

Iulian., 503, 10 seg.

[280]

Amm. Marcell., I, 271, 17 sg.

[281]

Iulian., 559, 18 sg.

[282]

Iulian., 485, 14 sg.

[283]

Iulian., 562, 5 sg.

[284]

Amm. Marcell., I, 289, 28 sg.

[285]

Iulian., 488.

[286]

Sozom., 492 sg.

[287]

Idem, 487 sg. — Gregor., 91.

[288]

Vedansi, insieme a questa, le leggi contenute nel Codice Teodosiano, sotto il titolo de paganis, sacrificiis et templis. — Liban., II, 148 sg.

[289]

Liban., II, 153.

[290]

οί σωφρονίσται.

[291]

Liban., II, 164, 2 sg. È interessante il vedere come il giudizio di Libanio sull'opera rapace del clero e dei monaci si accordi con quello di Zosimo il quale dice che costoro «col pretesto di dar tutto ai poveri hanno impoverito tutti» (449). Chi fossero i σωφρονίσται è chiarito da una legge di Teodosio del 392. Sono quei defensores e quei curiales ai quali l'imperatore commette la cura di vegliare all'osservanza del suo divieto d'ogni culto pagano, e di deferire ai giudici i trasgressori. Il discorso di Libanio è rimasto senza effetto, anzi ebbe un risultato opposto a quello che egli ne sperava. Infatti, mentre dalla sua parola appare che, se eran vietati i sacrifici, non lo era il rito dell'incensamento, la legge del 392, posteriore al discorso lo vieta esplicitamente, e minaccia la confisca di tutti i luoghi dove l'incenso avesse fumato: «omnia loca quae turis constiterit vapore fumasse fisco nostro adsocianda censemus».

[292]

Liban., II, 178.

[293]

Idem, 194, 10 sg.

[294]

Liban., 202, 10 sg.

[295]

Sozom., 508; ῳ γαρ διατρίρη έκτος έρωμένης ἐν Δὰφνῇ ετΰγχανεν, ηλΐθιος τε και ἄχαρις εδόκει.

[296]

Iulian., 466, 1 sg.

[297]

Sozom., 511.

[298]

Iulian., 522.

[299]

Socrat., 108.

[300]

Iulian., 547.

[301]

η το μεν κάλλος ου συνεχώρει υπονοεῖσθαι ενθάδε διάγειν τον ιερέα.

[302]

και ὄσα φὑσις υπομένειν βιάζεται εν ταῖς κατεπειγόυσαις χρείαις.

[303]

Sozom., 489

[304]

Iulian., 514.

[305]

Iulian., 484.

[306]

Iulian., 556.

[307]

Socrat., 152. — Sozom., 500.

[308]

Pag. 281.

«Agli abitanti di Bostra».
[309]

Iulian., 559 sg. — Sozom., 501.

[310]

Pag. 281.

[311]

Euseb., 375.

[312]

Amm. Marcell., I, 263.

[313]

SieversDas leben des Libanius. BoissierLa fin du Paganisme.

[314]

Gregor., orat. 3, 97.

[315]

Socrat., 151

[316]

Amm. Marcell., I. 289.

[317]

Iulian., 544 sg.

[318]

Iulian., 484.

[319]

Iulian., 555.

[320]

Idem, 515.

[321]

οὐκ ὲλήφθη τῆ νὁσῳ.

[322]

Liban., 249.

[323]

Iulian., 603.

[324]

Amm. Marcell., I, 287, 3 sg.

[325]

Iulian., 433, sg.

[326]

Non si dimentichi che Giuliano, per artifizio d'ironia, ripete, quasi confermandoli, gli scherzi dei suoi denigratori.

[327]

Iulian., 440, 10 sg.

[328]

Qui Giuliano deride il culto dei sepolcri dei martiri, praticato con fervore dai Cristiani e da lui considerato come ridicola superstizione.

[329]

Iulian., 433, 15 sg.

[330]

Iulian., 449, 3 sg.

[331]

Pag. 24.

[332]

Iulian., 458, 10 sg.

[333]

S'intendono gli altari cristiani. Si noti l'atroce insinuazione.

[334]

Intende per ateismo il Cristianesimo.

[335]

Iulian., 463, 15 sg.

[336]

Iulian., 467, 1 sg.

[337]

Iulian., 469, 12 sg.

[338]

Iulian., 476, 1 sg.

[339]

Vedi per questo episodio dei prezzi delle derrate, Libanio (επιταφ 587, 10 sg.), e Autobiogr. 85, 5.

[340]

Liban., I, 492, 15.

[341]

Liban., I, 502, 1 sg.

[342]

Amm. Marcell., II, 40, 29 sg.

[343]

L'ufficio minore è quello di Cesare, il maggiore quello di Augusto.

[344]

Liban., 510, 5.

[345]

Liban., 516, 15.

[346]

νομίζων άδελφὰ λόγους τε καί θεῶν ιερὰ.

[347]

Liban., 575, 15.

[348]

Liban., 579, 5.

[349]

Idem, 580, 10 sg.

[350]

Liban., 617, 5 sg.

[351]

Probabilmente Libanio allude a Massimo.

[352]

Liban., 408, 5 sg.

[353]

Idem, 413, 10 sg.

[354]

Liban., 564, 15 sg.

[355]

Liban., 508, 10.

[356]

Idem, 582, 10.

[357]

Amm. Marcell., II, 42, 30.

[358]

Gregor., 49.

[359]

Idem, 50. — άσοφος, ιν' οϋτως ονομάσω, σοφία.

[360]

Idem, 64.

[361]

την ὀρθὴν δὸξαν παρακίνεῖν ἔδοξεν.

[362]

τὸν βαλλόμενον τὴν κρηπίδα της βασιλικῆς τῳ χριστιανισμῷ δυναστείας και πίστεως

[363]

Gregor., 119.

[364]

Idem, 70 sg.

[365]

Gregor., 72.

[366]

Idem, 73.

[367]

και ἦν λίαν απάνθρωπον αὺτῳ τὸ φιλάνθρωπον.

[368]

Idem, 74.

[369]

Gregor., 76 sg.

[370]

Liban., II, 164, 5 sg.

[371]

Gregor., 75.

[372]

ινα μὴ μάρτυρας εργάσεται τοὐς ὂσον τὸ επ' αυτοῖς μάρτυρας. — Gregor., 85 sg.

[373]

Gregor., 102 sg.

[374]

Amm. Marcell., I, 288.

[375]

Gregor., 111. — ου γαρ εγὲνετο ποριμώτερα φύσις εκείνης εἰς κακου εύρεσιν καὶ επίνοιαν.

[376]

Gregor., 126.

[377]

Gregor., 132 sg.

[378]

Iulian., 277, sg.

[379]

ἑμοί οὐ σχολὴ τἀς μουσας ἐπὶ τοσοῦτον θεραπεύειν, ἀλλ' ὤρα λοιπὸν πρὸς ἔργον τρέπεσθαι. Iulian., 130.

[380]

Il prof. R. D'Alfonso, in un suo saggio sugli scritti di Giuliano di cui non venni a conoscenza se non dopo pubblicato il mio libro, saggio che, per la padronanza delle fonti e per l'acume e l'imparzialità del giudizio, è un eccellente contributo agli studii giulianei, sostiene una tesi che a me pare un poco arrischiata, la tesi, cioè, che i panegirici di Costanzo siano stati scritti da Giuliano con un'intenzione d'ironia, così che, invece d'essere l'espressione di un opportunismo deplorevole, sarebbero un attacco acerbo, per quanto velato, contro il nuovo e sempre infido protettore. Ora, che Giuliano, nel segreto del suo pensiero, non prendesse sul serio le lodi smaccate ch'egli profonde al cugino, è cosa indubitabile. Ma ciò non basta a dare al suo discorso il carattere dell'ironia. Bisognerebbe, per questo, che, avendo qualche interesse a lasciar trasparire il suo vero pensiero, avesse scritto in modo che gli uditori o i lettori potessero coglierlo sotto una parola che dice l'opposto di ciò ch'egli intende. Ora, questi panegirici furono scritti nella luna di miele della conciliazione di Giuliano con Costanzo, il primo, probabilmente durante il suo soggiorno a Milano, il secondo, in Gallia, alla vigilia di una delle sue prime campagne. Giuliano aveva accettata la sua nuova posizione che faceva di lui il secondo personaggio dell'impero. Ciò posto, egli doveva ragionevolmente desiderare di consolidar la sua base e di guadagnarsi sempre più il favore dell'imperatore, o, almeno, di dissipare i sospetti che ancora potevano nascondersi nell'animo suo. Quale leggerezza sarebbe mai stata la sua, se, proprio nel momento in cui riceveva da Costanzo l'ufficio di Cesare, e lo teneva in suo nome, egli lo avesse offeso con le punzecchiature di una trasparente ironia! I due panegirici sono scritti, e in parte sono giustificabili, per lo scopo di sradicare la diffidenza che la coscienza delle proprie perverse azioni doveva destare in Costanzo. Il punto più delicato, nei reciproci rapporti fra i due cugini, doveva essere il ricordo della strage perpetrata da Costanzo, alla morte di Costantino, del padre e dei parenti di Giuliano. Ebbene, nel suo primo discorso, questi prende nettamente posizione, ripetendo in proprio nome la scusa sotto cui Costanzo attenuava il delitto. Giuliano parla dei saggi provvedimenti presi da Costanzo nell'assumere l'impero, e poi soggiunge questa frase: «se non che, forzato dalle circostanze, contro tua volontà non impedisti agli altri di commettere degli eccessi. — πλήν εἴ που βιασθεὶς ὑπὸ τῶν καιρῶν ἄκων ἑτέρους ἐξαμαρτανεῖν οὐ διεκώλυσας» (Iulian., 19). Come dimostrammo nella nostra trattazione, questa scusa non scusava affatto Costanzo, ma, in ogni modo, gli dava la scappatoia per la quale sfuggire al biasimo, gittando sugli altri la responsabilità del misfatto. Questa spiegazione era ufficialmente ammessa, era una specie di dogma che, alla corte di Costanzo, bisognava accettare ad occhi chiusi. Giuliano, come lo dice nel manifesto agli Ateniesi, non ci credeva affatto. Ma ciò non toglie che la sua dichiarazione, al momento in cui l'ha fatta, dovesse essere considerata come una garanzia ch'egli dimenticava il passato, e deponeva ogni pensiero di vendetta, ogni sentimento di collera e d'orrore. Compiuto questo passo, che per Giuliano doveva essere il più difficile e ripugnante, al riconoscimento ipocrita della virtù di Costanzo, egli entrava, a vele spiegate e senza ostacoli, nelle acque della retorica adulatrice del suo tempo, e riempiva lo schema del panegirico ufficiale con una materia che, meno che per qualche punto del secondo panegirico, si trovava già confezionata nei magazzeni retorici della scuola.

Ma, se egli non era sincero, voleva esser creduto tale, e, pertanto, l'intenzione ironica, a mio parere, deve essere esclusa dai suoi discorsi. Fino alla battaglia di Strasburgo, Giuliano credette di poter vivere in un pacifico componimento con Costanzo. E, dal canto suo, cercava d'infondere nell'animo del cugino la fiducia in lui e nell'opera sua e coi fatti e con le parole. Certo, Giuliano, nei suoi scritti posteriori vuole farci credere che, fino dal primo giorno, mentre egli passava trionfante, nel cocchio imperiale, per le vie di Milano, egli aveva il presentimento della verità e la certezza del tradimento di Costanzo. Ma noi non dobbiamo prendere alla lettera tutto ciò che l'abile polemista dice in sua difesa. E, d'altronde, dobbiamo fare una larga parte agli effetti della prospettiva storica, la quale diminuisce le distanze e ci fa vedere in iscorcio degli avvenimenti che, nella realtà, si distendono su di una lunga via. Credo, pertanto, di poter concludere che i due panegirici, sono stati scritti da Giuliano, nell'intento reale di far cosa grata a Costanzo, e rispecchiano un momento determinato della vita del nostro eroe.

[381]

Iulian., 109.

[382]

Iulian., 421, 19.

[383]

Idem, 423, 10 sg.

[384]

Iulian., 431, 8 sg.

[385]

Io dissi più su (pag. 121) come, fra i pagani, corresse la voce, riportata da Zosimo, che Costantino si fosse piegato in favore del Cristianesimo, perchè assicurato che questa religione aveva la facoltà di lavare le colpe commesse da un uomo. E nessuno avrebbe avuto maggior bisogno di Costantino di quel lavacro. Dissi anche che quella voce non poteva essere che leggendaria. Difatti Costantino ha perpetrato i suoi maggiori delitti domestici, l'uccisione della moglie Fausta, del figlio Crispo, del nipotino Liciniano, molti anni dopo l'editto di Milano, e, d'altra parte, desiderava così poco il lavacro purificatore, che ha ritardato fin sul letto di morte a chiedere il battesimo. Però è impossibile non riconoscere, nelle parole di Giuliano un'allusione a quella voce, e bisogna dunque concludere che, presso i Pagani contemporanei, essa fosse la spiegazione corrente della conversione di Costantino.

[386]

Socrat., 205. — Sozom., 565.

[387]

Iulian., 328, 1 sg.

[388]

Iulian., 335, 12 sg.

[389]

Iulian., 337, 12 sg.

[390]

Iulian., 340, 20 sg.

[391]

Iulian., 342, 7 sg.

[392]

Pag. 214.

[393]

Iulian., 362, 26. — διὰ τὴν ἁρετὴν εὐθέως αυτῷ γέγονεν ὕποπτος.

[394]

Zosimo, 206, 6.

[395]

Amm. Marcell., I, 316, 15 sg.

[396]

Iulian., 312, 7 sg.

[397]

Iulian., 313, 1 sg.

[398]

Iulian., 315, 4 sg.

[399]

Idem, 322, 5 sg.

[400]

Iulian., 326, 8 sg.

[401]

Amm. Marcell., I, 273, 1 sg.

[402]

Liban., 574, 5 sg.

[403]

Veramente l'autenticità loro è posta in dubbio dallo Zeller (680), perchè sulla fede di Eunapio (21) si afferma che Giamblico morisse vivente ancora Costantino, e, quindi, prima che Giuliano potesse conoscerlo. Ma Eunapio è uno storico tanto infelice e confuso che siamo autorizzati a dubitare dell'esattezza delle sue notizie. E, d'altra parte, non si comprende quale interesse potesse trovare un falsario ad inventare delle lettere di Giuliano a Giamblico, una volta avvenuta la catastrofe di Giuliano e cancellata ogni traccia del suo tentativo. D'altronde, quelle lettere, di cui or vedremo qualche saggio, portano così chiara l'impronta dello stile di Giuliano che a noi pare non si possa negarne l'autenticità. Forse non erano dirette a Giamblico, ma a qualche altro dei capi del movimento neoplatonico, a Massimo od a Crisanzio. Ma, non portando intestazione, un copista, di molto posteriore all'epoca, ingannato dall'iperbole delle lodi, vi metteva, di sua iniziativa, l'indirizzo al maestro sommo della scuola a cui Giuliano si vantava d'appartenere, alterando qua e là il testo, ed inserendo notizie, sopratutto nella lettera 40ª, che non rispondono ai fatti della vita di Giuliano.

[404]

Iulian., 540, 16 sg.

[405]

Iulian., 578, 21 sg.

[406]

Iulian., 482, 21 sg.

[407]

Idem, 494, 1 sg.

[408]

Iulian., 537, 4 sg.

[409]

Idem, 498, 10 sg.

[410]

Iulian., 532, 10 sg.

[411]

Il Basilio, a cui è diretta la lettera che abbiamo riprodotta, non può evidentemente essere Basilio il Grande, il vescovo di Cesarea, il compagno dei due Gregori nella lotta per l'unità della dottrina ortodossa. È vero che Basilio era stato compagno di Giuliano, insieme a Gregorio di Nazianzo, sui banchi della scuola d'Atene. Ma è chiaro che Giuliano non avrebbe mai potuto rivolgersi, in termini tanto amichevoli, ad uno dei più forti campioni del Cristianesimo e chiamarlo a consiglio presso di sè, senza dire poi che, in questa lettera, si parla di un giovane abituato all'ambiente cortigiano, indicazione che in nessun modo si potrebbe applicare a Basilio. Pertanto, questa lettera, indubbiamente autentica, è non meno indubbiamente diretta a tutt'altro Basilio che al Basilio cristiano.

Ma nell'epistolario giulianeo si trova un'altra lettera (pagina 596), la quale, invece, è indubbiamente diretta al Basilio cristiano, ma essa è, non meno indubbiamente apocrifa. La goffa presunzione a cui s'ispira questa lettera, che pare scritta da un volgare millantatore, non può attribuirsi a Giuliano di cui conosciamo la spiritosa modestia. Vi si odora tosto il falsario che scrive ad avvenimenti compiuti. Giuliano descrive in questa lettera, con gonfia iperbole, la grandezza della sua potenza, riconosciuta da tutti i popoli della terra, e disprezzata dal solo Basilio. Per punire costui del suo contegno ostile, gli impone di portargli un enorme contributo in danaro, di cui ha bisogno per l'imminente spedizione di Persia, e minaccia la distruzione di Cesarea, nel caso che il vescovo avesse l'audacia di disobbedirgli. Il contenuto e lo stile della lettera basterebbero a dimostrarne il carattere apocrifo. Ma la prova più evidente è data dalla chiusa, nella quale il falsario adopera a sproposito una notizia di Sozomene. Narra costui che Apollinare di Siria, un letterato cristiano, autore di traduzioni bibliche in versi greci, e di operette morali, fatte sullo stampo dei modelli classici, aveva scritto un trattato contro gli errori filosofici professati da Giuliano e dai suoi maestri. Giuliano, dice Sozomene, letto il trattato, avrebbe risposto ai vescovi che glielo avevano mandato con queste tre parole — Lessi, compresi, condannai. — E i vescovi gli avrebbero, a loro volta, risposto — Leggesti, ma non comprendesti, perchè, se avessi compreso, non avresti condannato. — E Sozomene aggiunge che questa risposta fu da alcuni attribuita a Basilio (Sozomene 507). Ora, il falsario che ha inventata la lettera di Giuliano, vi ha appiccicate, come chiusa, le tre parole scritte dall'imperatore, in risposta al trattato di Apollinare, parole che lì sono affatto fuori di proposito, ed anzi riuscirebbero incomprensibili.

[412]

Iulian., 549, 18 sg.

[413]

Iulian., 521, 11 sg.

[414]

Pag. 71.

[415]

Iulian., 496, 15 sg.

[416]

Koch., Kaiser Iulian. 449.

[417]

Pag. 283.

[418]

Iulian., 487, 11 sg.

[419]

Iulian., 351, 20 sg.

[420]

Amm. Marcell., I, 263.

[421]

Liban., I, 569, 9 sg.

[422]

Liban., I, 570, 11 sg.

[423]

Pag. 37 e sg.

[424]

Fra i moderni, il solo Anatole France, per quello che io so, afferma la realtà dell'amore fra Giuliano ed Eusebia. La nature du sentiment qui unissait Eusébie et Julien n'est guère douteuse... Tel qu'il etait, Eusébie l'aime (Vie littéraire, 4, 252). — Lo spiritoso critico francese, quando scriveva quelle parole, non conosceva ancora il busto d'Acerenza. Se l'avesse conosciuto, avrebbe, forse, trovata nella prestante vigoria della figura di Giuliano, una ragione di più per credere nell'amore della bella imperatrice per lo sventurato cugino.

[425]

Pag. 37, sg.

[426]

Pag. 44, sg.

[427]

Iulian., 140, 5 sg.

[428]

Idem, 154, 16 sg.

[429]

Pag. 41.

[430]

Amm. Marc., I., 240.

[431]

Iulian., 159, 1.

[432]

Zosimo, 150, 1. sg.

[433]

Pag. 76.

[434]

Amm. Marcell., I, 94.

[435]

Iulian., 366, 3 sg.

[436]

Barnaba, 1, 6 — τρία οῦν δόγματα εστιν κυρίοu, έλπίς, δικαιοσύνη, αγάπη.

[437]

Barnaba, 18-21.

[438]

Minucio F., 32, 3.

[439]

Si veda, su questo punto, il recentissimo studio di Carl Schmidt, Plotin's Stellung zum Gnosticismus, 1901.


Milano — ULRICO HOEPLI, Editore — Milano

Nella COLLEZIONE STORICA VILLARI sono finora pubblicati i volumi seguenti:

VILLARI P. Le invasioni barbariche in Italia. 1901, di pag. XVI-480, con tre splendide carte geografiche. L. 6 50

ORSI P. L'Italia Moderna — Storia degli ultimi 150 anni. 1901, di pag. XVI-448, con 48 tavole e tre carte geografiche. L. 6 50

BALZANI U. Le Cronache italiane nel medio evo. 1900, 2ª edizione di pag. XII-323 L. 4 —


In lavoro:

ERRERA C. Storia delle scoperte geografiche.


Dirigere commissioni e vaglia all'Editore Ulrico Hoepli — Milano


Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (responsale/responsabile, principi/principî, sacrifizi/sacrifizî e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le citazioni in greco sono state trascritte integralmente, senza apportare alcuna correzione per eventuali inesattezze ortografiche o grammaticali. Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale):

36 — di nuovo travolto [trovolto] nei pericoli
48 — Mi ha colto la morte purpurea [purperea]
87 — provato nelle ardue campagne [compagne] barbariche
134 — imporre, per tal modo, la concordia [concondia]
134 — un'assemblea obbediente al volere [valore] di Costantino
168 — Porphyrius [Porphyrias] quamdam quasi
177 — trarre a sè, invece del ciarlatanesco [ciarlatenesco]
187 — e della filosofia neoplatonica [neoplatica]
267 — un atto che potesse poi creargli [creagli]
297 — Nelle lettere di Giuliano, troviamo [troviano]
398 — ed essendo concordi [concorde] in questo le testimonianze
401 — senza aver prima esplorate [esplorata] le viscere
467 — se anche dovessi [doversi] cedere il posto

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK L'IMPERATORE GIULIANO L'APOSTATA ***

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