The Project Gutenberg EBook of La Patria lontana, by Enrico Corradini This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org/license Title: La Patria lontana Author: Enrico Corradini Release Date: March 2, 2015 [EBook #48398] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PATRIA LONTANA *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) La Patria lontana ROMANZO DI ENRICO CORRADINI MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1911 =Quarto migliaio.= PROPRIETÀ LETTERARIA. _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda._ Copyright by Fratelli Treves, 1910. Milano. — Tip. Treves. ALLA MEMORIA DI MIA MADRE. LA PATRIA LONTANA I. — Voialtri, insomma, mirate a rovinare il commercio del vino italiano in Argentina? — Si capisce. — Lei ier sera mi diceva che ha fatto educare i suoi figliuoli in Italia e che non può stare senza ritornare in Italia per lo meno ogni due anni. — È vero. — Ma è altrettanto vero che, non ostante questo, Lei non può vantare la sua italianità come faceva ier sera. — Perchè? — Semplicemente perchè Lei è un produttore di vino di Mendoza, vale a dire un nemico dell'importazione del vino italiano in Argentina. Lo ha detto e non potrebbe essere altrimenti. — Ma Lei dimentica che io, laggiù, do lavoro a molti italiani, e più allargo la mia; azienda o più potrò dar lavoro ai nostri connazionali. — Suoi, se mai, miei non più. — Oh! Un grido di protesta si levò dal circolo che si era formato intorno ai due che discutevano, e più voci domandarono: — Nessuno di noi dunque è più italiano? E il produttore di vino di Mendoza andava strillando sugli altri: — Io mi sento italiano, e come, e come, e come! L'altro gli ribatteva: — Per il sentimento non lo nego, ma per il fatto no. Il primo andava ripetendo: — E come, e come, e come! E il secondo: — Per il fatto no! E gli astanti, sette o otto commercianti del Brasile, dell'Uruguay e dell'Argentina, già emigrati d'Italia, facevano coro: — Siamo ancora italiani! Siamo ancora italiani! Quand'ecco s'avanzò un signore il quale portava una lunga barba nera brizzolata e rivolgendosi a quegli de' due che negava all'altro il diritto d'italianità, disse: — Scusi, Buondelmonti, se questo signore è italiano per il sentimento, basta; il patriottismo non è altro che sentimento. Il Buondelmonti squadrò il signore della lunga barba, rimase un po' in silenzio, poi rispose: — No, caro professore, il patriottismo è anche un fatto. — Un fatto, si capisce; tutto è fatto, compreso i sentimenti. — Io dico un fatto di natura economica. — Per il passato sì, lo ammetto; ma ora che le relazioni fra i popoli si sono centuplicate, ora che non esistono più distanze, ora tanto più di prima uno può dire: — La mia patria è il mondo! Il professor Axerio parlava con accento di degnazione, perchè teneva in gran conto se medesimo, mentre sul Buondelmonti seguiva l'opinione che di lui s'eran fatta in Italia, che fosse cioè un uomo d'intelligenza fuorviata. Il Buondelmonti lo squadrò ancora qualche momento senza aprir bocca, come faceva quando discutevano tra di loro, perchè in quei momenti di silenzio, prima di rispondergli, aveva bisogno d'insultarlo mentalmente dentro di sè, tanto lo disprezzava. Tutti e due, il Buondelmonti e il professor Axerio, in cuore si disprezzavano e detestavano l'un l'altro, perchè erano due prototipi d'uomini per intelligenza, per carattere, per cultura, per professione avversi: il professore era sicuro di dare allo scrittore continue lezioni di buon senso, lo scrittore aveva messo al professore il soprannome di pedante de' luoghi comuni; oppure lo chiamava con lo Shakespeare «lingua della bocca comune». Ma in apparenza erano amici. Ora il Buondelmonti squadrò l'Axerio e mentre taceva, si domandava dentro di sè: — Debbo rispondere a questo sciocco? — Gli rispose con un ghigno di beffa e di sdegno fra' denti: — Professore, Lei vuol dire che ora è più facile che per il passato di abbandonare la propria patria come hanno fatto questi signori, come potremmo far noi domani; ma la patria è ora quello che era diecimil'anni fa. — Ma no, ma no! — Lei vuol lasciarmi parlare, vero? Il professore agitava in alto le braccia come se volesse scuotersi di dosso i troppo grossi spropositi dello scrittore, quelli spropositi che in Italia ne screditavano l'intelligenza, quando una mano lo toccò sulla spalla e una voce allegra gli disse: — Jacopo, lascia parlare il signor Buondelmonti. Era la signora Giovanna Axerio, sua moglie, una giovane donna di media statura, con un volto lungo e magretto e i capelli leggiadramente pettinati alla greca e cinti d'un nastro di seta color granato. Alcuni de' commercianti s'eran distaccati dal circolo e trattisi in disparte s'interrogavano e si ragguagliavano tra loro intorno al professore Jacopo Axerio e a Piero Buondelmonti, che cosa fossero o non fossero in Italia. Un altro circolo di signore stava seduto poco discosto; alcune lavoravano e di tanto in tanto levavano gli occhi verso quelli che discutevano. La signora Giovanna Axerio era rimasta accanto al marito e fissava sul Buondelmonti due occhi ilari e intimiditi, con quella leggiadra espressione che ha il fanciullo quando finge timidità per giuoco. Qualcuno le si accostò, s'inchinò profondamente e le baciò la mano; essa gli sorrise con gaia cordialità e si dissero qualche parola. Il sopraggiunto era un signore alto, asciutto, aveva un aspetto della più raffinata compitezza e una punta di canzonatura fra ciglio e ciglio. La signora Axerio gli disse battendo insieme le palme gioiosamente: — Poltrone! Lei si alza ora? — Con vero rammarico, signora mia. — Qui si discute di patriottismo. — Quale fortuna per noi! E così dicendo, il giovane signore serrò in circolo molte mani. Il professor Axerio riprese prorompendo con enfasi: — La patria! Ma tutti si è patriotti! Anche i socialisti son diventati patriotti! E Lei sa che io non sono socialista! — So bene che Lei non è socialista. — Nè socialista, nè uomo del passato! — So bene che Lei è un modello di borghese liberale.... democratico.... radicale.... — Sicuro! E come tale accetto tutte le supreme conquiste del secolo decimonono, non ultima il principio di nazionalità. Il Buondelmonti sentì mille echi di frasi ricorrenti sulla bocca comune e il sangue collerico gli prese fuoco, ma guardando la moglie del suo avversario che continuava a fissarlo sempre più intimidita sul serio, il Buondelmonti si disse dentro di sè che bisognava portare la croce di quello sciocco pedante e rispose: — Io Le accennavo appunto quanto di più semplice, elementare, fondamentale sta sotto il principio di nazionalità. È la stessa prima premessa dell'economia, cioè che gli uomini sono spinti dall'istinto di procurarsi il massimo di piacere col minimo di lavoro. Diciamo piacere sotto forma di possesso, sotto forma di denaro. La patria, la nazione, come la chiamo io più volentieri, perchè ha un senso più pratico, più attivo, la nazione non è se non il campo di concentramento di un certo numero di uomini i quali obbediscono a quell'istinto. La solidarietà nazionale è per lo meno una solidarietà topografica, è la solidarietà del campo di concentramento. Cioè la solidarietà del maggior benessere nel minore spazio; il che, il risparmio di spazio dico, è poi risparmio di tempo e di lavoro. Io so bene che la nazione, che la patria è anche un sentimento, cento immensi sentimenti, ma coloro che non li hanno, possono negarli! So bene che è altri cento, mille immensi fatti, e potrei citarli tutti, ma sono messi in discussione, mentre non si può discutere il fatto elementare, fondamentale, non si può discutere! E perciò dicevo che questi signori praticamente, attivamente, si son posti fuori dell'italianità: perchè non appartengono più al campo di concentramento italiano. Se mai, saranno ancora patriotti, quando si voglia dare a questa parola un senso più spiccato di sentimento, o meglio di sentimentalità; ma non saranno più nostri connazionali nel senso pratico, attivo, di questa parola. Perchè potessero restare italiani, nazionalmente parlando, bisognerebbe che la terra sulla quale lavorano e s'arricchiscono, diventasse italiana. Quando non si voglia chiudere la nazione in un cul di sacco, il solo modo di essere nazionalisti, scusino, patriotti, è di essere imperialisti. I commercianti toccati di nuovo sul vivo non fiatarono, pensarono, e qualcuno disse: — Parla bene —, così come avrebbe detto: — Oggi fa caldo —, per il poco conto in cui simile gente ha tutte le cose, tranne il combinare affari. Le signore le quali sedevano poco discosto, continuavano a levare di tanto in tanto gli occhi dal lavoro verso il giovane eloquente e più verso la signora Axerio la quale ispirava invidia a molte per la leggiadria della sua bellezza e della sua eleganza. Soltanto una non moveva gli occhi, ma li teneva sempre fissi e aperti dinanzi a sè, e non moveva neppure la faccia, nè lavorava, ma teneva le mani distese sulle ginocchia, perchè era cieca. Il giovane signore guardava verso l'orizzonte avendo sulla faccia, dalle belle labbra carnose alle due rughe dritte sul naso fra ciglio e ciglio, un'aria tra il canzonatorio e il compunto, d'una compunzione che era come l'ipocrisia della sua ironia. Guardava come se irridesse l'orizzonte oppure pensasse ai suoi proprii guai, mentre un vento non forte gli moveva indosso le vesti ampie e leggiere. La discussione pareva finita, ma di nuovo l'Axerio spingendo avanti la barba con cipiglio aggressivo, proruppe: — Lei può dire quel che vuole, ma non potrà mai negare il progresso dell'umanità. — Ancora l'eco! — sfuggì questa volta dalla bocca di Piero Buondelmonti. — L'eco? — D'una frase.... — Frase? Voialtri siete fuori del tempo moderno, appartenete al passato! La patria, come la vagheggiate voialtri, vuol guerre, conquiste, ma ora non è più possibile, perchè va sempre più affermandosi la fratellanza dei popoli. Oggi la vita dell'uomo è sacra. La bella e forte gioventù, oggi, non dev'essere macellata sui campi di battaglia; è sacra al lavoro fecondo. Siete uomini del passato! La voce dell'Axerio fischiava, la barba gli sbatteva sul petto convulsamente ed i suoi occhi schizzavano fuoco. Di contro a lui, fronte a fronte, il Buondelmonti disse: — Lei non s'accorge che queste sono frasi fatte, strafatte e disfatte. L'uomo del passato è Lei. — Lei, Lei, Lei! Noi siamo uomini del nostro tempo e dell'avvenire! Del passato è Lei! — Lei, professore. I due avversarii, a voce bassa, senza gestire, si trattavano con le parole come con armi corte; l'un l'altro per un'opinione comune tentavano di strapparsi l'avvenire e di relegarsi tra le generazioni passate, come si sarebbero strappata la vita e si sarebbero messi sotterra per loro propria vendetta. Come se veramente la loro esistenza si estendesse per un tempo senza confine, cercavano di mutilarsi l'un l'altro, di uccidersi nel tempo, tanto l'individuo è sempre pronto a confondersi con la specie. Per fortuna sonò la campanella che chiamava a colazione, il Buondelmonti s'avviò ripetendo dentro di sè nuovi insulti che lì per lì aveva ritrovati contro l'Axerio. — Pedanti dell'altrui ignoranza! Fogne dell'opinione pubblica! La signora Axerio rivolse al Buondelmonti un'occhiata molto seria di rimprovero e si accompagnò col giovane signore il quale le disse: — Uomini di fede, signora mia! — Certo! — rispose la signora con risentimento. — Se Lei stesse un po' più in Italia, saprebbe che il signor Buondelmonti ha molto sofferto per le sue idee. La rissa aperta era scoppiata altrove e fra altra gente poco prima. Le persone le quali avevano discusso e le altre le quali avevano assistito alla discussione, erano appena entrate nella sala da pranzo e s'erano sedute, quando un cameriere s'accostò al medico di bordo il quale insieme col comandante della nave stava alla stessa tavola a cui stavano il giovane signore, di nome Filippo Porrèna, il Buondelmonti e gli Axerio. Il cameriere essendosi accostato al medico gli parlò piano e il comandante vedendo il medico alzarsi in fretta ed essendosi accorto che si trattava di faccende di bordo, domandò che cosa fosse; il medico gli raccontò piano che era avvenuta una rissa fra gli emigranti, e che c'era uno ferito di coltello. Il professore Axerio non osò interrogare per discrezione, ma la sua faccia mostrandosi incuriosita, il comandante non sapendo rifiutar nulla ad uomo tanto celebre, gli accennò l'accaduto. L'Axerio quando sentì parlare di feriti e di sangue, drizzò la barba, e gli brillarono gli occhi, perchè subodorò che ci potesse essere da far qualcosa per la sua scienza e la sua professione, e subito domandò al comandante se gli permetteva di andare a visitare il ferito, e il comandante gli rispose che non c'era angolo dell'«Atlantide» nel quale egli non potesse entrare liberamente come in casa sua. L'Axerio, senza toccar cibo, uscì e si diresse verso prua dove stavano gli emigranti. Gli emigranti tumultuavano ancora; si erano spinti da prua fin verso il mezzo della nave e rimanevano ancora fra loro gli strascichi del tumulto che s'era suscitato alla vista della rissa e del ferimento. L'Axerio attraversò una confusione di gambe, di braccia e di stracci reggendosi a stento per il rullìo della nave sull'impiantito lubrico, ed avendo domandato dove fosse il ferito, subito si levarono intorno a lui due, quattro, dieci, venti voci nelle favelle più diverse, perchè anche fra gli emigranti si era saputo chi era quel signore della prima classe il quale aveva la lunga barba nera. Due, quattro, dieci, venti tra uomini e donne gli si affollarono intorno e tutti gridavano un particolare di ciò che avevano visto o sentito raccontare. Il professor Axerio cercava di farsi largo con un gesto degnevole, tenendo la fronte bassa e la barba sul petto come a difenderla dal contatto della sozzura, ma una donna con i capelli sciolti e gli occhi fuori dell'orbita gli si parava davanti e andava avanti urlando sul tumulto, simile a chi porta una bandiera in una rivolta. Il professore potè giungere alla scala che dava giù nelle cabine dell'infermeria, scese e trovò il ferito nelle mani del medico e dell'infermiere. Gli avevano messo a nudo il tronco e voltatolo sul fianco lo andavano lavando sotto l'ascella dove c'era un largo foro che ancora versava un po' di sangue. Il sudicio inveterato aveva fatto scoria sul corpo dell'uomo, e il bianco della pelle veniva fuori a stento rigandosi subito di sangue appena il medico interrompeva la lavatura. L'Axerio osservata un momento la ferita domandò con brama: — Non ci sarà mica bisogno d'operazione, dottore? — Potrebbe darsi — rispose l'interrogato. — La ferita è larga e dev'esser profonda; è fatta con un coltello da cucina. — Potrebbe esser leso un vaso interno importante. — Potrebbe. — In questo caso avremmo un'emorragia interna. — È quel che sospetto. Veda: l'abbattimento aumenta. — Bisognerebbe allora tagliare per rintracciare il vaso.... — Stiamo a vedere, anche perchè ora la nave si muove troppo. — Potremo operare a Dakar. A che latitudine possiamo essere stamani? — Lo sapremo a mezzogiorno. Ieri eravamo a 23 e 15. — Dakar è? — A 14 e 45. — Sicchè giungeremo? — Nella notte. Il professor Axerio esaminò di nuovo la ferita, la brancicò, cercò intorno battendo con le dita se c'era un principio di versamento interno, vi spinse dentro l'indice e fece ruggire e torcersi sulla spina dorsale l'uomo che era con la faccia voltato dall'altra parte. Dopo di che se n'andò aggiungendo: — Se mai, m'avverte, vero, dottore? Opererei volentieri. Ripassando tra gli emigranti intravide il Buondelmonti in una ressa, si ricordò della discussione e per la prima volta sentì d'odiarlo; e perciò per non incrociare gli sguardi con lui alzò gli occhi verso il ponte della prima classe dove al parapetto che dominava il ponte basso degli emigranti a prua, scorse altri passeggieri che guardavano, fra i quali sua moglie e il Porrèna, perchè già il ferimento s'era risaputo da più d'uno. C'erano alcuni nella prima classe i quali sentivano o ostentavano di sentire nausea e ribrezzo per quel carnaio umano che attraversava l'oceano insieme con loro. Altri poi, la gran maggioranza che da mattina a sera si saziava di chiacchiere godendosi l'ozio della navigazione fra la sala da pranzo e il salotto per fumare, non se n'occupavano e non ne sapevano nulla. Ma altri invece sentivano compassione di quel migliaio di vite miserrime che respiravano vicino, e altri infine vi cercava il pittoresco, il non più visto, era attratto dallo stesso orrido e dallo stesso lurido; perchè nessuno aveva conosciuto in terra uno spettacolo di moltitudine come quello offerto agli occhi di chi riguardava dall'alto del ponte il rifiuto del mondo che formicolava giù a prua. C'erano sull'«Atlantide» napoletani, calabresi, siciliani, veneti, come c'erano d'altre nazioni d'Europa, d'Asia e d'Affrica, spagnuoli, tedeschi, polacchi, arabi e turchi di Siria, della Tripolitania e della Tunisia. C'erano bellissime giovanette arabe con grandi occhi neri stupefatti in una faccia di perla, e donne di Siria orribilmente tatuate dalla gola fin sopra al mento, e turche di Tunisi bestialmente accosciate a terra nell'ozio senza fine, e grassi lenoni di Lisbona che menavano a Buenos-Aires femmine di Marsiglia tutte tinte di rosso. C'era il rifiuto della feccia delle città cacciato dalla cupidigia della avventura, c'era il rifiuto della miseria delle campagne cacciato dalla fame; i rifiuti de' rifiuti del vecchio mondo navigavano verso l'ignoto del nuovo mondo. Navigavano come altri avevano navigato prima, come altri avrebbero navigato dopo, come onda segue onda incalzata dallo stesso vento; e così quelli venivano incalzati ed espulsi fuori de' loro paesi natali dalla ridondanza d'altri vivi. Venivano espulsi uomini e donne col sacco de' loro cenci, con i loro figliuoli, con i cuori carichi di superstizioni millenarie, con tutta la loro ferocissima bestialità e tutta la loro umiliata umanità. Per venti giorni mangiavano, prendevano il sole e il vento, la notte scendevano giù nelle stive e facevano tutt'un carnaio fermentante e suppurante, con la prima luce risalivano su a fermentare e a suppurare al sole e al vento guardando stupefatti la purità del cielo e del mare, con le loro pupille umane, e poi toccata la riva d'America si sarebbero dispersi, usciti dall'ignoto, un'altra volta nell'ignoto. — Guardi, guardi! — gridò a un tratto la signora Axerio a Filippo Porrèna. Proprio sotto il parapetto una donna s'avventò contro una ragazzetta e l'addentò a un braccio arrovesciandole addosso tutti i suoi capelli disfatti, e altre donne le quali sedevano intorno, glie la tirarono via a fatica di sotto ai denti e ai capelli. La signora Axerio e il Porrèna sporsero in giù gli orecchi, e allora la donna scagliandosi in su con le braccia, col collo, col busto contro di loro, gridò in siciliano: — È la creatura mia! È la creatura mia! I denti bianchi le luccicavano tra' crini neri. S'avventò di nuovo, perchè la sua creatura era cattiva, ed essa voleva mangiarla a morsi. Il demonio della rissa continuava a infuriare in basso. Altrove altre madri allattavano i loro bambini. Il Porrèna ne accennò una alla signora Axerio e rivolgendosi per ischerzo allo stesso lattante andava ripetendo: — Succhia, caruccio, vuota quel sacchetto di cenci, succhia tutta mammà! Il lattante infatti stava in braccio alla donna e pareva un morticino, perchè per l'avidità di succhiare non dava segni di vita. Ma si vedeva un po' della mammella materna fuor della veste, sopra la testa del bambino che stava attaccato al capezzolo. La madre sedeva sopra una seggetta e si teneva il figlio sulle ginocchia; aveva sulla faccia e nella persona i segni della miseria e dello sfinimento e girava di tanto in tanto gli occhi vagamente, come se si sentisse davvero vuotar dentro da tanto tempo senza requie; e il figlio succhiava sì fermo alla mammella da parer proprio che avrebbe succhiato tutta la madre. La signora Axerio vedendo tali cose si sentiva il cuore peso di tristezza e continuava a restare con le braccia appoggiate al parapetto e il viso chino. Finchè giù presso al boccaporto di prua gli apparve Piero Buondelmonti tra alcuni emigranti i quali seduti per terra stavano ad ascoltarlo attentamente. Altri poco discosto giocavano a carte e altri dormivano sdraiati sull'impiantito con le braccia e le gambe negli abbandoni più scomposti, e donne e uomini erano mescolati insieme e fra quella confusione di membra abbattute apparivano qua e là i resti del pasto di due ore prima, pane e legumi per terra, e apparivano da per tutto ragazzi e ragazzette più abbattuti degli adulti, attediati dalla navigazione e travagliati dal mal di mare. Già anche la memoria del ferimento pareva cancellata. La signora Axerio senza distogliere gli occhi dal Buondelmonti disse al Porrèna: — Lei, signor Porrèna, non vede la madre che allatta, ma il bambino che succhia troppo avidamente. Lei, ecco, è proprio l'opposto del signor Buondelmonti. Il signor Buondelmonti ha un gran cuore! E Lei punto. Lo guardi laggiù come parla a tutti e tutti gli parlano! Sono i suoi nuovi amici. Si fa raccontare la loro vita, i loro disegni per l'avvenire ignoto, dà loro dei consigli, vede in tutti, anche nell'ultima abiezione, una nobile forza da rialzare, da indirizzare a uno scopo. Io stessa so di loro, perchè lui me li mostra di quassù, da questo medesimo punto, tante volte, i suoi nuovi amici, mi racconta quello che essi gli hanno raccontato, me li fa amare. Guardi come accorrono a sentirlo! Parla davvero. Accorrono da tutte le parti! È una turba! — E non Le ho già detto — rispose il Porrèna — che il signor Buondelmonti e il professor Axerio sono due uomini di fede? Tutti e due, l'uno in un modo e l'altro in un altro, hanno una robusta fede nei destini del genere umano. La signora alzò gli occhi e vide che il giovane aveva la faccia tutta contenta, le due rughe gli saltavano sul naso dal piacere. Allora la signora gli disse: — Lei va a nozze, vero? Va a nozze quando può mettere in ridicolo qualcosa di sacro. E aggiunse: — Già per Lei non c'è nulla di sacro. — Infatti.... Rispose il giovane e fece una smorfia che non esprimeva nulla. Dopo di che sopraggiunse il Buondelmonti e si mise a raccontare com'era avvenuto il ferimento. Uno spagnuolo aveva accusato un napoletano di averlo derubato; s'era accesa la rissa, si trovavano dinanzi alle cucine, il napoletano era balzato dentro, aveva afferrato un coltello e menato il colpo. Mentre così raccontava, Piero guardava sempre in giù fra gli emigranti, dritta la persona alta e complessa, spirando ancora la fiamma d'un fuoco interno dalla bellissima faccia tutt'ombrata da una selva di capelli castani. Ei concluse: — Ho parlato loro della viltà di chi ferisce un inerme. E pareva che egli pure ardesse ancora di combattimento. Giovanna al solo vederlo si era sentita rianimare, la gioia della mattina le rinacque nel cuore. Volò alla sponda della nave e chinò verso il mare il leggiadro capo dal profilo greco su cui il nastro granato palpitava a una bava di vento. Sotto il cielo puro il mare multicolore e mutevole andava calmandosi. Il mare aveva vasti campi azzurri e qua e là nereggiava del nero d'azzurro o di verde, e verso l'orizzonte aveva cinture di lilla carico biancheggiando per tutto di spume. E il cielo aveva soltanto aliti di nube che vagavano per la sua volta, e s'immergeva nel mare con un piè d'orizzonte lindo. Venne il tramonto, venne la notte; nella notte l'«Atlantide» arrivò a Dakar nella colonia francese della Senegambia. A giorno il professore Jacopo Axerio operò l'emigrante ferito, e il Buondelmonti e un altro passeggiero chiesero di poter assistere all'operazione. I due estranei tenendosi in disparte stavano attenti ad ogni atto del professore il quale aveva un fremito di gioia dentro la barba mentre si metteva il grembiale bianco e i guanti bianchi. L'uomo era stato spogliato, disteso sulla tavola, legato a' piedi, addormentato, volto di fianco, e l'infermiere e un marinaio gli tenevano fermi piedi e polsi. Il professore s'accostò con le braccia nude, bianchissime, coperte di pelo nero, muscolose, si curvò, tagliò al labbro della ferita, tagliò dritto, poi voltò ad angolo, scoperse il grasso, fu dentro. Il Buondelmonti gli si fece alle spalle e allungò il collo per vedere dentro il petto umano, ma non vide nulla; vedeva le mani del professore con i guanti bianchi tutti sangue continuare a tagliare, mettere delle pinzette ai labbri del taglio, e il medico di bordo che gli stava al fianco, asciugare via via il sangue con dei pezzi di velo. Gli atti delle mani che operavano, erano sicuri, rapidi, ma parevan lenti tanto eran calmi. Non vi eran più se non quelle mani e i due occhi fissi sopra, sicuri e calmi. Apparve un osso, fu scarnificato, resistette al taglio della forbice, l'uomo mise un orrendo fiato sotto la maschera del cloroformio, si torse tutto sul fianco, era una costa. Dopo qualche momento il medico di bordo disse al Buondelmonti sottovoce: — Siamo sul cuore. Parve al Buondelmonti e all'altro di vedere il cuore battere alle coste. L'uomo che vi aveva intorno le mani e i ferri, si torse più orrendamente lungo tutta la spina dorsale: un'altra costa era tagliata. Il Buondelmonti e l'altro passeggiero si trassero in disparte, si dissero qualche parola, si riaccostarono, l'operazione era fatta: già il professor Axerio ricuciva le carni. Il Buondelmonti fu preso d'ammirazione per lui e disse al compagno sottovoce: — Ecco un uomo che vale nell'arte sua! E aggiunse che la celebrità di cui il professor Jacopo Axerio godeva in Italia, era davvero meritata. L'Axerio forse avendo sentito si voltò e continuando a togliersi i guanti posò lo sguardo sul Buondelmonti sorridendo come l'uomo che ha compiuto valorosamente la sua opera che gli piace. E il Buondelmonti prima d'uscire dall'infermeria lo ringraziò e gli strinse la mano con rinata cordialità. L'«Atlantide» allora finiva di caricar carbone per il resto del suo cammino e di lì a poco riprese il mare. Fino a Rio de Janeiro non doveva fermarsi più. Il passaggio d'un'altra nave al largo, la pinna nera d'un pescecane natante a fior d'acqua continuarono ad essere gli avvenimenti di bordo ove la giornata consueta era intessuta di colazioni e di pranzi, di qualche lettura, di qualche giuoco, della contemplazione de' tramonti, delle discussioni, dell'incanto del mare, quando qualcuno s'appartava nella solitudine. Piero Buondelmonti discusse altre volte con il professor Jacopo Axerio, col produttore di vino di Mendoza, con gli altri commercianti e anche con Filippo Porrèna; continuò a far visite agli emigranti e ad occuparsi della loro vita. Perchè egli era veramente un giovane di gran cuore, sentiva pietà per quelli che soffrono e nutriva simpatia per il popolo, per i forti lavoratori. Egli aveva le maniere e i sentimenti dei vecchi padroni della campagna toscana da cui proveniva. Come quelli dando del tu ai loro sottoposti se li affezionano ed attaccano tanto da formare insieme una sola famiglia; così il Buondelmonti godeva nell'essere alla mano e affabile con chi era da men di lui. Egli sapeva adoperare quel tu dei toscani che dà confidenza e toglie la separazione delle condizioni e delle classi, secondo il volere della vita che gli individui facciano un tutto fra di loro e chi è più in basso si continui in chi è più in alto. Soltanto quando diventava uno scrittore politico, quando nel suo cuore parlava la nazione, allora non s'accorgeva neppur più di quella parte popolare de' suoi sentimenti. Allora egli era semplicemente l'apostolo dell'eroico nazionale. Egli era un artista. Egli aveva fatti gli studii classici, e la storia, la letteratura, la lingua latina, gli avevan formato lo spirito. La romanità era diventata sangue del suo sangue e carne della sua carne, come espressione della più vigorosa volontà collettiva di vastità, d'unità e di potenza. Così educato il Buondelmonti era avverso al socialismo e odiava tutti coloro i quali della nazione vogliono fare un istituto per rimediare ai mali degli individui e delle classi e ignorano che le nazioni debbono esse agire come individui validi. E per questo in patria Piero Buondelmonti era stato accusato d'essere uno scrittore politico nemico del popolo, della democrazia, della libertà. Nemico della libertà, perchè mirando alla unione nazionale avrebbe voluto domare la lotta di classe e l'insorgere dei partiti. Uno scrittore del passato, perchè ai più sfuggiva la modernità di quel suo classicismo romano considerato come espressione di ciò che il mondo moderno ha di più moderno, come espressione d'una volontà di vastità e di potenza; ai più sfuggiva la modernità di quel suo concepire la nazione come un maggiore individuo, attivo nel vasto e potente mondo. I più insomma non sapevano distinguere nel Buondelmonti l'uomo nazionale, l'uomo che può cessare d'essere individuo e diventare coscienza di nazione. Egli invece distingueva in sè queste due nature delle quali, quasi come in Cristo, l'una era umana e l'altra era divina. E così ora sull'«Atlantide» essendo uomo fra uomini sentiva pietà degli emigranti; ma quando in lui si risvegliava l'anima italiana, si sentiva umiliato. Il suo cuore irascibile si sdegnava contro un popolo in cui sì spesso l'uomo s'appaga di viver miserrimamente, un popolo ignaro di ambizione e d'orgoglio, un popolo che si appaga di mandare tanta parte di sè a far da materiaccia prima alla formazione di vita d'altri popoli. Il Buondelmonti si sdegnava contro le vilissime classi dirigenti della borghesia e contro i ciechi conduttori del socialismo, teneri d'introdurre i diritti degli uomini tra' cinesi; si sdegnava contro tutti i politici da ospedale, contro tutti gli Axerio d'Italia i quali s'eran trovati d'accordo nell'escogitare il rimedio umanitario per gli emigranti. Questi rifiuti espulsi verso il lontano ignoto straniero vivevano per i quindici giorni del viaggio sotto gli amorevoli occhi di un medico militare della patria chiamato commissario regio, il quale pesava loro il cibo scelto, misurava lo spazio e l'aria ventilata, medicava le piaghe aperte da anni ed anni e che per anni ed anni sarebber rimaste aperte sotto il furor del tropico. Spesso il Buondelmonti seduto in disparte tutto solo considerava quella miseria che navigava con lui, e tanta viltà che egli aveva lasciata in patria. E spesso allora non era più un individuo ma l'uomo nazionale d'Italia il quale aveva vissuto in tutti i tempi della storia italiana e di tutto si ricordava. Si ricordava d'un altro popolo disperso per il mondo, fatto fango sotto i piedi delle genti, e si diceva fra sè e sè: — Perchè così anche l'Italia? — Il suo cuore si riempiva dell'amarezza dell'ira e del dolore, e talvolta il giovane chinava il mento nel cavo della mano e gli occhi gli s'inumidivano sotto l'ombra della florida chioma. La signora Giovanna Axerio riconduceva il Buondelmonti al sentimento della vita individuale ispirandogli sempre più amore. Un mese prima s'eran trovati insieme in casa d'amici a Roma. Si conoscevano sin da quando abitavan tutti e due a Firenze, innanzi che Giovanna si maritasse, e Piero aveva sempre avvertita dentro di sè una inclinazione ad innamorarsi di lei, perchè essa era d'una leggiadria d'animo e di persona che parlava a quanto egli aveva di più delicato in fondo al cuore. Ma s'erano incontrati di tanto in tanto e per poco e Piero non s'era mai innamorato di Giovanna. L'ultima volta che l'aveva trovata a Roma, era pieno d'afflizione, perchè poche sere prima aveva fatto in pubblico un discorso per esporre le sue dottrine politiche, e gli avversarii di queste dottrine s'eran dati convegno nell'aula, gli avevan troncato la parola e l'avevano costretto ad andarsene con urli e fischi, nessun difendendolo. E questo sopra tutto lo aveva afflitto: che nessuno fosse sorto a difenderlo, perchè egli non poteva comprendere la viltà. Si doleva con Giovanna, appunto di quella sera, e si mostrava afflittissimo, deliberato a non ritentar la prova, quando ad un tratto Giovanna gli aveva detto: — Perchè non viene con noi? — Con loro dove? — Nell'America del Sud con me e con mio marito. — Parte? Quando? — Ma presto, presto! Mio marito è stato invitato dal governo brasiliano a fare un corso straordinario di un anno nella facoltà di medicina di Rio de Janeiro. Partiamo fra un mese da Genova sull'«Atlantide». Nulla è perduto, amico, e Lei ritenterà la prova. Ma ora ha diritto di riposarsi. Venga con noi. Chi sa che non trovi laggiù l'ispirazione per il suo capolavoro e per la sua rivincita. — Lei scherza, amica, invitandomi? — Un po' scherzo, se la mia proposta non Le fa piacere; ma sul serio Le dico che a me farebbe molto piacere averla per compagno di viaggio. — Anche se io Le dichiarassi fin d'ora che Le farei la corte? — Anche. — M'innamorerei di Lei. Già l'ho sempre amata un po'. Vuole che L'ami? La signora aveva taciuto un istante come distratta o incerta; poi mettendosi a sorridere, a sorridere, come se un animo le dicesse una cosa che la faceva tutta contenta, aveva detto sottovoce battendo insieme le palme dalla gioia: — A Rio de Janeiro! — Ma il professore Axerio che penserà del mio viaggio? Giovanna aveva riso e risposto: — Il professore Axerio è un uomo talmente sicuro del fatto suo che non penserà mai ad essere geloso. Lei non si occupa di tante cose nazionali? Faccia annunziare dai giornali che va a studiar le colonie italiane dell'America del Sud. I giornali avevano annunziato, il Buondelmonti aveva visto davvero un campo di nuovi studii nelle colonie italiane dell'America del Sud ed era partito con gli Axerio sull'«Atlantide». Che passava nel cuore di Giovanna? Chi sa! Certo c'era fra loro come una tacita intesa. Quel viaggio di Piero aveva avuto la prima origine da una specie di loro complicità fra lo scherzevole ed il serio, e qualcosa di questa complicità fatta meno scherzevole e più seria pareva che restasse sempre fra loro. Così quando Piero discuteva troppo calorosamente con il professore Axerio, Giovanna lo rimproverava con uno sguardo come se volesse dirgli: — Non comprendi che fai il nostro danno se ti guasti con lui? — E quando discutevano, spesso Piero voltandosi si vedeva addosso gli occhi di Giovanna fissi e vigilanti come se volessero dirgli: — Sii cauto, per il nostro bene! — E spesso quando lo vedeva lontano e solo, lo chiamava con un cenno e si mettevano a parlare delle cose più comuni, ma essa gli parlava sottovoce, proprio con la voce di quell'animo che la faceva tutta contenta quando a Roma invitandolo al viaggio gli aveva detto: — A Rio de Janeiro! — Che voce aveva avuto allora e come aveva sorriso! Come aveva battuto insieme le palme! Come era stata gioiosa! Egli si era deciso a partire per la città ignota e lontanissima, in quel momento, per quel sorriso, per quel batter di palme che aveva coperto il suono sommesso della voce. E sempre a bordo quando Giovanna gli parlava sottovoce, egli risentiva quello che le aveva dimandato in quel momento: — Vuole che L'ami? — E quello che essa aveva risposto: — A Rio de Janeiro! — Ed ogni giorno più questa risposta significava seriamente: — Voglio che tu mi ami laggiù! Una mattina, qualche giorno prima d'arrivare a Rio de Janeiro, Piero trovò in sala di conversazione Giovanna che leggeva e le disse: — So chi Le ha dato questo libro: il signor Porrèna. — Chi glielo ha detto? — L'aveva lui ieri. Ha molta amicizia per il signor Porrèna? — Amicizia! Che parola! — Ho notato che conversa spesso con lui. — Sì.... m'incuriosisce quel suo modo di veder le cose.... — Semplicemente cinico, a me pare, come l'uomo a me pare semplicemente spiacevole. Piero fissò qualche momento Giovanna con occhi iracondi, e Giovanna gli spalancò in faccia i suoi interrogatori, stupefatti, sorrise e gli disse: — Se io Le appartenessi, sarebbe geloso! Un uomo sì grande e quasi un eroe! E continuando a sorridere posò il libro, mentre Piero era diventato rosso, perchè veramente era geloso del Porrèna. Egli non aveva mai potuto liberarsi di certa timidità campagnuola e spesso dinanzi ai piccoli motteggiatori della città perdeva la coscienza del suo valore e giudicandosi inferiore a loro non parlava più. E così più volte gli era accaduto con Giovanna in presenza del Porrèna. La sera stessa Piero stava sul ponte; era già qualche ora di notte, la maggior parte dei passeggieri s'eran ritirati nelle loro cabine. Si levò la nebbia sul mare e la sirena dell'«Atlantide» dava frequenti avvisi per paura d'incontri con altre navi. Piero vedeva l'«Atlantide» tutta avvolta dalla nebbia e non vedeva più nè cielo nè mare; di momento in momento gli ferivano gli orecchi gli ululati della sirena. A uno, a due, a quattro alla volta tornarono sul ponte altri passeggieri perchè quelli ululati erano spaventosi e pochi sapevano che cosa fossero. I passeggieri lasciavano le loro cabine, risalivano sul ponte, si cercavano, s'interrogavano, e fra gli altri il Buondelmonti scorse il professor Axerio, sentì la sua voce che domandava, e gli parve che tremasse un po'. La signora Axerio qualche momento dopo raggiunse il marito il quale quando ebbe appreso, tornò nella sua cabina e la signora si accostò al Buondelmonti. Rimasero in silenzio e sulle loro teste gli ululati affittivano; alzarono gli occhi, il tubo della macchina spariva, gli alberi a poco a poco sparivano, spariva tutta quanta la nave. Giovanna disse: — Senta! È un urlo di spavento, d'implorazione, di lamento, di disperazione. Nella sua voce c'era il terrore della nebbia, del mare, della notte, del pericolo. Piero non le rispose. Stavano sotto il ponte di comando; due marinai uno dietro l'altro passarono accanto a loro di corsa, si gettarono su per la scaletta dalla cui cima li investì la voce collerica del comandante. La campanella di prua si mise a battere fitto fitto, quella del ponte di comando le rispose, la sirena mandò un ululato e poi un altro. Piero disse: — Forse un'altra nave! Vediamo. E si diresse al ponte di comando. Giovanna disse: — Non è permesso salire lassù! — A me sì. Venga con me. E Piero salì, seguito da Giovanna; ma anche di lassù non vedevano nulla; soltanto il comandante ed altri uomini immobili al parapetto del ponte e il marinaio alla ruota del timone curvo verso la bussola che mandava lume dinanzi a lui. Il comandante diceva qualche parola e il marinaio dava un tratto di ruota. Si vide baluginare un che di luce nel mare, vicino, verso la destra dell'«Atlantide», s'avanzò a poco a poco, passò lentamente sul fianco destro dell'«Atlantide», si perse nella via opposta. Piero disse: — I lumi d'un'altra nave. E discese. Giovanna si diresse in fretta verso la porta che metteva giù alle cabine, ma Piero le disse: — Aspetti. — Mio marito leggeva, ma ora vorrà coricarsi. — Aspetti! Erano appena visibili l'uno all'altra nella nebbia, non un'ombra intorno. Ma Piero vedeva Giovanna dinanzi a sè e le vedeva sul piccolo leggiadro capo tremare il nastro di seta che portava sempre a bordo; gli pareva di vedere quel fior d'infanzia che essa conservava ancora negli occhi, tremarle alla stessa maniera. Sentì il suo respiro, sentì che tremava ed egli pure tremava. Disse: — Rio de Janeiro! Sentì il silenzio di Giovanna, ma nel silenzio passò l'eco della sua voce di quando essa aveva detto: — A Rio de Janeiro. Le prese le mani, le congiunse in croce, se le strinse tra le palme, se le portò alle labbra, sentì la sua voce che disse: — Pietà di me! Abbandonò e Giovanna sparì. Egli poi rimase ancora a lungo sul ponte e dal suo petto prorompeva il canto dell'amor trionfante per lo spazio dov'eran sepolti il mare, la notte, il mondo e la nave che ululava. II. Tre giorni dopo, l'«Atlantide» entrò nella baia del Guanabara dove sorge Rio de Janeiro. Il console d'Italia, i maggiorenti della colonia e le rappresentanze de' sodalizi, una commissione della città e del governo brasiliano si portarono a bordo a dare il benvenuto al professor Jacopo Axerio. Questi gongolava vedendo che il console stesso si occupava di far trasportare i suoi bagagli a terra per mezzo d'un giovane del consolato. Era sceso sul ponte basso ed era andato incontro alle commissioni sino alla scaletta d'imbarco e lì tra il pigiapigia degli emigranti e de' passeggieri delle classi che anelavano di mettere il piede a terra dopo tanti giorni di navigazione, faceva riverenze agl'italiani ed ai brasiliani e mandava scintille dalla barba a sentire che i brasiliani gli portavano il saluto del presidente della repubblica, del ministero, del ministro degli affari esteri, della camera, del senato, della prefettura della città, d'istituti scientifici e d'accademie, e a vedere che gl'italiani se ne commovevano patriotticamente insieme con lui. Si vedeva la sua barba china come quella d'un capro spostarsi qua e là saltando, via via che i saluti gli venivano da più parti, e la sua mano stringere ora questa ora quella mano, e i suoi occhi cercare in giro gli occhi de' connazionali intenerendosi sempre più della loro tenerezza sempre maggiore, mentre dalla bocca tremolante gli usciva un continuo balbettio di ringraziamenti a mo' di bava. I brasiliani guardavano il grand'uomo d'Europa con occhi curiosi. C'erano fra loro deputati, senatori, capi de' varii uffici, professori, giornalisti, studenti e medici in abbondanza; gente quasi tutta magra e secca, che diceva soltanto parole rade e piano, con una certa timidezza che pareva provenire da un'eccessiva sensibilità non scevra di diffidenza; e alcuni di loro avevano ancora sulla faccia l'impronta dell'origine: il teschio forte con gli zigomi in fuori e un che d'ultima ombra del sangue negro tra pelle e pelle. Tutti si dicevano onorati d'ospitare nel loro paese il professor Jacopo Axerio e si ripromettevano immensi vantaggi per la chirurgia brasiliana dalle sue lezioni e dalle sue operazioni, e il professor Jacopo Axerio si trangugiava a una a una tutte le lodi. A un certo punto gli studenti mandarono un evviva rinforzato dagl'italiani sì che ne rintronò la baia, e uno di loro parlò inneggiando, come se fosse stato in Europa, al progresso della scienza, all'amicizia dell'Italia e del Brasile, all'unione latino-americana e in fine alla solidarietà de' popoli. Il professore rispose ringraziando e dichiarandosi commosso dell'onore fatto non alla sua povera persona ma alla scienza e così dicendo si credeva di essere più modesto che se si fosse dichiarato commosso dell'onore fatto non alla scienza ma alla sua povera persona. Infine inneggiò anche lui al progresso della scienza, alla amicizia del Brasile e dell'Italia, all'unione latino-americana, alla civiltà e alla solidarietà de' popoli. E altri gli risposero, professori, deputati, giornalisti, mentre poco discosto gli emigranti del vecchio mondo sgranavano gli occhi sulla cerimonia che veniva loro offerta al limitare del nuovo mondo. La signora Giovanna Axerio stava vicino al marito e aveva accanto il Buondelmonti e il Porrèna. Il quale faceva musetto con le labbra come se zufolasse e guardava intorno la baia, le alture dai disegni bizzarri e la città. Si chinò verso la signora e le disse: — Lei dev'essere superba delle accoglienze trionfali che riceve il professore. — Infatti — rispose la signora seccamente. Le sue labbra si sporsero contro il velo, la sua mano inguantata corse in quel punto e lo rialzò. Dopo poco il Porrèna ripetè la frase al Buondelmonti: — Lei dev'essere superbo delle accoglienze trionfali che riceve il suo connazionale. Il Buondelmonti che sorrideva tra sè e sè a capo basso, rispose: — Certamente. Subito aggiunse: — Ma per fortuna la scienza non ha patria. E sorrise al Porrèna affabilmente, rallegrandosi dentro di sè che il viaggio fosse terminato e che quegli s'allontanasse per sempre dalla compagnia sua e di Giovanna. Allora, o avesse afferrato qualche parola intorno, o ci ripensasse da se stesso, il professor Axerio si rammentò che sua moglie l'aveva accompagnato attraverso l'oceano, la prese per mano e avanzandola un poco disse con quel tanto di solennità che gli parve conveniente: — La mia signora. Tutte le fronti s'inchinarono. Tosto una voce maschia, una bella voce sonora e franca, si levò e disse: — Ci deve essere a bordo un altro nostro valoroso compaesano. — Chi? — si lasciò cadere giù per la barba il professore Axerio. — Lo scrittore Piero Buondelmonti. L'ho letto in un giornale di Roma che ho ricevuto la settimana scorsa. L'Axerio girò a malincuore gli occhi e accennò il Buondelmonti che stava nella calca. Allora l'italiano di Rio de Janeiro il quale si chiamava Lorenzo Berènga ed era il capo morale della colonia, si fece avanti e andato incontro allo scrittore gli strinse la mano gagliardamente come ad un vecchio amico e disse forte: — Signor Buondelmonti, io voglio dare un pranzo per festeggiare il suo arrivo e quello del professore Axerio. Lei è invitato per doman l'altro sera. Tutta la colonia, quantunque il nome di Piero Buondelmonti fosse noto a ben pochi degl'italiani di Rio de Janeiro, seguì com'un uomo solo il suo capo morale, tanto era il rispetto che questi incuteva, e fece atto d'omaggio. E la fama di lui si sparse subito anche fra' brasiliani i quali lo complimentarono. Uno fra gli altri appena ne sentì il nome, drizzò gli orecchi e accorse, perchè le sue opere gli erano note. Era un giovanissimo letterato e giornalista di Rio de Janeiro a cui la natura aveva dato due orecchi aguzzi e due occhi fatti apposta per esprimere l'avidità d'apprendere. Si chiamava Quirino Honorio do Amaral. Da sè medesimo si presentò al Buondelmonti e gli parlò dell'ultimo suo libro con un impeto come se da anni e anni avesse avuto la gola serrata dalla commozione per quell'incontro. Gli occhi gli ridevano come la bocca mentre parlava, e pareva che gli venissero fuori dal teschio, sì aveva il volto ridotto a pelle e ossa e gli occhi a fior di testa orlati di nero e rotondi fra gli orecchi aguzzi. Fornite le pratiche del porto, i passeggieri dell'«Atlantide» furono liberi di scendere a terra. E quando il professor Axerio e Piero Buondelmonti ebbero posto il piede sulla scaletta di sbarco, qualcuno gridò: — Evviva l'Italia! Tutti fecero coro, la scaletta brandì fortemente, la baia rintronò e dall'alto qualche italiano scendendo lacrimò sul mare. I brasiliani condussero gli Axerio alla villa che la repubblica aveva scelto per loro sul colle di Santa Teresa. E sul medesimo colle due giorni dopo ci fu nella villa di Lorenzo Berènga il pranzo al quale erano invitati brasiliani e italiani di Rio de Janeiro e di San Paolo. Quando il Buondelmonti giunse alla villa del Berènga, questi lo condusse sulla terrazza dove già stavano il professor Axerio e molti altri. Alcuni si fecero incontro al Buondelmonti, e primo un letterato di Rio de Janeiro il quale gli mostrò il panorama che si godeva di lassù, la valle, la città e le isolette nella baia che già incominciavano a illuminarsi al cader della notte. Il direttore d'un grande giornale di Rio de Janeiro, un signore d'alta statura con una faccia ossuta, grigiobarbuta e un po' insaccata in due spalle strette e montanti, era accanto a loro, guardava con un sorriso di bontà un po' attristita e punteggiava di quando in quando con qualche monosillabo d'assentimento le descrizioni del letterato. Il quale si chiamava Francisco de Faria Lemos e parlava benissimo l'italiano con una voce nasale dolce, lenta e un po' strascicata, e congratulandosi con lui il Buondelmonti, gli raccontò che aveva viaggiato molto in Italia e che aveva avuto sempre tante amicizie fra gl'italiani per via del padre che era stato avvocato del consolato italiano. Accostatosi un signore di aspetto grave e delicato, il Berènga lo presentò al Buondelmonti. — Il nostro pastore. Un calabro, di nome Giorgio Tanno, piccoletto e forte, tutto negro d'occhi e di pelame e con una cicatrice che gli scendeva giù dallo zigomo per la gota destra rompendogli la barba, spiegò al Buondelmonti che il Berènga era protestante. Il quale poco dopo presentò un altro invitato. — Giacomo Rummo, testa calda! Il presentato, un uomo asciutto e solido, con una faccia ferma e una barbetta a punta rossiccia, chinò appena la fronte e s'allontanò. E il Tanno al Buondelmonti che non ne aveva afferrato bene il nome, spiegò che era un socialista rifugiatosi d'Italia nel Brasile al tempo di moti politici. Il Buondelmonti disse sorridendo: — Ora capisco perchè s'è allontanato così da me! Sopraggiunse Quirino Honorio do Amaral e col suo bell'impeto cordiale raccontò al Buondelmonti che aveva fatto annunziar il suo arrivo da tutti i giornali e dar notizie di lui e delle sue opere. Sopraggiunsero gl'invitati di San Paolo. Erano otto o dieci italiani d'ogni regione d'Italia dalla Lombardia alla Sicilia, uomini d'affari arricchitisi con strenua operosità. C'erano tre grandi importatori di prodotti europei, un banchiere, grandi negozianti e padroni di fabbriche tra le primissime di laggiù nel loro genere. Questi col Berènga costruttore e col Tanno padrone di officine e con pochi altri di Rio de Janeiro erano il fiore della colonia e dell'emigrazione italiana, nel Brasile. E il Buondelmonti, mentre stavano pranzando, li guardava, tutti quelli uomini della sua stessa patria raccolti con lui in cima a quel colle lontano dalla patria tante migliaia di miglia; li guardava a uno a uno attraverso la tavola sfarzosa, i fiori e il cristallame sfavillante sotto uno sfolgorio di troppa luce. Aveva accanto a sè Giorgio Tanno e davanti un giovane della Basilicata, di nome Pasquale Mùrola, il quale per amore della patria lasciata nell'infanzia si nutriva la mente di letture italiane, e perciò insieme col fratello aveva fatto al Buondelmonti gran festa sin dal primo incontro sull'«Atlantide», perchè sapeva chi era e quanto valeva. Ora il Mùrola parlava con un importatore di San Paolo che gli sedeva a destra, un siciliano con due occhi vivissimi in una faccia arguta e mobilissima, e il Buondelmonti capiva d'essere l'oggetto del loro discorso, perchè ogni tanto l'uno e l'altro davano un'occhiata di sfuggita verso di lui e sorridevano cordialmente. Fra gl'italiani di San Paolo e quelli di Rio de Janeiro c'era un fervore di conversazioni più forte che non fra conoscenti ed amici i quali si ritrovino dopo lungo tempo e abbiano molte cose da raccontarsi; pareva al Buondelmonti che ritrovandosi gli uni con gli altri, quelli italiani, provassero la gioia di rimpatriare. Gli occhi dell'importatore siciliano, altri occhi italiani, intelligenti e penetranti, scintillavano; squillavano le voci di tutte le stirpi italiane, de' liguri, de' siciliani, de' veneti, de' calabri, de' toscani. Giorgio Tanno parlava all'orecchio del Buondelmonti d'un comitato della nobile società nazionale che prende nome da Dante Alighieri, fondato da lui e da' suoi amici a Rio de Janeiro pochi mesi prima. Parlava de' disegni che aveva formati per l'avvenire, sullo sviluppo da dare a quel comitato, e di alcune scuole da aggregarvi. Quando ad un tratto discostò dal Buondelmonti la faccia, e la cicatrice gli guizzò dallo zigomo fin sotto il negror della barba infocandosi. Gli occhi s'intorbidarono di ferocia e dalle labbra gli usciron queste parole: — Perchè io sono italiano! Poi con la palma aperta si percosse la cicatrice sulla gota e aggiunse: — Veda! Questo qui lo chiamano il segno di Menelik! Io ero a San Paolo quando l'Italia fece la guerra in Affrica. Ero venuto da poco nel Brasile. C'eran de' moti contro gl'italiani e si gridava viva Menelik! Una volta per una strada m'imbattei in gente che gridava così. Mi scagliai addosso a loro buscandomi una pugnalata qui. Ma uno fu ammazzato da me. Improvvisamente una voce squillò poco discosto dal Buondelmonti: — L'Italia è costretta a fare una politica estera vile e la colpa principale è vostra! E un giovane magro e lungo con un volto magro e lungo si levò scagliandosi contro il socialista Giacomo Rummo. Il quale ribattè: — La colpa è della borghesia. Ma l'altro senza dargli ascolto seguitò: — Bisogna pensare che la lotta di classe si fa in casa, ma fuori c'è la lotta delle nazioni; e a questo voi socialisti non avete mai voluto pensare e avete ridotto tutto alla lotta di classe! Per egoismo di classe avete distrutto la nazione! Ora poi vorreste rovesciare il ministero perchè non parte in guerra contro l'Austria! Voi! Voi che avete sempre gridato contro gli armamenti! Fatemi il piacere! La voce del giovane magro e lungo, un giornalista italiano di San Paolo, squillava con un che di bleso. Il socialista senza batter ciglio ripetè: — La colpa è della borghesia. Noi socialisti abbiamo un solo dovere: fare la lotta di classe. Non altro! Toccava alla borghesia che ha il dominio della nazione, a fare una politica nazionale resistendoci e magari schiacciandoci. Noi gridavamo contro gli armamenti? Ma che s'armasse! Non ne ha avuto il coraggio. Ha avuto quel mezzo coraggio che è figliuolo della necessità e della paura: spendere quella quantità di milioni che bastava per far gridare i socialisti, non per mettere la nazione in buono stato di difesa. Cioè, far sì che le cosiddette spese improduttive fossero veramente spese e improduttive insieme. La colpa non è nostra. Stia pur certo che noi saremmo capaci di dare all'Italia una classe dominante più coraggiosa, più gagliarda, più intelligente. Il Buondelmonti ammirò il socialista e lo approvò dicendo: — Nel riprovare la borghesia sto con Lei. Il socialista fissò un momento il Buondelmonti e disse seccamente: — Tanto meglio. E si voltò dall'altra parte verso il giornalista che dava le ultime notizie sopra l'agitarsi delle potenze d'Europa, tra le altre l'Italia e l'Austria, che in quei giorni s'era fatto minaccioso per la vecchia pace. Ma dopo il pranzo il Buondelmonti s'accostò di nuovo al nemico che aveva trovato anche nel Brasile, perchè gl'ispirava simpatia e voleva addomesticarlo. Lo scorse in disparte, in piedi, che fumava tutto solo, gli s'accostò e gli disse riattaccando il discorso: — Non dubito davvero che loro socialisti sarebbero capaci di dare all'Italia una classe dominante più intelligente e più coraggiosa. Il Rummo, fronte a fronte, appuntava verso la faccia del Buondelmonti la barbetta rossigna e taceva. Teneva il braccio un po' discosto dal fianco e aveva il sigaro tra le dita che mandava su un fil di fumo. Il socialista fissò a lungo l'imperialista finchè senza levargli gli occhi di dosso gli disse: — Allora Lei ne morrebbe per la sua borghesia, vero? — No davvero! — ribattè l'altro. — No davvero! Io non ho spezzato mai una lancia per la borghesia e per gli interessi borghesi; ho spezzato tutte le mie lance per la nazione e per gli interessi nazionali; e se è apparso diversamente, è stato perchè un certo tempo, in buona fede, ho creduto che nella borghesia prima che altrove si potesse risvegliare una coscienza nazionale. Il Buondelmonti si tacque, si accostò ancora al Rummo e piano e con un sorriso di delicata seduzione gli domandò: — Non crede alla mia buona fede? A un tratto il solido e fermo uomo fu scomposto, perchè quella domanda voleva dire che il Buondelmonti teneva in gran conto la sua stima, e in lui la naturale vanità che è nel cuore d'ognuno, fu lusingata. Gli occhi che il Rummo non aveva mai levato dalla faccia del Buondelmonti, sbatterono un po', la barbetta a punta cadde giù e dalle labbra uscì: — Non ho mai dubitato della sua buona fede! Poi il Rummo rimase a viso basso come se si guardasse i piedi e dalla sua mano rimasta nello stesso atteggiamento continuava a venir su il fil di fumo. Da ultimo il Rummo rialzando il capo domandò: — Ha fatto buon viaggio? Il Buondelmonti rispose di sì e un sorriso fino gli errava ne' precordii. Parte degl'invitati eran rimasti nella sala da pranzo, parte s'erano sparsi sulla terrazza e per le altre stanze. Tutta la villa era piena di voci e chi passava per le vie del colle e giù nella valle, la vedeva ardere di lumi attraverso le finestre aperte nella caldissima notte. Il padrone di casa stava con altri sulla terrazza e tonava contro l'Argentina, perchè in quei giorni c'erano rumori di guerra tra quella potenza e il Brasile. A pochi alla volta gl'invitati venivano a salutarlo e ad accomiatarsi e tra gli altri venne il Buondelmonti, ma il padrone di casa lo trattenne per la mano ed esclamò: — Quando sarà in Italia, lo gridi forte che il Brasile è un grande paese e che ha un immenso avvenire! L'Argentina no! Tutti gl'italiani presenti i quali amavano il paese dove avevan mutato di condizione, approvarono e si scagliarono contro l'Argentina con alte voci, mentre tre o quattro brasiliani che s'erano avvicinati, tacevano contenti nel cuore. A un tratto si sentì la voce del Berènga chiamare: — Bruna! E il Buondelmonti scorse in un giardinetto che era sotto la terrazza, una forma femminile e sentì una voce che rispose ardita: — Mi vuoi, zio? — Vieni su. La forma femminile balzò, volò, sparve, riapparve sulla terrazza. Era una giovinetta che aveva un volto asciutto e olivigno, le ardeva negli occhi il cuore, e un leggiero ansito le alzava il petto per la corsa fatta tutta d'un fiato dal giardino in su. Il Berènga l'attirò a sè e mettendole le grosse dita villose dentro i capelli e piegandole il viso verso il Buondelmonti le disse: — Vedi là un bravo italiano. Bruna fissò il giovane e gli occhi le ridevano sì forte che pareva lo deridesse. Ma ad un tratto le sue labbra dissero: — È il signore che taglia? — No! È il signore che scrive. E il Berènga aggiunse a Piero: — Le ho parlato di Lei e del professore. Gli occhi di Bruna non lasciarono Piero, le sue labbra aggiunsero: — Italiano! E tacque con i capelli ancor nella branca dello zio, fremendo di riprender la corsa. Pure, teneva il capo fermo e aveva sotto le ciglia uno sguardo lungo che andava lontano. E di nuovo le uscì dall'ardor del riso: — Italiano! Lo zio disse al Buondelmonti: — L'ho lasciata crescere in libertà questa polledra selvaggia, però!... dimenticar l'Italia no! Amare questo paese dov'è nata, sì, ma non dimenticare l'Italia! Ho voluto che studiasse bene l'italiano, la geografia, la storia d'Italia, e che conoscesse Dante; ho voluto che facesse quello che noi non potemmo fare alla sua età. Io non posso tornare in patria, ma ci torno così: cercando di tener vivo l'amore della nostra patria, in questa creatura del mio sangue. Tacque, la fissò, le piegò il capo all'indietro con l'una mano, le attanagliò il mento tra il pollice e l'indice dell'altra, disse: — Ma è proprio de' Berènga, vero? La giovinetta strise e rise, la maschera de' Berènga guizzò sulla sua faccia. Lorenzo Berènga aveva, d'un rilievo straordinario, dalla fronte al mento, l'impronta de' veri uomini di lotta e di conquista: l'impronta della volontà risoluta, aggressiva e dura; egli aveva dal mento quadrato alla fronte quadrata una sagoma facciale diritta come il taglio d'una spada. Ei tenne ancora Bruna col capo riverso, la contemplò a lungo, poi impetuosamente la baciò e disse al Buondelmonti: — È figlia d'un mio fratello ucciso nell'Uruguay durante l'ultima rivoluzione. E prese a raccontare del fratello e di se stesso. Con questo fratello maggiore e con le braccia soltanto, a dodici anni era venuto nell'America del Sud e prima erano sbarcati a Montevideo dove il fratello era rimasto, e poi lui era venuto a Rio de Janeiro dove aveva lavorato anni e anni da muratore finchè era riuscito costruire per conto suo e più volte era stato buttato a terra da colpi di fortuna, ma s'era sempre rialzato e in vent'anni nella capitale del Brasile aveva fabbricato forse più di mille case e palazzi. Lorenzo Berènga concluse: — Mio fratello Giovacchino a Montevideo ha fatto di tutto, ha provato tutto ed è morto nella strada d'un colpo di pugnale; ma in altri tempi sarebbe diventato un Napoleone. Io mi sentivo un cencio a petto suo. Il Buondelmonti guardava il costruttore. Questi aveva una statura poco più alta della media e membra proporzionate, ma per effetto forse d'una mirabile giustezza di proporzioni, appariva più grande, un che di grandioso era in lui, appariva ancora fortissimo oltre i cinquant'anni, ed era in lui un che di formidabile. Il Buondelmonti guardava soprattutto i fasci di muscoli che avevan le sue ciglia di qua e di là dal naso largo, massiccio, diritto, senza scavo all'attaccatura frontale. Quando Lorenzo Berènga cessò di raccontare della sua vita e del fratello ucciso, aveva la faccia un po' in avanti e non guardava nessuno. Il Buondelmonti vide che quella faccia ora metteva paura. Qualcosa di terribilmente feroce stava nell'occhio torbido sotto i fasci de' muscoli cigliari contratti e fermi come se fossero stati di ferro. Il Buondelmonti guardò ancora e scorse in quell'occhio feroce qualcosa di doloroso. A un tratto queste parole uscirono dalle grosse labbra del Berènga: — Si è in esilio qui, si lavora e si combatte in esilio.... altro clima, altra lingua, altra gente e famiglia nuova.... Dir l'inferno di chi è solo a combattere! Furono pochi attimi. Riapparve l'uomo cordiale e festoso dell'«Atlantide», l'occhio rischiarato. Con la sua franchezza disse al Buondelmonti: — Lei vuol andarsene, se ne vada; si ricordi che casa mia è casa sua. E aprendo la mano aggiunse a Bruna: — Vattene anche tu. La fanciulla scosse la chioma liberata e fuggì. Ma lo zio la richiamò ancora, ed ella si voltò domandando: — Mi vuoi? Negli occhi le bruciava un fuoco di riso. Lo zio le disse: — Cogli de' fiori per il signore, quando passa. Ma intendiamoci! Non spogliare il giardino! — Sì. E fuggì. Il Berènga disse al Buondelmonti: — Mio fratello quattro volte fece fortuna e quattro la distrusse. Una volta prestò tutti i suoi risparmi a un amico e non riebbe più nulla. Se io dico a Bruna di portarmi de' fiori, mi spoglia il giardino. Ha come mio fratello la mania di donare. Ultima fiamma del sangue nostro! Il Buondelmonti quando lasciò la villa in compagnia di Quirino Honorio do Amaral, era ammutito. Rivedeva l'occhio del Berènga torbido di ferocia e di dolore, si ricordava dell'altro occhio del Tanno e della cicatrice del pugnale guizzante sotto il negror della barba. Gli ritornavano in mente le parole del Berènga: — Altro clima, altra lingua, altra gente.... Era l'emigrante dell'«Atlantide». Lo rivide sopra un'altra nave, in mezzo all'oceano, a dodici anni, col fratello e le braccia soltanto. Gli riapparvero gli emigranti con i quali aveva viaggiato, e, subito dopo, gl'italiani di San Paolo e di Rio de Janeiro con i quali aveva pranzato quella sera. E ancora risentì le parole del Berènga: — Soli a combattere! E a un tratto afferrò la condizione di quelli uomini: ognuno di loro era solo in mezzo alla vita collettiva del paese straniero; ognuno di loro valeva per la sua forza individuale, assente quella che centuplica tutti: la forza nazionale. Dispersi membra tronche. Subito gli balenò e gli si fissò in mente la verità piena con queste parole: — Sono così forti! Che avrebbero fatto, se ognuno avesse avuto con sè la forza nazionale? Invece, la patria li diminuisce. Rivide la cicatrice sulla gota del Tanno, risentì l'insulto lanciatogli in faccia: — Evviva Menelik! Il Buondelmonti gridò dentro di sè: — Razza di cani! Quando vollero che l'Italia restasse sconfitta da un selvaggio, non pensarono a questo. Non pensarono che tagliavan le braccia a tanti milioni di disgraziati dispersi per il mondo! E ora l'Italia manda il medico sulla nave a pesar loro il cibo e l'aria e medicar le piaghe! Per quindici giorni, razza di cani! A un tratto dal cancello della villa, nel buio, vide balzarsi dinanzi una forma femminile, Bruna con le mani piene di fiori. E dati questi, la giovinetta come presa da follia si mise a correre qua e là e a cogliere, a cogliere altri fiori. Il Buondelmonti diceva: — Basta! Ma Bruna continuava a coglier fiori senza parlare. III. Piero la mattina dopo mandò de' fiori a Giovanna e un biglietto nel quale la pregava di dirgli quando poteva andare a farle visita. Giovanna ringraziandolo gli rispose che gli avrebbe scritto per avvertirlo, e Piero che s'aspettava l'invito per quel giorno stesso, rimase male e si domandò: — Che accade? — Per più mattine aspettò la posta, ma la lettera di Giovanna non giunse. Egli lasciava triste l'albergo e soltanto riusciva a vincere ancora la sua tristezza visitando le scuole e i sodalizi italiani di Rio de Janeiro accompagnato da Giorgio Tanno, dai fratelli Mùrola e da altri e talvolta anche dal socialista Giacomo Rummo. Questi era segretario d'un sodalizio intitolato l'«Operaio Italiano» e quando il Buondelmonti andò a visitarlo, gli fece il viso dell'armi come al pranzo del Berènga: in fretta e furia gli mostrò le sale per puro dovere di ufficio, gli dette alcune notizie sull'origine e l'andamento del sodalizio e lo piantò lì insieme con gli altri che l'avevano accompagnato. Un'altra volta il Buondelmonti trovò il Rummo sulla porta d'una scuola insieme con altri che lo aspettavano per riceverlo. Era una scuola d'infanzia, vi erano trenta o quaranta bambini, i figli degli italiani nati nel Brasile, i figli degli emigranti che avevano attraversato l'oceano per cercar fortuna. Erano trenta o quaranta bambini macilenti ed esangui, una sorta d'omuncoli malati in cui s'era già spenta negli occhi e nei gesti ogni vivacità italiana. Avevano ancora negli occhi un'ombra degli italiani del mezzogiorno, un orlo intorno alle palpebre d'un bel nero morato che tanto più risaltava nell'esangue macilenza dei volti. Il Buondelmonti n'interrogò alcuni e domandò loro il nome del padre e della madre e che cosa facevano, e ogni bambino rispondeva il mestiere del padre e della madre non in italiano, ma in brasiliano. Il Buondelmonti dimandò loro a uno a uno: — Sei italiano o brasiliano? E tutti quei bambini dai sei ai dieci anni a uno a uno risposero: — Brasiliano. Il Buondelmonti si rivolse al loro maestro. Questi era un giovanotto sui vent'anni bello e forte, oriundo d'Italia e nato nel Brasile. Il Buondelmonti rimase con gli occhi stupefatti a guardarlo, perchè gli parve d'assistere ad una metamorfosi. Il giovanotto aveva tutte le fattezze e la struttura e i bei colori ancora dell'italiano, ma già una lentezza, simile a quando prende il sonno, l'aveva occupato, ed era così visibile che pareva l'occupasse in quel momento. Al Buondelmonti parve di assistere al trasformarsi dell'italiano in uomo d'altro clima. Proprio come quando un colore si muta in un altro, l'italianità era ancora e già mancava. Il Buondelmonti voleva dir qualcosa al maestro intorno al suo metodo d'insegnamento, ma non gli disse nulla, scrollò le spalle e uscì dalla scuola. Disse al Rummo, quando furono in istrada: — Queste scuole sono davvero un debole istrumento per la conservazione dell'italianità nelle colonie! E cercò d'intrattenere il Rummo parlandogli d'emigrazione e di doveri nazionali; ma il Rummo gli disse: — So, so! Ho dat'un'occhiata al suo libro, «La riforma borghese». — Ebbene? — Lei vorrebbe la nazione eroica, sogna conquiste affricane. Ma dove vuol trovarlo l'eroismo tra la borghesia? L'eroismo è solo dalla nostra parte e si chiama sciopero generale. E sprezzantemente il Rummo se n'andò pe' fatti suoi, non solo, ma da quella volta si tenne il più possibile lontano dai ritrovi dove supponeva d'incontrar il Buondelmonti, e per la via si voltava dall'altra parte e non lo salutò più. Altre volte il Buondelmonti passeggiava per Rio de Janeiro insieme con Quirino Honorio do Amaral, spesso lungo la riva del mare, e le loro conversazioni s'aggiravano di solito su letterati e artisti europei della cui conoscenza, specie degli italiani, il giovane brasiliano si mostrava avidissimo. Egli aveva già un cervello addestrato alle cose della letteratura e dell'arte di Europa ed aveva per tutto ciò che fosse italiano una passione che lo divorava; la quale passione, seppe il Buondelmonti in una delle loro passeggiate sul mare, gli proveniva dall'avere egli qualche anno avanti, quando cioè era ancora giovinetto, vista recitare in un teatro di Rio de Janeiro una grande attrice italiana, e dall'essersi allora per la prima volta la sua anima iniziata alla conoscenza del bello. Quirino era poeta d'ardente e profonda anima, aveva già composto un poema intitolato «La patria lontana» e l'aveva dedicato al grande poeta nazionale del Brasile Joâo Antonio de Oliveira del quale egli era discepolo. La patria lontana era l'Italia, culla della civiltà latina. L'anima di Quirino vedeva continuamente l'Italia, perchè l'arte ne aveva risvegliato in lui, il ricordo, ed ei la considerava come sua patria d'origine, sin dall'origine de' suoi padri antichi. Sicchè quando si trovava col Buondelmonti era avidissimo di saperne il più possibile e lo interrogava su Roma e sulle altre città, sull'aspetto de' paesaggi, sui monumenti e sulle vite degli artisti; tornava continuamente su Roma e sulle rovine romane e faceva domande particolareggiate, minuziose, dicendo spesso: — Io so che questo monumento è posto così ed ha questa linea, ma com'è? Il Buondelmonti gli rispondeva e Quirino domandava ancora, e il Buondelmonti gli dava altre notizie sorridendo, ma Quirino era insaziabile, per un'avidità dell'antichissimo sangue trasfuso in lui. Spesso poi conduceva il Buondelmonti da un celebre libraio francese della città il quale si chiamava Garnier e nella cui bottega frequentavano letterati e artisti; questi pure, uomini di fino intelletto e di curiosità spirituale, si mostravano desiderosi di conoscere la letteratura e l'arte d'Italia, ma Quirino per placare la sua nostalgia li stancava parlando e parlando loro del Buondelmonti, quando questi era partito. Finalmente una settimana dopo il pranzo del Berènga, Piero e gli Axerio si ritrovarono in una casa brasiliana che dava un ricevimento in loro onore, e Piero appena entrato nel primo salotto avendo scorto Giovanna le andò incontro e le domandò: — Perchè non mi ha più scritto? Ma Giovanna non aveva ancora risposto quando sopraggiunse il Porrèna dicendo: — Questo Brasile m'accoppa con una congestione cerebrale di noia. Pure, aveva un'allegria che gli schizzava fuori da tutti i pori e la sua faccia arguta non era stata mai così arguta come quella sera. Sotto voce prese a perseguitare tre brasiliani che attraversavano il salotto, sparivano in quello attiguo, riapparivano, uno dietro l'altro, tutti e tre soli, impalati e stecchiti come andassero in processione, e mostrando sotto la pelle dell'uomo bianco la struttura del teschio e il colore del negro. — Eccoli lì: hanno i loro padri alle finestre. E le finestre erano per il Porrèna le loro stesse facce da cui come da finestre mettevan fuori il capo i padri. E il Porrèna non tanto rideva di questo quanto a pensare come i tre brasiliani si sarebbero irritati, infuriati, se uno avesse mostrato loro il destino di quelle loro facce bianche, di far da finestre a' teschi dei loro padri negri. La visione de' tre brasiliani che pestavano i piedi dal furore, ciascuno col teschio del padre saltante dentro l'involucro della pelle facciale, esilarava il Porrèna e dava al suo animo un'ebrietà di «vis comica» che si trasfondeva nell'animo di Giovanna. Finalmente il giovane trovò l'ultima parola per uno de' tre brasiliani deambulanti, molto vecchio, tutto rughe, talchè come tra un arruffio di corde appariva il suo teschio. — Eccolo lì: ha ancora qualcosa di giovanile: lo scheletro. Infatti il vecchio camminava con la persona diritta e qualcosa d'inesprimibilmente giovanile era in lui, nel portamento della spina dorsale. Il Porrèna e Giovanna a un tratto sparirono nella folla degli altri invitati e Piero si mise a cercarli di salotto in salotto, finchè poco dopo ritrovò la signora senza più il giovane e le disse: — Ma che c'è dunque fra Lei e me? La signora alzò il viso, lo guardò, ebbe un moto d'ira tra ciglio e ciglio, gli disse: — Lei perde contegno, signor Buondelmonti. Poi vide la sua faccia sì stravolta che aggiunse: — Venga dimani alla villa verso le quattro. E andò dritta incontro al marito. Il giorno dopo verso le tre Piero salì a Santa Teresa domandandosi ancora la causa del mutamento di Giovanna e ricordandosi de' pochi giorni del viaggio che eran successi alla notte in cui l'«Atlantide» aveva camminato attraverso la nebbia. In quei giorni egli aveva sempre creduto di legger chiaro nell'anima di lei; vi aveva letto che essa non voleva trovarsi più sola in sua compagnia, ma era stata d'un'adorabile dolcezza negli attimi fuggenti, e ciò era bastato a Piero e gli era piaciuto e aveva pensato che non bisognava farle violenza, tanto sarebbero giunti presto a Rio de Janeiro. Il giorno prima dell'arrivo Giovanna stava nel corridoio avanti alla sua cabina, in ginocchio, e riponeva le sue robe nel baule, quando era passato Piero e aveva detto: — A domani! Giovanna senza alzarsi di ginocchio gli aveva stretto la mano con tanta luce negli occhi! Nè tutto quel giorno, nè il giorno innanzi, nè prima l'aveva trovata più in compagnia del Porrèna. Ora perchè il Porrèna era tornato accanto a lei? Che mutamento aveva fatto Giovanna? Perchè? Piero era salito in tranvai; giunto dove bisognava scendere per prendere il sentiero che menava su alla villa degli Axerio, s'accorse che era troppo presto, scese e s'indugiò per la strada da dove cadendogli gli occhi sulla città che stava giù nel piano, ripensò che non aveva ancora avuto l'animo per contemplarne la bellezza, ne provò rimorso e cercò di liberarsi dalla passione che già incominciava a rendersi padrona di lui, cercò di liberarsene lasciandosi occupare dalle cose esterne. Per la strada dove andava, c'era molta quiete, casette sparse con giardinetti intorno, bambini scalzi, serve negre e qualche venditore ambulante che passava battendo con una mano delle bacchette di legno per farsi sentire. Talvolta si sentiva un batter di mani dinanzi al cancello d'un giardinetto o alla porta d'una casetta: era qualcuno che chiamava di fuori e qualcuno di dentro appariva, sì i giardinetti eran piccoli e le casette piccole e leggiere. Piero prese il sentiero della villa e a un certo punto trovò degli operai negri e bianchi che lavoravano, alzavano un muro per reggere il ciglione che non franasse, e fra loro Piero riconobbe un emigrante dell'«Atlantide» e ne sentì altri dire qualche parola in italiano. Allora si accorse quanto una delle due nature che erano in lui, la individuale, presa d'amore, avesse sopraffatto l'altra che poteva diventar coscienza nazionale, perchè non aveva più occhi per vedere gli uomini della sua patria, nè orecchi per sentirne le voci. Ne provò un profondo rimorso e si disse dentro di sè: — Son venuto qui a innamorarmi come un fanciullo? E guardò gli uomini della sua patria che rivoltavano la terra straniera in mezzo ai negri schiavi d'Affrica. Quando a un tratto uno di questi negri alzò la voce e si mise a gesticolare sulla faccia d'un italiano. Altercavano e ad un certo momento il negro fece l'atto di metter le mani addosso all'italiano. — Ah razzaccia! — gridò Piero e spinto dal suo rimorso a far anche di più di quel che fosse necessario per un uomo della sua patria fu addosso al negro e l'atterrò, ma quegli fortissimo rimessosi in piedi gli sferrò un pugno. Cieco d'ira allora Piero e più forte gli fu di nuovo addosso e di nuovo l'atterrò e lo conficcò con le ginocchia a terra e gli sbattè la faccia sulla terra rivoltata che era di color rosso acceso, sicchè sulla faccia negra, quando questa si rialzò, pareva brani sanguinanti. Ma subito Piero per lo stimolo di quella stessa azione di lotta che aveva compiuta, si ricordò del Porrèna, il suo amore lo rioccupò, la paura e l'ansia lo vinsero, d'un fiato sotto il sole rovente corse su alla villa degli Axerio, nel salotto vide che il Porrèna non c'era, la gioia lo invase, vide poi che Giovanna era in compagnia d'una signora italiana, di due signori brasiliani a lui sconosciuti e del marito. E sino alla fine della visita il giovane, dimentico anche del mutamento di Giovanna, ebbe l'animo libero, leggiero leggiero e gioioso. Il professor Axerio raccontò della prima lezione che aveva fatta alla facoltà di medicina il giorno avanti e disse bene degli studenti brasiliani che gli erano parsi d'un'intelligenza raccolta e penetrante. La signora della colonia, una madre di famiglia, raccontava a Giovanna delle difficoltà che ci sono per educare italianamente i figli nella colonia, mancando buone scuole. A un tratto Piero e le signore sentirono un galoppo serrato per il sentiero sotto la villa. Eran accanto alla finestra, guardaron fuori, videro dallo svolto del colle venir a cavallo di gran trotto una forma femminile nella quale, quando fu più vicina, riconobbero Bruna Berènga. Questa passò sotto la villa, alzò gli occhi, salutò mandando un grido acuto, sfrenò il cavallo, divorò il tratto di sentiero che saliva sui precipizi sino alla foresta nella quale sparve. E subito dal medesimo svolto del colle apparve un cavaliere, era il Berènga il quale teneva dietro alla nipote di gran corsa. Passò anch'egli sotto le finestre, curvo il gran torso sul cavallo, non vide, lanciò un grido: — Bruna! Sparì anch'egli nella foresta e si sentì ancora la voce che richiamava: — Bruna! Giovanna dopo si levò dalla finestra per offrire il tè. E Piero tutto animato di speranza da quella corsa selvaggia disse a Giovanna mentre questa gli porgeva la tazza: — Poi mi dirà, vero?... perchè con me non è più quella di prima. Giovanna senza alzar gli occhi dalla tazza gli rispose: — Sono sempre la stessa. — Allora — riprese Piero — posso venir anche domani a salutarla? Giovanna a capo chino rispose di sì. E Piero qualche momento dopo, lasciata la casa di Giovanna, aveva nell'anima un gran proposito di lavoro. Voleva nell'America del Sud non passarsela in ozio, ma occuparsi utilmente studiando l'emigrazione italiana. Perchè la felicità aveva nel cuor di lui, già stretto dalla pena d'amore, resuscitata la coscienza nazionale come il vento da un fuoco chiuso in un cespuglio appicca la fiamma a tutta la foresta. Egli era sempre stato in Italia un forte lavoratore ed ora da più d'un mese, tra il viaggio e il resto, aveva cessato ogni seria occupazione. Era tempo di ricominciare. E scendendo da Santa Teresa in città benediceva Giovanna che gli aveva suggerita l'idea di quel viaggio e degli studii sull'emigrazione. Ella diventava l'ispiratrice della stessa sua coscienza nazionale e Piero l'adorava come non la aveva adorata mai. Giunto in città corse al consolato italiano e fattisi dare libri, relazioni, notizie, ogni sorta di documenti sulle condizioni degli italiani a Rio de Janeiro tornò all'albergo e passò tutta la notte a tavolino. Ma la mattina Giovanna gli mandò un biglietto nel quale gli diceva che era dispiacente di non poterlo ricevere il giorno per un impegno sopraggiuntole da parte di suo marito. Nulla più: non l'invitava per un'altra volta. E allora Piero ricadde in balìa della pena d'amore perchè era orgoglioso e per tutto l'oro del mondo non avrebbe più battuto alla porta di Giovanna. Costei l'aveva attirato tanto lontano, lusingato e ora l'abbandonava. Gli riappariva il Porrèna. Li disprezzava tutti e due. Erano degni l'uno dell'altra, erano il prototipo della coppia cittadina raffinata, frivola e motteggiatrice con la quale egli non poteva parlare. Ma altre volte, specie la mattina quand'era giunta la posta senza portar un nuovo invito di Giovanna, la passione s'impossessava di lui, e allora si ritrovava solo nella città sconosciuta, i nuovi amici non esistevano più, tutte le cose esteriori erano morte, non poteva restare all'albergo ed errava per le strade senza mai trovar requie, sempre col pensiero fisso di Giovanna dentro di sè e spesso si ricordava de' giorni che avevano passato insieme sull'«Atlantide». La rivedeva tanto più amabile d'allora. La rivedeva in tanti atteggiamenti di cui gli pareva che allora gli fossero sfuggite la leggiadria e la grazia, allora che era per lui la donna la quale sarebbe stata la sua amante di lì a pochi giorni. Rifaceva la vita di bordo, giorno per giorno, ora per ora, e gli pareva di non aver goduto abbastanza della sua compagnia e di lei. La rivedeva e la risentiva parlare, ridere, camminare, uscire dalla sua cabina, entrare nella sala da pranzo, battere le mani dalla gioia, fissarlo con gli occhi ilari e intimiditi, chinare il piccolo, leggiadro capo sul mare, dirgli tante tante frivole cose sotto voce, pendere dalle sue labbra quand'egli le raccontava degli emigranti. Rivedeva quel nastro di seta color granato su quel profilo greco de' suoi capelli castani tremare al vento leggiero come la sua anima, gli era parso talvolta, a fior del mare. E tutto era pieno di lei; i suoi occhi, il suo riso, le sue vesti erano da per tutto, tutto prendeva qualcosa da lei, il mare, la nave, il cielo, la notte, le stelle. Essi avevano contemplato insieme le stelle, spiato l'apparire della Croce del Sud dopo l'Equatore, visto ondulare nella notte le alberature e le sartie nere e attraverso quelle brillare le stelle. Avevano visto la cima, dell'albero di prua tentennare quasi impercettibilmente e sopra c'era una stella, tre stelle, uno sciame di stelle, e l'albero pareva che si movesse per toccarle. E Giovanna aveva mormorato qualche parola o mandato un sospiro per esprimere la sua pena di non potersi esprimere, e a Piero quel sospiro e quella parola non erano penetrati nel cuore come ora che glie lo dilaniavano. Che paradiso avrebbero potuto dargli ora quelli occhi da cui l'infanzia non voleva partire, quella voce, quel riso, quella bocca, quelle mani piccole e magre che quella notte aveva prese fra le sue e baciate e lasciate! Perchè le aveva lasciate? Ora Piero se ne pentiva perchè sapeva che l'amore della donna è spesso il frutto della sua caduta e che ci sono donne le quali non cadono perchè amano, ma amano perchè sono cadute. Ei si diceva dentro di sè: — Perchè ho avuto questa debolezza? — E ne provava rimorso. Si ricordava che quella notte, quand'erano soli, sepolti nella nebbia, ed essa tremava e aspettava, si ricordava d'aver sentito per un attimo sfiorarsi il petto dal palpito del suo seno e di aver sentito per l'attimo d'un attimo lungo la persona il contorno della schietta persona di Giovanna, e questo ricordo gli dava un rimorso carnale che accendeva la sua passione. In certi momenti Giovanna stessa mutava aspetto e la sua voce non diceva a Piero come allora: — Pietà di me! — Ma diceva: — Perchè non m'hai soffocata fra le tue braccia? Io volevo questo, se tu l'avessi voluto. Perchè m'hai delusa? — Riappariva il Porrèna, riappariva continuamente sulla nave accanto a Giovanna. E intanto ogni proposito di lavoro era caduto. Gli amici, Giorgio Tanno, i fratelli Mùrola, andavano a cercar Piero all'albergo dove abitava sulla riva del mare, e lo trovavano afflitto: rispondeva appena alle loro parole e non domandava più delle cose della colonia, delle scuole e de' sodalizi, che per lo innanzi aveva mostrato tanto zelo di conoscere. Talvolta quella sua natura per la quale egli poteva uscir da se medesimo e incarnar la coscienza d'una nazione, mandava il suo nobile grido contro l'altra che la teneva schiava d'amore. Piero aveva sempre avuto molto disprezzo per il romanzo borghese contemporaneo il cui eroe è sempre il giovane signore ozioso, spasimante d'amore in adulterio. Nulla di più sciocco aveva trovato mai di simile letteraturaccia da omiciattoli. Ed ora in un paese d'emigranti della sua patria, egli, apostolo della vita nazionale eroica, per altro non era venuto se non per comporre, delle sue lacrime e de' suoi sospiri, un romanzuccio d'amore e di gelosia, d'amore senza corrispondenza e di gelosia forse senza rivale. Piero si disprezzava per il suo amore e per la sua gelosia. Ma non poteva far altro se non pensare a Giovanna. Seppe un giorno che gli Axerio avevano cominciato a frequentar qualcuno della colonia e a far visite la sera. Egli andò or da questo, or da quello con la speranza di trovar Giovanna, e la cercava per la città. Una Domenica Piero si sentiva più afflitto e solo degli altri giorni nella città sconosciuta, e più la coscienza della miseria nella quale era caduto, lo tormentava. Quando pensò che un solo uomo gli avrebbe potuto dar forza per risorgere o almeno un po' di consolazione, e quest'uomo era il costruttore di case Lorenzo Berènga. Andò a trovarlo nella sua villa a Santa Teresa dopo il tramonto. C'era nel giardino della villa la nipote Bruna la quale appena lo scorse, gli si fogò incontro a braccia aperte mandando grida festose, e Piero a un tratto si sentì consolato da quell'accoglienza tanto cordiale. Subito Bruna gli domandò: — Lo zio? E senza aspettar risposta s'incamminò avanti. Andava via in fretta per il giardino e nelle sue membra c'era il fremito della corsa frenata a stento. Ma a un tratto disse: — Questa sera gli altri italiani non verranno. Piero si sentì rimorire confessandosi ora che egli era venuto alla villa del Berènga, soprattutto per la speranza di trovarvi Giovanna. Appena toccò la soglia, Bruna s'alzò di statura, la sua faccia si ricoperse di religione come quella del devoto che entra in chiesa. Attraversò un corridoio camminando in punta di piedi per abitudine contratta e come se un momento dopo non avesse dovuto disturbar lo zio battendo alla sua porta. Quando fu dinanzi ad una porta chiusa, battè. Una voce aspra rispose di dentro: — Avanti. Il Berènga appena il Buondelmonti entrò, gli chiese, senza nemmeno dar tempo ai saluti, se sapeva di quelle società per la costruzione di case operaie che ci sono in alcune città d'Italia, e quegli incapace di parlare gli rispose di no. Il Berènga gli aggiunse che voleva vedere se era possibile di tentar qualcosa di simile a Rio de Janeiro, e che aveva incominciato a studiare intorno a quel disegno. Il Buondelmonti facendosi forza gli disse: — Mi hanno raccontato che Lei trova il tempo per molte cose.... — È vero. E il Berènga portò il Buondelmonti nella sua biblioteca dove fra molti altri libri di vario genere gli additò le più celebri e reputate opere francesi, italiane, tedesche, inglesi, d'esegesi biblica, di storia del cristianesimo, di controversia fra il cattolicismo e il protestantismo, di dogmatica e di oratoria sacra. Poi tirò giù dagli scaffali alcune di quelle opere, mostrò le pagine annotate nei margini. Domandò l'altro: — Son note di suo pugno? — E di chi debbono essere? — rispose il Berènga e tirò giù altre opere che avevano in margine annotazioni piene di acume e di profonda fede religiosa. Ora l'annotatore approvava il testo e ora contradiceva, il più spesso senza discutere, seccamente, sì e no, come uomo sicuro del fatto suo e senza dubbii: — Faccio sempre così; io non posso lasciarmi dominare quando lo scrittore mi manifesta il suo pensiero; ho bisogno di dominarlo io e annoto. — Ma pure Lei è un uomo di fede. Il Berènga aggrottò i fasci delle sopracciglia e proruppe corrucciato: — Ma la mia fede è libertà, non schiavitù! La mia fede è mia, perchè me la sono scelta io, e credo perchè ho visto! Credere non mi diminuisce, mi fa così! S'alzò sulla punta dei piedi, levò le braccia e poi sedutosi al tavolino e invitato il Buondelmonti a fare altrettanto, riprese: — Sì, caro signor Buondelmonti! Quand'ho lavorato tutto il giorno, mi metto qui e leggo e studio. Veda, per le mie case operaie di cui Le parlavo. Di sotto a un cumulo di libri e di fogli trasse due grandi quaderni tutti scritti e opuscoli in italiano. E dopo aggiunse: — Vuol vedere quant'ho dovuto studiare nella mia vita? Aprì un cassetto del tavolino e ne tirò fuori un monte di quadernetti, come quelli degli scolari e disse: — Ecco qua come mi sono imparato il francese e l'inglese. A quarantacinque anni son ritornato ragazzo. Il Buondelmonti dette un'occhiata ai quadernetti e s'accorse che si calmava la sua pena. Guardò il costruttore che teneva il braccio disteso sul tavolino in atteggiamento di riposo senza stanchezza e aveva sulla faccia la franca soddisfazione di parlare di sè. Lo invitò a raccontargli la sua vita. Ma il Berènga gli raccontò soltanto che era nato in Abruzzo, all'ombra del Gran Sasso, e che suo padre era capomastro famoso ne' suoi paesi e viveva ancora; e poi gli raccontò come egli medesimo era passato da muratore a costruttore mettendosi in un'impresa con un architetto di Rio de Janeiro il quale aveva finito col presagirgli che sarebbe diventato il primo dell'arte sua in tutto il Brasile. E gli raccontò come aveva imparato le matematiche e l'architettura rubando le notti al sonno. A un tratto dette una voce forte e chiamò Bruna la quale era uscita appena introdotto il Buondelmonti. Accorsa Bruna le disse: — Tutti qui per le orazioni. E di nuovo rimasto solo col Buondelmonti gli disse: — Oggi è Domenica, è l'ora di fare orazione; se a Lei non piace assistervi, buona notte. — No! Mi piace — esclamò il Buondelmonti e già respirava liberamente. Il Berènga aggiunse contento, come per concludere: — Insomma, caro signor Buondelmonti, qualcosa abbiamo fatto. Ho cinque officine, settecento operai, ho arricchito i miei genitori e i miei fratelli che son tornati in Italia, ho cercato nelle costruzioni che ho inalzato qui di mettere un po' di solidità alla maniera di mio padre e qualche linea italiana. Il Buondelmonti sentiva di nuovo il desiderio d'aver notizie degli emigranti e perciò disse al Berènga: — L'altra volta m'accennò le difficoltà d'aprirsi una strada qui.... altra gente, disse, altro clima.... — L'altra volta non mi spiegai bene. Non son uomo io da lamentarmi se trovo la vita dura. Io son più duro. Ma intendevo dire: per chi si costruisce qui? Per chi ho costruito io tanto? Fra la madrepatria e questo nobilissimo paese che ci ospita, che legame c'è? Siamo forse cittadini qui, senz'esercitare i diritti politici? E se prendiamo la cittadinanza del Brasile, siamo forse sempre italiani? E se le volessimo tutte e due, che saremmo noi? E la forza di questo suolo non divora subito i figli degli stranieri sin dalla prima generazione? Diventano figli del paese. Lei, ho saputo, ha visitato la nostra scuola. Son forse ancora italiani? E deve esser così, perchè questo nobilissimo paese ha diritto di diventar grande, perchè come tutti i paesi nuovi ha una forza d'attrazione immensa. Ma noi per chi costruiamo? Io come io, Lei può crederlo, non sono scontento di me. Ma come italiano, che avrò aggiunto con la mia forza, col mio mezzo secolo di lavoro, a quella grande cosa che dovrebbe esser l'Italia? Qui l'Italia non c'è in nessuna maniera! Qui c'è un altro paese, nobilissimo anche questo, che prenderà uno de' primi posti nel mondo, ma non è l'Italia. Io vorrei stare fra gli eschimesi, ma poter dire: — Qui la mia patria domina! — Oh, sarebbe altra cosa! Tacque un momento. Lungo il braccio ancora disteso sul tavolino corsero gli occhi suoi sin alla mano villosa che s'aderse spalancando le dita. Poi il Berènga ricominciò guardandosi sempre le dita: — Le dissi l'altro giorno che più volte sono stato buttato a terra da colpi di fortuna e che mi son sempre rialzato e rifatto. Una volta avevo preso grandi lavori nella capitale d'uno stato del Nord. Dovevo costruire un ospedale, un teatro e altri pubblici edifizi. Noleggiai delle navi per conto mio, assoldai più di mille operai, feci immense provviste di materiale, misi nell'impresa tutti i miei fondi e tutti i miei crediti e via! Ma in quella città di cattivo clima caddi malato, stetti dieci settimane a letto e dovetti tornare a Rio. Rimessomi, stavo per tornare a' miei lavori, quando mi giunse un telegramma con l'annunzio che eran rimasti in tronco. Corsi. A farla breve, il contratto che io avevo, fu rotto e i lavori non furon più ripresi. Tutta la mia fortuna se n'andò in quell'abisso e restai con più d'un milione di debiti. Ma senta. Vengo a sapere che qualcuno m'aveva voltato contro l'animo del governatore per agguantarsi poi lui i lavori. Io lo conoscevo, l'uomo; era un mio nemico e rivale. Un giorno l'incontro per la strada. Appena mi vide, affrettò il passo. Aveva la morte dietro. Lo raggiunsi, l'afferrai per le spalle, lo torsi all'indietro così, gli avrei troncata la spina dorsale e mangiata la faccia, vidi la sua faccia pallida dallo spavento. A un tratto sentii dentro di me una voce: — No! — Lo scossi per le spalle e gli dissi: — Vattene! — Dio voleva così. Tacque. Il suo occhio corse ancora lungo il braccio sino alla mano che drizzò le dita come capi di serpi. Sotto il sopracciglio aggrottato l'occhio nereggiava. Il Berènga ricominciò: — Io ero giovane allora, amavo, mi dovevo sposare di lì, a tre mesi, si seppe della mia rovina, i parenti di lei mi chiamarono e mi dissero: — Tutto è finito! — Io ero troppo orgoglioso, risposi: — Sta bene! — Portaron via quel giorno stesso la ragazza in un'altra città. E non l'ho più rivista. Io stetti un giorno e una notte seduto così a un tavolino a pensare se dovevo finirla. A un tratto una voce mi disse: — Avanti! — Mi detti una frustata nella faccia, m'alzai e ricominciai. Ma per chi, domando io? Se fossi stato nel mio paese e il mio paese m'avesse aiutato, con questo mio braccio qui mi sarei sentito la forza di creare un mondo. Il Berènga alzò dal tavolino il braccio col pugno chiuso, e il Buondelmonti vide correr per quello un torrente di forza. Tornò Bruna con la servitù per le orazioni comuni della Domenica e donne e uomini si disposero in circolo. Lorenzo Berènga lesse prima un frammento della Bibbia e poi alzandosi in piedi incominciò a pregare o meglio a parlare a Dio, a ringraziarlo de' benefizi che gli aveva fatti, a raccomandargli se medesimo e la nipote e il padre e la madre e i fratelli lontani e tutti i suoi servitori. Stava col tergo e con tutte e due le mani appoggiato al tavolino; la lampada elettrica che pendeva dal soffitto, non l'illuminava in pieno, sulla faccia bruna e barbuta c'era un'ombra. Stava con la faccia un po' in avanti e gli occhi chiusi e rassomigliava al cieco, quando sa d'aver dinanzi a sè qualcuno, gli parla e non lo vede. L'ombra che egli aveva sulla faccia, pareva venir da qualcuno al quale egli parlava. Pareva l'ombra di Dio. I lineamenti eran sempre gli stessi, a taglio di spada per la guerra terrena, ma eran sotto quell'ombra e la faccia pareva accecata. E a chi ricordava il suo occhio di guerra, qualunque cosa il Berènga dicesse a Dio nella sua preghiera, pareva dire: — Ecco, Dio, tu hai voluto punirmi per il mio orgoglio e per la ferocia del mio sangue accecandomi, ed ecco io mi umilio dinanzi a te! — E pareva che quell'uomo pregando patisse indicibilmente. Quando il Buondelmonti lasciò la villa, qualcosa di nuovo era accaduto dentro di lui. Una voce gli diceva: — Se non altro per lui, per quell'uomo che ha saputo vincere il suo amore e riprendere il suo lavoro, tu devi fare il tuo dovere. Tu pure devi vincere il tuo amore e lavorare, se non altro perchè non moiano sconosciuti, in esilio questi eroi della tua patria, questi meravigliosi costruttori perfin della loro nuova fede libera e veggente! Si sentiva dentro di sè una forza nuova, una volontà di vincere il suo amore per il suo dovere. Sino a quel momento aveva anche strenuamente combattuto per le sue idee, ma sempre col piacere che nasce dall'agir secondo i proprii istinti e il proprio carattere, mentre ora per la prima volta sentì dentro di sè il primo svegliarsi d'una coscienza più consapevole e più virtuosa che aveva alcunchè di religioso: si sentì forte della volontà di soffrire per fare il proprio dovere. Tanto su di lui era stato efficace l'esempio del Berènga. E a un tratto in questa nuova disposizione di spirito per la prima volta gli apparve la colpa iniziale del suo viaggio: la sua leggerezza. Egli era venuto in paese d'emigranti, nel paese dove Lorenzo Berènga aveva lottato e sofferto e tanti altri uomini della sua patria avevano lottato e sofferto e fatto tanto; egli vi era venuto non condottovi da un serio proposito di studio e di lavoro, ma per seguire l'invito d'una signora. Era la sua colpa iniziale: egli aveva cominciato com'il giovane signore del frivolo romanzucciaccio borghese. E del resto, anche per l'innanzi, non era stato sempre così? Non era stato anche lui uno schiavo dell'amore? Non s'era compiaciuto dentro di sè delle sue buone fortune d'amore? E tutte le volte che amore era apparso, non gli aveva sempre sacrificato ogni altra cosa? E non era stato anche lui un uomo, un giovane del suo tempo, d'un tempo in cui ognuno è separato dagli altri e chiuso nel suo atomo d'egoismo, nessun grande sentimento e nessuna grande idea essendoci più a formare di tante esistenze una gran vita? Non era stato anche lui l'atomo disperso con la sua cupidigia, con la sua concupiscenza, con la sua cecità? Non era stato anche lui un figliuolo del secolo, frivolo come gli altri? E perciò volendo seguire in America una signora aveva potuto prendere per mero pretesto un disegno di studii nazionali senza neppur accorgersi che offendeva la parte migliore di se medesimo. E perciò tutto quello che ora gli accadeva, se lo meritava. Sentì il rimorso di quello che aveva fatto, e questo rimorso aggiunse nuova forza alla sua volontà. Ripensò a Giovanna e improvvisamente n'ebbe una grande pietà, nè ora la giudicava più male. Ora gli appariva com'una signora che gli aveva fatto quell'invito innocentemente, forse leggermente, ma innocentemente, per semplice simpatia e senza alcun secondo fine. Bisognava lasciarla alla sua pace. Essa era una piccola creatura borghese la quale viveva nella sua ignoranza, senza veder più in là della sua giornata. Bisognava lasciarla alla sua pace. Il Buondelmonti giunse all'albergo quando già era notte inoltrata. Nel suo salotto trovò un biglietto d'invito degli Axerio. Riconobbe il carattere di Giovanna. Dritto in piedi rimase lungamente con gli occhi fissi sul biglietto aperto e posato sul tavolino, sentendo dentro di sè rinascere la tentazione. La combattè e si disse: — Mi scuserò gentilmente, ma non andrò. IV. Giovanna preparò i fiori nel salotto da pranzo e tornò nel suo salottino da ricevimento e da studio a finir la lettera a Filippo Porrèna. Essa scriveva al Porrèna le sue impressioni e le sue considerazioni sopra un libro francese che quegli le aveva portato a leggere, e mentre scriveva, provava un grande piacere a pensare a lui. Giovanna aveva incominciato a sentire un'inclinazione per Filippo la sera del ricevimento brasiliano, ed ora si trovava in quello stato in cui si trova spesso la donna quando si sente a poco a poco occupare il cuore, nè ancora è sorto in lei il combattimento appassionante fra il suo amore e la sua virtù; era tutta contenta. Così, mentre stava aspettando i suoi invitati, gli scriveva una lunga lettera, e la sostanza e la forma della lettera, se uno fosse stato lì a guardare, le avrebbe potute indovinare dai piccoli gesti che essa interrompendosi di tanto in tanto faceva tra sè e sè, e dalle arie che prendeva la sua faccia e dai sorrisi che vi si succedevano. Essa sorrideva, si sorrideva, si dava un colpetto or qua or là sui capelli per metterli a posto, metteva a posto or questo or quel fiore nel vaso che aveva dinanzi a sè. La sua fronte di tanto in tanto si corrugava e così indicava lo sforzo dell'esprimersi, ma le sue labbra sorridevano sempre e così indicavano che quanto essa voleva esprimere era piacevole. I gomiti appuntati sul tavolino, gli occhi inchinati sul foglio di carta, le palme delle mani che s'accostavano come se volessero mettersi in croce e si discostavano come se volessero battere l'una contro l'altra, la fronte corrugata e le labbra sorridenti, era manifesto che Giovanna cercava le più piacevoli parole per il suo pensiero piacevolissimo. Giovanna nella lettera parlava di sè. Il Porrèna le aveva portato quel libro, un romanzo d'una signora parigina che s'era letto molto qualche anno prima; glie lo aveva portato sostenendo una cosa che a Giovanna faceva un certo piacere e un certo dispiacere insieme: sostenendo che essa e l'eroina del romanzo si rassomigliavano. Il romanzo era d'una rara ingenuità e d'una rara freschezza, era molto parigino per le sue eleganze e per le sue finezze e al tempo stesso passandosi in parte fuori delle mura cittadine, vi spirava un'aura sincera e viva, una vera gioia agreste in cui la bellezza della natura, si rispecchiava limpidamente. L'eroina era una signora giovane, bella, elegante, e soprattutto leggiadra e buona, ma tradiva il marito. Essa, metà parigina come il romanzo e metà agreste, ingenua, fresca e di semplice e delicatissimo spirito, pur riusciva per suo conto senza troppa pena a metter d'accordo due cose che sembrano tanto discordi: tradire il marito e rimaner buona. Rimaner buona cessando d'essere onesta, perchè quando l'onestà è docile e se ne va all'ora sua senza far chiasso, non lascia dietro a sè l'animo guasto! Giovanna non comprendeva la cara creatura, ma l'adorava, tranne per il suo tradimento. E scriveva appunto al Porrèna per ribattere la sua asserzione, che cioè ella le rassomigliasse: cercava dentro di sè ed esponeva le differenze; ma in così fare sentiva istintivamente le rassomiglianze piacevoli e se ne compiaceva, e perciò le sue labbra sorridevano. Soprattutto Giovanna esponeva le sue idee sul matrimonio e sulla fedeltà coniugale, e così aveva modo di porre in mostra i frutti dell'educazione che aveva ricevuta e della vita che aveva condotta. Prima di maritarsi essa aveva fatto la signorina e dopo essersi maritata aveva fatto la moglie con animo di signorina. Il marito era per lei un uomo col quale aveva certe relazioni non del tutto piacevoli e non del tutto spiacevoli, ma dal quale era sempre distratta, un uomo al quale non pensava, ma del quale se mai si risovveniva di tanto in tanto. Essa sapeva che era un uomo celebre, aveva anche notato che era molto vano; vedeva che spesso la sua lunga barba profetica era scossa dalle parole di civiltà, di progresso, di scienza, d'umanità e d'avvenire, ed aveva anche fatto osservazione che egli dentro le pareti domestiche presentava non di rado un contrasto tra quelle sue parole e certe sue maniere dispotiche, talvolta brutali e persino feroci; ma non l'odiava, nè l'amava. Non l'odiava, perchè non lo aveva mai amato, e non l'aveva amato perchè non ci aveva pensato mai. Nè essa mancava delle dovute cure per il marito, ma non c'era un angolo della sua anima dove il marito fosse qualcosa. Uno solo, quello dove si custodiva una massima che l'educazione le aveva istillata: — Tu non tradirai mai tuo marito! — Tutta la sua educazione molto diligente era stata rivolta a questo: a formare l'anima d'una signorina sempre pronta a diventare una moglie che non avrebbe tradito mai suo marito. Per il resto, educazione era pari a disoccupazione. L'educazione e la disoccupazione e un'intelligenza sveglia congiunta con un'indole allegra avevano fatto di Giovanna una signorina spigliata e molto morale. Tu non tradirai mai tuo marito! Con questa massima, che per soprammercato le era sempre stata istillata sotto velo, da nessuno come da tutti, era andata a nozze e l'aveva avuta per dote spirituale: una dote spirituale e una dote in pecunia, perfetta creatura di quel mondo borghese che i suoi affari ha bene accomodati: la morale e l'economia. E quella massima generica era scritta in quella parte del cuore dove avrebbe dovuto esservi il preciso pensiero di quel preciso uomo, il marito. Per parte sua Giovanna, in quella comune composizione d'un'epoca e d'una società qual era l'esser suo, portava la sua incomparabile leggiadrìa, la sua gioia, la sua sincerità, la sua innocenza tutta olezzante ancora d'infanzia quale le traspariva dagli occhi. L'epoca, la società, la disoccupazione, l'educazione, la famiglia, anzi le tre famiglie, del padre, della madre, e del padre e della madre insieme, tutte e tre di professionisti emigrati di campagna in città e arricchiti da una generazione soltanto, avevano fatto il possibile per ricavare da Giovanna una creatura comune. Essa non era riuscita così. Continuava a scrivere. Sentì nella stanza attigua il marito. Non le passò nemmen per la mente di nasconder la lettera. Si ricordò invece del Buondelmonti che doveva giungere di lì a poco, perchè il marito glie lo aveva fatto invitare perchè bene accetto alla colonia, e le si risvegliò il rancore che gli portava da molti giorni. Che credeva egli, che aveva creduto? Che davvero lo avesse tratto a seguirla a Rio de Janeiro per diventare la sua amante? Eppure aveva creduto questo, ed essa se ne sentiva profondamente offesa. Fin dalla mattina dopo quella notte che eran rimasti troppo a lungo sul ponte e in troppa solitudine, Giovanna s'era accorta che il Buondelmonti aveva l'aria di contare per il loro arrivo a Rio de Janeiro sopra l'adempimento d'un patto, sul saldo d'un debito da parte sua; e sin da quella mattina nel cuore di Giovanna era nato il rancore contro il Buondelmonti ed era andato sempre crescendo, tranne pochi momenti di sosta, fino allo sbarco, dallo sbarco al ricevimento brasiliano, da questo alla visita che colui le aveva fatta. E tutto ciò che Giovanna aveva prima pensato del Buondelmonti, tutto ciò che aveva sentito per esso dagli anni lontani di Firenze al loro ultimo incontro di Roma, da questo al viaggio sull'«Atlantide», tutto s'era mutato in rancore che glie lo rendeva insopportabile. Non soltanto la morale dell'educazione aveva il Buondelmonti offeso in Giovanna, ma anche qualche cosa di molto più forte e profondo in lei e tante cose delicate; il senso della sua libertà, la sua dignità, il suo pudore di donna e soprattutto una rettitudine ed un'ostinazione di rettitudine di natura campagnuola che le proveniva da' suoi consanguinei avanti che emigrassero in città. Giovanna sentì battere le ore, pensò che di lì a poco sarebbe giunto anche Filippo. Si rammentò del breve dialogo che essa aveva avuto a bordo col Buondelmonti, quando costui le aveva fatto capire che lo vedeva di mal'occhio. Da quel momento essa aveva cominciato a riguardarlo con una nuova curiosità. Ora pensò che di lì a poco Filippo e il Buondelmonti si sarebbero ritrovati accanto a lei alla stessa tavola. Ad un tratto sentì un passo fuori, riconobbe il Buondelmonti, lo sentì entrare nello studio del marito: fu tale il moto di rancore, che non lo potè vincere e corse a rifugiarsi in camera sua. A tavola Piero stava attento a Giovanna ed al Porrèna. Piero li ritrovava tutti e due quali li aveva lasciati al ricevimento brasiliano: legati fra loro da un'intimità allegra. Era pur sempre la coppia cittadina tutta frivolezze e brio. Il Porrèna esponeva qualcosa e Giovanna lo contradiceva, ma il loro battibeccarsi faceva anche più risaltare il piacere che l'un l'altra si davano con la loro intimità. Essendo caduta la conversazione su Parigi, da cui uno dei convitati, direttore del «Giornale del Congresso» di Rio de Janeiro, era tornato da poco, il Porrèna che vi aveva molto abitato, di discorso in discorso era venuto al celebrar la virtù delle signore parigine, e Giovanna ridendo e alludendo al libro finito di leggere il giorno stesso, a ripetere che conosceva bene quella virtù e ad osservare che il romanzo e il teatro parlavan chiaro, e il Porrèna a sostenere che il romanzo e il teatro di Parigi eran fatti per gli stranieri e quali li volevano gli stranieri più corrotti dei parigini. Il direttore del «Giornale del Congresso» disse che egli pure doveva riconoscere alla donna francese, se non la virtù, molte virtù domestiche: che sapeva come nessuna altra donna al mondo tenere una casa, aveva l'amore del risparmio ed una virtù più rara ancora: sapeva spender bene e figurar con poco. L'Axerio, quantunque ignorante di tutto questo, dichiarò che era vero e scosse più volte la barba per punteggiar l'assentimento, perchè voleva ingrazionirsi il direttore del maggior giornale della città. E un altro commensale, direttore d'un giornale italiano, fu dello stesso avviso, e l'Axerio volgendosi anche verso di lui assentì di nuovo e scosse di nuovo la barba, perchè voleva tenersi cara la stampa per averne molte lodi quell'anno che avrebbe passato nel Brasile. Piero disse qualcosa sulla donna e sul popolo della provincia francese, raccontando d'un breve viaggio che aveva fatto nell'interno della Francia un anno prima. Egli parlava con calma, con un aspetto di pensosa serietà, descrivendo il serpeggiare della Senna per la regione da lui percorsa, le isolette arboree che essa forma nel suo cammino, le linee larghe dell'orizzonte, le selve più cupe che in Italia e soprattutto i villaggi deserti nell'ora del lavoro. Quivi, nelle strade senza oziosi, nelle piccole case dai colori vivaci, dalle porte e dalle finestre serrate e colle tendine ricamate e tutte linde alle finestre; nel bel modo di tenere i fiori e le piante e specialmente nelle piccole chiese gotiche che ogni villaggio aveva, tutte linde e deserte anch'esse nell'ora del lavoro, egli pure aveva scorto le virtù domestiche del popolo francese lungi da Parigi: amore del lavoro appunto, dell'ordine, del risparmio, d'una certa sobria e delicata signorilità. Quando Piero cessò di parlare, s'accorse d'aver parlato troppo a lungo. Tutti avevan taciuto e l'avevan ascoltato per educazione, ma quando si tacque, sentì intorno a sè un silenzio glaciale. E subito il Porrèna disse una qualunque facezia, tutti risero in coro e Giovanna rise più forte di tutti. Ma il Buondelmonti sentì sferzarsi la faccia da quelle risa, provò lo stesso che se i commensali si fossero burlati di lui, e la gola gli si serrò a qualunque parola. Gli pareva che qualunque sua parola sarebbe caduta di nuovo nel silenzio e che perfino i suoi gesti fossero falsi e goffi. Dall'ombra della chioma levò sul Porrèna gli occhi invidiosi e vide che le due rughe sul naso gli mandavan saette, e avrebbe voluto esser come lui. A momenti lo disprezzava, sentiva in lui un avversario come sempre l'aveva sentito nell'Axerio: tutti e due suoi avversarii contemporanei, l'Axerio, la bocca de' luoghi comuni, e il Porrèna, il frivolo prodotto dell'ozio borghese. Ma a momenti si posponeva a lui e diceva a se medesimo dentro di sè: — Vorrei esser come lui! — E così si rinnegava. E questo accadeva perchè la sera che era tornato dalla villa del Berènga e aveva trovato l'invito degli Axerio, aveva detto: — Non andrò! — E per un giorno intero aveva lottato, ma poi aveva scritto agli Axerio per ringraziare accettando, e ora poi trascinato dalla sua viltà scendeva sempre più giù, rinnegava la sua nobile coscienza e si posponeva a un uomo che diceva facezie. A un tratto la voce del Porrèna gli ferì le orecchie: — Signor Buondelmonti! Decida Lei tra la signora e me.... Ma Giovanna, come se il Buondelmonti non esistesse, interruppe: — La signora dice che Lei al solito vede sempre il male anche dove non c'è. — No, Giovanna! — volle corregger l'Axerio rivolgendosi complimentosamente verso il Porrèna. — Questo nostro amico vede soltanto il lato comico delle cose. — Altro che il comico! — ribattè al marito Giovanna. — Il cattivo! Conosco il mio signor Porrèna dell'«Atlantide»! Mi ricordo il povero morticino che prendeva latte quel giorno del ferimento! E Giovanna fece per voltarsi verso Piero, ma abbozzando questi un sorriso, subito si voltò dall'altra parte. Filippo riprese: — Non è colpa mia se anche la bontà ha molti lati cattivi e la serietà molti lati comici. L'Axerio, non considerando quello che diceva, ma volendo ostentare al giovane simpatia, perchè aveva sentito dire che era molto ricco, figlio unico di banchieri italiani di Rio de Janeiro, ribadì: — Specialmente la serietà qualche lato comico. Il giornalista italiano pensando che la Domenica prossima nel suo giornale avrebbe dato a quella conversazione nella villa del professore illustre l'epiteto di spirituale, esclamò macchinalmente: — La serietà un lato comico, perbacco! Il giornalista brasiliano tacque e sorrise. Tutti tacquero qualche momento. Il Buondelmonti sentiva crescersi il malanimo contro Giovanna che piegava il piccolo capo verso il piatto mangiando. Gli pareva sì misero ora in quell'atto quel piccolo capo che altre volte gli era apparso tanto leggiadro! Non era essa la donnetta che poteva darsi per vizio, per ozio, per vanità, ma non per amore? Perchè s'era innamorato di lei? Che poteva volere da lei? Non era la donnetta di quella stessa gentucola di cui il marito era il professore e il cerretano? Vedendo lei non vedeva il fondo di tutte quelle cose contro cui da tanti anni combattevano la sua dottrina e il suo sdegno? Egli se la ricordava perfino a bordo, quando le parlava degli emigranti in relazione con le sue grandi idee nazionali, e la donnetta non capiva, supponeva in lui il solito umanitario, stupidamente! Che voleva da lei? Ma Giovanna tutt'animata ristimolò Filippo provando gusto a farlo emergere dalla conversazione degli altri. — Insomma! Vogliamo dire l'argomento della nostra discussione? Filippo invece, sazio di quel discorso, volubilmente si rivolse al Buondelmonti. — Signor Buondelmonti! Ho assistito sull'«Atlantide» a molte sue discussioni. Lei è imperialista, vero? Un giorno il professore e Lei discutevano sulla sistemazione definitiva del mondo in un prossimo avvenire, e per quanto in disaccordo, erano perfettamente d'accordo nel presupporre che il mondo si potesse sistemare sopra un tipo di civiltà superiore. Ebbene, sul più bello della discussione io pensavo che l'«Atlantide» navigava alla volta dell'America del Sud per caricar lane di pecora e pelli di bue. Di nuovo Filippo con la sua volubilità rivolgendosi a Giovanna le disse: — Ecco, veda, signora, dinanzi a tali spoglie opime tutta la magnifica civiltà di cinquanta secoli mi muove leggermente il riso. I commensali dimandaron perchè, mentre il padron di casa scotendo forte la barba ripeteva: — È vero, è vero! E la barba gli vibrava d'una subita simpatia per il giovane. Il quale riprese: — È vero, sì, professore! Gratti la civiltà e troverà un sistema di forniture per l'alimentazione del solo animale che pensi al suo pasto, anche quando non ha appetito. Si levarono esclamazioni diverse, da cui uscì fuori la voce di Giovanna: — Ah quel bambino che prendeva latte, come me lo ricordo ancora! L'Axerio, mentre Giovanna e Filippo si dicevano qualcosa fra loro, disse al Buondelmonti: — È uno spirito geniale e libero, libero da tutti i pregiudizi! La sua famiglia ha una posizione di prim'ordine! Filippo Porrèna a un tratto riprese forte: — Imperialismo! E fissando gli occhi sulla tavola ripensava a quando sull'«Atlantide» Giovanna, dinanzi appunto a quel bambino che prendeva latte, gli aveva lodato il Buondelmonti. E vedendolo ora muto, sorrideva fra sè e sè con le due rughe ferme e raccolte in mezzo alla fronte, in forma di piccola lira. Finchè riaprì bocca e disse: — Tutto è imperialismo. Anche la pecora che pasce in Argentina, è vittima d'un imperialismo: quello del genere umano sugli animali. Non è vero, signor Buondelmonti? Un leggerissimo riso uscì dalla gola di Giovanna. Il Buondelmonti alzò gli occhi e li riabbassò, e si sentì un borbottìo nell'orecchio. Qualcuno, un commensale che sin allora aveva soltanto mangiato e taciuto, ora s'ostinava a volergli dir qualcosa. Era un medico, uno de' primissimi italiani emigrati nel Brasile, molto povero, e che l'Axerio aveva invitato a pranzo per far buon effetto nella colonia. Aveva la faccia istupidita dalla vecchiaia, ma intepidito dal pranzo riandava gli anni della sua gioventù e voleva raccontare al Buondelmonti com'era Rio de Janeiro quand'egli c'era giunto quaranta o cinquant'anni prima. Il Buondelmonti ne aveva il borbottìo nell'orecchio, mentre sentiva che Giovanna e il Porrèna eran tornati a ridere fra loro. E gli pareva che ridessero di lui. Un furore muto gli si moveva nel petto, d'odio impotente contro i due, che li avrebbe uccisi, e non aveva via d'uscita dal suo petto. Finì il pranzo, finì la serata. A un tratto, mentre stava per accomiatarsi, il Buondelmonti afferrò queste parole che Giovanna disse piano a Filippo: — A proposito, Le ho scritto. Gli invitati già uscivano, quando Giovanna disse ancora a Filippo: — Lei può aspettare un momento? Vuol prendere con sè quel libro? Oppure glie lo rimando. Sta sempre all'Albergo degli Stranieri? Il Buondelmonti uscì con gli altri, lasciò che andassero avanti senza salutar nessuno e rimase solo nell'oscurità della notte per vedere quando il Porrèna sarebbe venuto via dalla villa degli Axerio. Vedeva attraverso i fiori e le piante del giardino una finestra aperta, con un lume dentro, e la porta chiusa, e aspettava che questa si aprisse d'attimo in attimo. Il sangue ferocissimo gli martellava alle tempie, di tanto in tanto un'immagine, l'immagine del Berènga che assaliva il nemico, gli passava dinanzi agli occhi nel barlume della coscienza. Ei rimaneva sotto l'ombra del monte sovrastante nell'oscurità, abbaiavano cani per il colle, accanto si levava il tronco d'una palma, ei teneva gli occhi fissi alla finestra col lume e alla porta. Di là da quella finestra gli pareva di veder Giovanna e il Porrèna continuare a ridere di lui. Quanto sarebbero stati lì? Tutta la notte? Aspettò a lungo. Poi la porta si aprì e apparve il Porrèna nel giardino, ma lo seguivano l'Axerio e Giovanna, e rimasero a lungo a parlare ancora tra le piante e di tanto in tanto ridevano. Era manifesto: parlavano e ridevano di lui. Parlarono, parlarono a lungo, e di tanto in tanto a Piero, quando i cani non abbaiavano, pareva di sentire il loro riso, soprattutto quello di Giovanna. Finalmente il Porrèna apparve di qua dal cancello, ma Giovanna lo seguì ancora e gli parlò ancora, e poi alla luce che veniva dalla finestra e dalla porta, Piero la vide stendergli la mano e reggendosi con l'altra al cancello abbandonarsi verso di lui con tutta la persona. La sentì augurargli la buona notte e aggiungere distintamente: — A domani. Un attimo di silenzio, e un riso squillante ferì l'orecchio di Piero. Ma questi per un moto istintivo di vergogna, quando il Porrèna gli passò dinanzi, si ritrasse dietro il tronco della palma, per l'istinto dell'uomo incapace d'assalir dall'ombra. L'immagine del Berènga gli riattraversò la mente, del Berènga che assaliva, per ben altro amore, ed ebbe vergogna dello stato in cui si trovava. Pure, il giorno dopo andava per Rio de Janeiro e pensava a Giovanna e al Porrèna: pensava che si sarebbero rivisti quel giorno stesso e forse erano già insieme in quello stesso momento. E il Porrèna gli passava e ripassava nell'immaginazione come se l'era visto passar dinanzi la notte, alto e sottile, un po' curvo sulla vita, da afferrare e da troncare. Si diceva dentro di sè: — Perchè non l'ho fatto? — Si pentiva di non averlo fatto e ne provava rimorso. A un tratto gli parve di scorgerli lontano nella via: camminavan lesti; accelerò il passo: eran pur Giovanna e il Porrèna; quel signore alto, sottile e un po' curvo era il Porrèna e la signora che gli camminava al fianco, era Giovanna. In fondo alla via, prima che Piero avesse potuto raggiungerli, svoltarono a destra, e quando Piero fu lì, non vide più nessuno lungo la via che avevan preso: soltanto una carrozza che s'allontanava. Piero era certo che eran Giovanna e il Porrèna, ma al primo passante che vide, domandò dove si trovava l'Albergo degli Stranieri e dalla prima vettura che incontrò, vi si fece portare. Il Porrèna era fuori; e allora Piero non ebbe più dubbio: quegli e la donna che egli amava, scarrozzavano insieme per la città, se non erano scomparsi in una casa della via dov'avevano svoltato. Piero andò per la città, andò sulla riva del mare, e non vedeva più il mare e non vedeva più la gente che gli passava accanto; andò per più ore così, finchè repentinamente si diresse verso Santa Teresa. Giunto alla villa degli Axerio, domandò se la signora era in casa, e avendogli la cameriera risposto di sì, che era rientrata da poco, si fece annunziare; la cameriera tornò e l'introdusse nel salotto dove qualche momento dopo comparve anche Giovanna. Ma costei appena fu sulla soglia, inarcò le ciglia e s'arrestò, tanto il Buondelmonti aveva la faccia sconvolta da quello che provava il suo animo. Egli s'avanzò a capo basso, guardando a terra con l'occhio iniettato di nero sangue, e disse: — Voglio sapere che c'è di mutato tra Lei e me. Giovanna contrasse l'arco delle ciglia e la collera s'impossessò anche di lei. — Se un altr'uomo — rispose — mi si fosse presentato in cotesto modo, avrei creduto che fosse impazzito! Ma Lei so la risposta che vuole. Anche Giovanna era irriconoscibile; il Buondelmonti s'avanzò verso di lei; essa gli stette a fronte con gli occhi che mandavan fiamme; il Buondelmonti disse: — La risposta me l'ha già data da un pezzo e anche oggi. — Oggi? — domandò Giovanna. — Sì, qualcun altro ha preso il mio posto. — Ah! — gridò soffocatamente Giovanna, e rimasero tutti e due in silenzio. Essa pensò che era stata per la città insieme con Filippo, e riprese: — Infatti qualcun altro ha preso il posto sul quale Lei contava venendo a Rio de Janeiro. Qualcun altro è il mio amante. Giovanna vide il Buondelmonti slanciarsi avanti, arrestarsi facendo una mostruosa violenza a se stesso, sì mostruosa che essa fu presa dalla paura di ciò che poteva succedere. In quello stesso punto sentì entrare in casa il marito, lo chiamò e prima che quegli si fosse accorto della presenza del Buondelmonti, gli disse: — Grazie d'averci fatto aspettare inutilmente! T'abbiamo aspettato tre quarti d'ora col signor Porrèna. L'Axerio rispose alla moglie con sdegno: — La professione avanti tutto, mia cara. Vide il Buondelmonti, mutò d'aspetto, lo salutò e si ritirò. Il Buondelmonti era rimasto umiliato, ma Giovanna aveva dovuto dare una spiegazione. Essa si frenò ancora, ma sentì che non poteva nemmeno sostenere la vista di lui, e perciò gli disse: — Quello che è stato detto, sia per non detto. Se Lei resta ancora a Rio de Janeiro, dovremo rivederci. Lei verrà ancora in questa casa. La signora Axerio riceverà sempre un amico del professor Axerio. Ma l'amicizia che c'è stata fra noi, La prego di considerarla come morta e per sempre. Passarono molti giorni e Piero e Giovanna non si videro più e non seppero più nulla l'un dell'altro: finchè una sera Piero rincasando trovò due lettere, una dell'«Operaio Italiano» e un'altra del professor Axerio. L'«Operaio Italiano» dava una festa e invitava il decoro delle patrie lettere Piero Buondelmonti; il professor Axerio scriveva al caro amico per raccomandargli di non mancare a quella medesima festa, perchè veniva data per uno scopo nobilissimo: per celebrare il rappacificamento fra due valorosi connazionali, due colleghi che egli medesimo, il professor Axerio, era riuscito a indurre con inauditi sforzi a stringersi la mano mettendo fine a un'inimicizia che per dieci anni aveva fatto lo scandalo, il dolore e il danno di tutti gl'italiani a Rio de Janeiro. Così scriveva l'Axerio ed era vero: egli aveva sudato quattro cotte per quel rappacificamento de' due colleghi, perchè capiva che sarebbe stato un bel colpo per impiantar subito il suo prestigio di gran procacciante nella colonia. I due medici eran veramente nemici da dieci anni d'una inimicizia d'odio mortale per rivalità di professione e dividevano gli animi. Perciò fatta stringer loro la mano, l'Axerio stesso aveva proposto una gran festa nella sede dell'«Operaio Italiano», e perchè riuscisse più solenne aveva voluto che gli inviti non fossero ristretti solo agl'italiani, ma si mandassero anche ai brasiliani ed alle più ragguardevoli personalità, com'ei diceva, delle altre colonie, francesi, inglesi, tedesche, e così la sua intenzione era di preparare a se medesimo un trionfo internazionale. E aveva scritto in particolare al Buondelmonti perchè a questo trionfo fosse presente, perchè la colonia lo aveva in considerazione ed egli medesimo per conseguenza ne faceva più conto che in Italia; e poi non aveva mai potuto dimenticare di quando sull'«Atlantide» era stato costretto ad additarlo al Berènga che aveva detto: — Ci dev'essere a bordo un altro valoroso nostro compaesano! — Non aveva mai potuto dimenticare di avergli dovuto cedere una parte degli onori e glie n'era restato sempre il rammarico e il desiderio di mostrargli alla prima occasione la sua incontrastabile superiorità. Il giorno della festa andando all'«Operaio Italiano» camminava per la via accanto alla moglie con la barba gonfia e gongolante e vi giunse poco prima de' due nemici rappacificati. I quali nella sala maggiore del sodalizio rinnovarono gli abbracciamenti e uno era piccolissimo di statura e l'altro grandissimo. E poi, capaci d'abbracciarsi ma non di parlarsi, si separarono subito e andarono il piccolo con questi e il grande con quelli e di tanto in tanto da un capo della sala all'altro e attraverso i capannelli degl'invitati si lanciavano, quando potevano, occhiate cariche della loro inimicizia di dieci anni, e il piccolo aveva l'occhio anche più feroce. In quel mentre, il segretario stesso del sodalizio, Giacomo Rummo, spiegava al professor Axerio perchè nella colonia si esercitavano tanto le discordie e con il suo acume solito faceva osservare che le colonie eran piccole comunità a sè, fra altre comunità, dove le fortune degli «homines novi» si trovavano in vista e di fronte le une alle altre più che nella madrepatria e quindi più si osteggiavano. E poi erano appunto «homines novi» con un che di barbarico ancor fresco; e poi non avendo nel paese d'immigrazione i diritti politici eran ridotti allo stato di puri individui, «homines novi oeconomici», e quindi quelli spiriti pugnaci che nella madrepatria, per lo meno in parte, si sarebbero sfogati nelle lotte dei partiti, nella colonia eran costretti a sfogarsi tutti quanti nelle competizioni da persona a persona e intorno ai sodalizi. Il Rummo teneva appuntato verso il petto del professor Axerio il piccolo cono rossigno della sua barbetta e gli parlava con le sue labbra secche e stirate godendo nel suo cuore ciò che per lui era tutto a questo mondo, il buon cibo, la buona bevanda e la sua parte d'amore; godendo il piacere di fare una esposizione di genere politico, perchè il Rummo era nato politico come l'Axerio era nato borghese. Ma questi ora guardava sopra la testa del Rummo verso il centro della sala e la sua barba ignara della barbetta espositrice si allungava nella direzione dello sguardo. Afferrò soltanto poche parole e ad un certo punto esclamò per tagliar corto: — Via via! Simili argomenti sono inopportuni. Da oggi non ci saranno più discordie nella colonia. Disse questo come quando diceva che non ci sarebbero state più guerre fra le nazioni. Il Rummo abbassò il cono rossigno, serrò le labbra secche e stirate, e come se fosse stato lo stesso Buondelmonti nelle discussioni sull'«Atlantide», disse dentro di sè per il professor Axerio: — Imbecille! E aggiunse: — Bel regalo ci ha fatto la patria! Il riformatore borghese e quest'imbecille! Ma già il professor Axerio parlava con un altro. In quel momento Filippo Porrèna camminando alla sua maniera un po' curvo e facendo musetto in aria come se braccasse il comico, s'avvicinò all'Axerio il quale gli disse: — Oh, caro signor Porrèna! E s'allontanò, perchè qualcuno il giorno innanzi gli aveva detto che in Rio il giovane aveva cattivo nome per i suoi costumi scioperati e nelle case serie non era ricevuto. Allora appunto fu visto Piero Buondelmonti entrare nella sala maggiore e molti gli andaron subito incontro, ma quando furono dinanzi a lui ammutirono perchè pareva uscito dalla tomba. Egli mise un braccio intorno alla spalla del Tanno e se lo portò al petto abbozzando un sorriso con i suoi occhi che parevano lacerati. Poco dopo, Piero seguìto da' suoi amici e Giovanna in mezzo ad altre signore si rividero. Piero tremò e vacillò e una repentina trasfigurazione avvenne sulla faccia di Giovanna. Gli andò incontro e gli stese la mano, ed era anch'essa bianca bianca come se non avesse più una stilla di sangue addosso. E di nuovo gli fu accanto e gli disse sotto voce: — Facciamo pace anche noi. E pareva non potesse parlare dalla commozione. E di nuovo: — Ho un gran torto verso di Lei.... Ma Piero fece l'atto di metterle una mano sulla bocca, e la sua faccia raggiava di gioia. Anche Giovanna amava. Sino dal momento in cui Piero aveva lasciato il suo salotto senza che essa gli stendesse la mano, le era caduta la benda dagli occhi, il rancore dall'anima, e s'era ritrovata col suo amore nato sull'«Atlantide». S'era ritrovata in ogni parte della sua anima l'uomo del quale non aveva potuto sostenere la vista e che aveva allontanato da sè per sempre. Essa amava e diceva: — Che ho fatto! — E tutto il male che sino a quel momento aveva pensato di lui, era sparito e una sola cosa era rimasta: egli amava. E Giovanna diceva: — Che ho fatto di lui? — E nutriva il suo amore dei pensieri più appassionanti, de' pensieri di pietà per l'uomo che essa amava. — Che ho fatto, che ho fatto di lui? — E nutriva il suo amore del suo rimorso. Giovanna lo rivedeva andarsene umiliato ed essa lo aveva umiliato e non gli aveva steso la mano; egli soffriva chi sa quanto, lontano da lei, perchè lei gli aveva detto: — Morta per sempre! — E perciò il rimorso non le dava requie. Colpevole e pazza si chiamava e avrebbe voluto rivederlo e non osava scrivergli. Ma voleva almeno saper qualcosa di lui e domandava al marito ogni sera: — Chi hai visto oggi? E insisteva: — Ma d'italiani? Il marito non aveva mai rivisto Piero Buondelmonti, nè altri lo avevano più visto. Essa domandava lo stesso a Bruna, senza fare il nome di lui; la sera andava spesso col marito da Lorenzo Berènga e dentro di sè cercava il modo di domandare lo stesso anche a lui. Ma nessuno aveva più visto Piero Buondelmonti. Sicchè essa cominciò ad aver paura che fosse partito e se lo immaginava in viaggio di ritorno per l'Italia e si ricordava dell'altro viaggio che avevan fatto insieme come d'una felicità perduta, morta per sempre. Perchè non ne aveva goduto di più di quella felicità? Perchè non vi s'era abbandonata? Perchè quella notte non gli aveva risposto: — A Rio de Janeiro, sì, sarò tua, prendimi ora fra le tue braccia? — Per tutto un giorno portò dentro di sè quel ricordo; per tutto un giorno pensò di essere fra le sue braccia, sentì dentro di sè la donna nuova e il nuovo amore di cui aveva avuto il primo indizio con spavento quella notte all'improvviso. Andò tutto il giorno per la casa e per il giardino fuori di sè, a capo basso, mettendo le mani sugli oggetti, rompendo le foglie delle piante senza accorgersene. A un tratto un animo le disse: — Scendi in città: lo rivedrai. — Come se volasse al convegno, si vestì in fretta e furia, certa che l'animo non l'ingannava, scese in città, tornò tardi e la notte non fece altro che piangere, perchè non avendolo rivisto le pareva come se fosse morto. Tanto che il marito essendo fuori il giorno dopo per le sue faccende e accadutogli di ripensare a lei si domandò dentro di sè: — Che ha quella donna? Bisogna le parli. — E poi se ne dimenticò occupato d'altro. Finchè Giovanna una volta rivide Piero in lontananza e ci mancò poco non le uscisse il cuore dal petto. Avrebbe voluto sparire sotto terra e il cuore le usciva fuori del petto dalla gioia. Dopo però, i giorni seguenti, un animo cominciò a dirle: — E tu credi che ti ami ancora? Tu credi che ti basterà di rivederlo e di chiedergli perdono perchè ritorni quello di prima? Ma ti odia e ti disprezza! Peggio! A quest'ora s'è dimenticato di te! L'hai voluto! Tu sei veramente morta per lui! — E non riusciva dentro di sè a veder quell'uomo tornare a sorriderle ancora e mostrarle ancora un segno d'amore. Un giorno il marito disse a Giovanna: — Ho scritto anche al Buondelmonti perchè non manchi alla festa dell'«Operaio Italiano». Alle quali parole Giovanna provò quello che pochi giorni prima aveva provato rivedendolo per Rio de Janeiro: avrebbe voluto sparire sotto terra per paura di ripresentarsi dinanzi a lui. E per la via mentre col marito andava all'«Operaio Italiano», Giovanna diceva a Piero nel suo cuore tremante: — Oh se tu fossi come me, una povera creatura che sbaglia e perdona! E con quanto era in lei di più umile e di più femminile, con quanto le era rimasto ancora dell'infanzia, Giovanna si componeva dentro di sè un Piero a sua immagine e somiglianza, un Piero con qualcosa di fanciullo e capace di sbagliare e di perdonare. E dentro di sè lo adorava con immensa tenerezza. Ma si avvicinava alla sede dell'«Operaio Italiano» e stava per comparire alla presenza di lui e non si sentiva più una stilla di sangue nelle vene. Perchè quella volta per Rio de Janeiro non aveva potuto rivedere il suo volto? Lo rivide e conobbe quanto egli aveva sofferto per lei. Quasi tutti se n'erano andati dall'«Operaio Italiano». I due nemici rappacificati uscirono con altri e quando furono sulla porta, il piccolo, quegli che aveva gli occhi più feroci, fece l'atto d'alzar le corte braccia per riabbracciare il grande, ma questi non fu dello stesso avviso, sicchè si separarono stringendosi soltanto la mano, nè dalle loro gole riuscì a passare una parola articolata. Il Porrèna sulla porta continuava a sorridere della cerimonia che s'era compiuta e de' due che s'allontanavano, l'uno troppo grande e l'altro troppo piccolo; finchè sempre sorridendo disse a Piero: — Noi oggi riconciliando quelle due stature diverse abbiamo ben meritato della concordia nazionale. Lei dev'esserne contento. Ma Piero, preda ormai dell'incanto d'amore, aveva tanta gioia accanto a Giovanna che non lo sentì nè lo vide. Intanto il professor Axerio continuava a stringer mani ripetendo per coronare la sua opera e darsi lode: — Speriamo che sia oggi l'inizio d'una pace duratura e feconda per la colonia. E quando fu al Porrèna, sapendo che le persone serie non lo frequentavano, gli disse con ostentata freddezza: — Addio, signor Porrèna. E si mosse per andarsene. Giovanna ripetendo come un'eco le parole del marito disse senza pensare a chi si rivolgeva: — Addio, signor Porrèna. Il Porrèna ingoiò il suo sorriso. Piero neppur ora lo vide. Ma quegli aveva notato che Giovanna s'era mutata un'altra volta, e si rodeva. Poi Giovanna disse a Piero: — Perchè non sale con noi a Santa Teresa? Quello che c'è c'è. Non la faremo morir di fame. Piero disse di sì e s'incamminarono avanti, mentre l'Axerio li seguiva con pochi amici. E a tutti e due pareva d'essere resuscitati. In tranvai, mentre salivano, Giovanna sentendo un gran bisogno d'esser perdonata da Piero tornò a dirgli: — Le racconterò tutto tutto, e Lei deve perdonarmi. Ma Piero non trovava parole che potessero saziare la sua gioia. Disse: — Guardi. E allora nell'atto stesso ch'ei la mostrò alla donna amata, la città gli apparve per la prima volta nella sua bellezza. Le mostrò il mare che si scopriva via via che salivano, e le isole e gli archi lontani delle montagne e le palme gigantesche che erano da per tutto, si slanciavano dalle bassure, toccavano il cielo da tutte le cime. Giovanna seguiva i cenni dell'uomo amato e aveva l'anima negli occhi. Tutte le cose belle nascevano allora sotto i loro occhi. Piero ripeteva: — Guardi! Giovanna ripeteva un solo monosillabo: — Sì! E avevano tutta l'anima negli occhi, e i loro occhi non bastavano per vedere le cose belle che nascevano intorno. Piero e Giovanna vedevano e non vedevano, perchè la gioia d'amore era in essi come una musica che animava e confondeva le loro visioni. A un tratto Giovanna, con la dolcezza della donna che manca per amore, sospirò il nome della città che aveva la stessa dolcezza: — Rio de Janeiro! E Piero si ricordò e tremando disse il nome di lei: — Giovanna! V. Lorenzo Berènga andava avanti e lo seguivano gli Axerio, il Buondelmonti, qualche altro italiano e i brasiliani Quirino Honorio do Amaral e Gonçalo da Paiva, un redattore del «Giornale del Congresso», con un lungo capo calvo sino alla cuticagna e due occhietti vispi così neri e vivi che parevano perforargli l'osso polito del cranio. Il Berènga camminava un po' curvo alla maniera de' campagnuoli e mostrava l'opera sua con franca compiacenza com'è proprio degli uomini che son venuti su dal nulla e non hanno avuto tempo d'imparare la virtù cittadina della falsa modestia. Egli mostrava l'edifizio di stanza in stanza e passando dava un'occhiata agli operai che c'erano ancora, chi a mettere gli affissi, chi a rifinire i pavimenti e chi a dipingere; si soffermava or dinanzi agli uni or dinanzi agli altri, prendeva notizie e impartiva ordini. E le sue parole eran secche e soldatesche, con un che di cordialità sotto la durezza. Piero disse a Giovanna: — Guardi le sue mani. Giovanna guardò il Berènga nel momento che questi per insegnare ad un operaio che cosa doveva fare, andava con l'unghia del pollice tirando linee su e giù sopra un affisso. La sua mano portava la testimonianza delle due vite, era operaia e signorile, formidabile e bellissima: larga, quadrata, massiccia d'ossa, travagliata di muscoli, coperta d'aspro vello, bruna sul dorso e bianca la palma, come quella dei negri, tenuta con cura e linda. I visitatori salirono dal primo al secondo e poi agli altri piani finchè riuscirono sulla cupola del palazzo dalla quale videro Rio de Janeiro su tutte le colline e tutte le isole. Quirino Honorio do Amaral vibrando gli orecchi verso il cielo, impetuosamente nominò a Piero e a Giovanna le colline, le isole e le spiagge. Ecco il Morro do Castello ed ecco il Morro da Gloria e Sant'Anna, Santa Teresa, e sopra Santa Teresa il Corcovado e poi le foreste della Tijuca e il Morro do Pinto e il Morro da Conceiçâo, e distese di case di colori crudi e il cupo della vegetazione e la terra nuda del color del sangue e giardini e ville. Ed ecco la Serra degli Organi col Dito di Dio. Ecco la spiaggia bassa d'Icarahy dov'è la città di Nicteroy ed ecco le isole Das Enxadas, Das Cobras, Do Vianna e la leggiadrissima isola Fiscal e l'isola del Buon Viaggio che s'alza in forma di mammella verso l'imboccatura del porto. Ed ecco a guardia dell'imboccatura l'erto Pan di Zucchero e di contro il Morro do Picco. Quirino e Gonçalo accennavano via via che nominavano; Quirino dava tutta l'anima sua con la sua parola e anche Gonçalo aveva il cuore gonfio di contentezza e gli occhietti più vivi gli perforavano di più il cranio polito, perchè la loro città era bella. E intanto il Berènga all'Axerio faceva la storia della nuova Avenida Central che correva a piè del palazzo. Poi Gonçalo e Quirino si misero a discutere fra loro per precisare i nomi di certe cime della Serra degli Organi verso il Dito di Dio, e Giovanna e Piero guardavano il mare e il cielo. A sinistra per tutto il bell'arco dal Pan di Zucchero a Nicteroy l'orizzonte era senza nube e luminoso. Dinanzi ai loro occhi lo strambo Corcovado si erigeva nella luce. Ma verso la Serra degli Organi il cielo era come un antro cupo di nubi tempestose e sotto, la laguna stagnante mandava lucori tetri. Giovanna disse a Piero: — Si è tanto in alto! E aggiunse: — Non mi sono mai vista così in alto! Piero esultò per queste parole, gonfiandogli il cuore l'inganno della specie che l'aveva rifatto artista. Esultò e disse: — Io vedo un immenso tumulto che s'arresta a un tratto. «Fiat lux. Et facta est lux». — Che dice? — Guardi, guardi! Là è luce, là è tenebre. Guardi quelle palme lassù lassù e poi quelle giù in fondo. Quelle lassù son giunte a vedere il mare. E di là ci sono ancora altre isole, altre rocce, altre montagne, e in cima altre palme che vedono il mare, e altre e altre e altre, sempre più là, sempre più là, finchè le ultime stanno dinanzi al libero orizzonte del mare e del cielo. Da questa parte dove c'è la luce, quale artista potrebbe creare un'opera di bellezza così pura? Ma dall'altra c'è le tenebre e la tempesta che minacciano guerra alla luce. Ecco ecco il tumulto che Le ho detto! Ora mi si precisa. È un tumulto di guerra. Noi abbiamo dinanzi agli occhi un gran campo di guerra fra la montagna e il mare, fra la roccia e l'onda. Guardi intorno, per tutto, che mischia del solido e del liquido! Il terreno par lacerato dal mare, il mare schiacciato dal terreno. Guardi quelle lagune come sono schiacciate! E quelle isole, quelli scogli, que' bracci della costa! Son membra sparse d'un gran corpo. Guardi le cavalcate delle montagne! Valli, baratri, gole, vette, lagune, laghi, isole, coste, un rovinio! Ci sarà un Wagner per esprimere il furore ed il fragore di queste Walkirie? Oh i colori! Guardi il mare sotto il Morro do Picco com'è turchino! Guardi dietro il Morro do Picco quella massa d'ombre! Sono isole, rocce della costa, nuvole? Chi sa! Son più turchine del mare. E sopra sono orlate d'oro. Anche il Pan di Zucchero ha dell'oro. Oh la grazia ora! Oh ecco come mutano i colori! Mutano come i pensieri. Guardi! Tutto è diventato violetta, il mare, le nuvole, i morri, il cielo. Non più la cavalcata delle Walkirie, ma il volo delle Grazie che lasciano dovunque i loro veli e i loro sorrisi. Quirino mandò un grido, Gonçalo sfavillò dagli occhi. — Evviva la patria latina! Gridò Gonçalo e parve gli ardesse il cranio geniale. Quirino non sapendo come altrimenti esprimere a Piero la sua riconoscenza, gli raccontò quello che qualche giorno prima aveva fatto. — Ho scritto un canto su Dante! E gli aggiunse il proposito che in quello stesso momento gli era nato nel cuore. — L'anno prossimo farò il viaggio d'Italia! E il furor lirico già portava via verso l'Italia l'anima del mirabile giovinetto. Giovanna era rapita in Piero e questi ebbro d'amore dentro di sè le parlava dicendole: — Cara, vorrei creare il mondo sotto i tuoi occhi. E nelle prime ore di notte di quel medesimo giorno Giovanna stava alla finestra della sua villa a Santa Teresa e guardava i lumi sparsi per il colle, perchè Piero le aveva aperti gli occhi dinanzi alla bellezza della città ed ora soltanto anche essa vedeva. Erano i lumi delle altre ville e dei sentieri e giungevano fino a lei da vicino e da lontano piccoli piccoli attraverso le chiome delle palme ed i giardini. Erano lumicini radi e leggiadramente furtivi nel buio tra le foglie e i rami tanto che a Giovanna parevano accesi per un giuoco da un popolo di fanciulli che poi si fossero nascosti. E sentiva una grande allegrezza nell'anima sua a vederli così, quella donna giovinetta. Qua e là biancicavano casipole e tronchi di palme. E poi giù nel piano c'era un cielo tutto tempestato di stelle, e poi un altro e poi un altro più lontano ancora, ed erano i quartieri della città, e poi altri lumi sparsi ed erano le isole della baia, e poi altri lumi su su ed erano gli altri colli. E dal mezzo della città saliva come un albore rassomigliante a quello della Via Lattea, e quando Giovanna levava gli occhi verso il vero cielo non vedeva più le vere stelle. Ma soprattutto tornava a guardare i lumicini del colle e rivedeva con gli occhi della mente le palme solitarie sino ai confini del mare, mentre tutto il mondo dormiva. Nè un rumore giungeva dalla città, nè dal mare, nè dal colle, nè dagli altri colli. Giovanna pensava a Piero. Poi a poco a poco la pena s'impadronì di Giovanna perchè pensava a Piero che l'aveva invitata a far una passeggiata con lui la mattina dopo ed essa aveva detto di sì. Pensava che ora non era come quando andava per la città con quel tal signor Porrèna, e si pentiva d'aver detto di sì. Il marito a tavola le aveva parlato male di Piero perchè gli era rinata l'ostilità che aveva nel sangue contro di lui: le aveva detto che in fondo era un uomo mediocre pieno di boria, che aveva una gran confusione nel cervello, che apparteneva ad altri tempi, che era un superuomo insomma, perchè superuomo era per il professor Axerio un tipo d'uomo che non possedeva affatto le tre virtù che il professor Axerio riconosceva a se medesimo in sommo grado: il buon senso borghese, l'animo buono e la modestia. Erano le virtù degli umili e perciò il professor Axerio poteva attribuirsele senza offenderne una delle tre, la modestia; ed erano anche di prima necessità per il viver civile e perciò il professor Axerio contro coloro che non le possedevano, contro i superuomini, com'ei li chiamava nella sua sprezzante ignoranza, si mostrava inesorabile. Così quella sera, durante il desinare in compagnia della moglie, era tornato a mordere il Buondelmonti, perchè poche ore prima sull'alta cupola era tornato chissà perchè a rivedere in lui un superuomo, vale a dire un nemico della sua stessa persona adorna delle tre virtù. E avendo Giovanna osato di difenderlo, il professor Axerio le aveva dato di sciocca, lampeggiando odio dagli occhi e dalla barba tutt'irritata. In quei momenti essa aveva risentito piacere di aver detto di sì a Piero; ma ora, sola con se medesima, se ne pentiva. Il marito s'era ritirato presto in camera sua; per le stanze piccole e leggiere della villa solo qualche passo di servitore rompeva di tanto in tanto il silenzio. Giovanna stava alla finestra, dimentica del sonno, e per distrarsi si sforzava di guardare i cieli della città e di seguire certe combinazioni di luci che parevano vere e proprie figure di costellazioni. Ma non poteva distrarsi, Piero riappariva e l'animo le ripeteva la domanda netta: — Andrai o non andrai domani mattina con lui? E sotto di questa le si presentava la domanda più grave: — Sarai o non sarai la sua amante? La sua pena angosciosa proveniva specialmente dal capire che le due domande eran tutt'una, che la prima dipendeva dalla seconda: l'animo le diceva: — Se tu andrai domani con lui, sarà finita per te: presto dovrai diventare la sua amante! E quando dentro di sè sentiva più chiare queste parole, risolveva di non muoversi di casa la mattina dopo, ma subito se ne addolorava e per sè e per lui: per sè perchè le pareva di vivere soltanto quand'era in sua compagnia; per lui perchè pensava al dispiacere che gli avrebbe dato, se gli avesse mancato di parola. Lo rivedeva come tante volte l'aveva visto in cima alla cupola, rivedeva la sua gioia e la sua felicità e pensava che le avrebbe amareggiate e non poteva sopportare questo pensiero. E allora incominciò a dirsi dentro di sè, nel suo cuore semplice con parole semplici: — Io andrò domattina e gli parlerò chiaro: gli farò intendere che non potrò mai essere la sua amante! E così con queste parole per qualche momento si metteva il cuore in pace e si abbandonava a pregustare il piacere della passeggiata, già si vedeva in compagnia di lui e lo sentiva parlare. Essi non avevano stabilito dove sarebbero andati, ma ovunque fosse, egli avrebbe parlato come poche ore prima sulla cupola ed ella sarebbe stata un'altra volta rapita in lui e in ciò che avrebbe visto per opera di lui. E per alcuni momenti era tutta lieta. Poi l'animo le diceva: — Ma se lui vorrà? — E allora tornava a stabilire che nè la mattina dopo nè mai sarebbe andata sola con lui. La stessa città incominciò a farle paura perchè aveva sentito l'irresistibile veemenza di Piero quando si trovava come artista dinanzi a quella. Giovanna sentiva che ovunque fossero andati di lì a poche ore, la città si sarebbe unita insieme con Piero per travolgerla in un turbine. E un oscuro terrore la invase. In mezzo al quale terrore le riappariva di tanto in tanto la faccia del marito con l'aspetto di poco prima, quando da quelle labbra erano uscite le parole cattive contro Piero e da quegli occhi il lampo dell'odio. Giovanna rivedeva quella barba nera inferocita saltare sui condimenti del piatto, quando un momento il delicato cuore le tremò. Di quella appunto aveva terrore. Che accadeva in fondo al suo essere? Aveva terrore e nausea. Allora per la prima volta l'uomo apparsole improvvisamente nauseabondo e terribile, per la prima volta da che era congiunto con lei, le disse nell'anima, in tutta la pienezza del loro significato, queste parole: — Io sono tuo marito! Giovanna vide chiaro ciò che le accadeva: essa amava per la prima volta quando non poteva più amare. Come un colpo di mazza sulla nuca delicata questa certezza la prostrò, il suo lamento salì pel silenzio della notte e fu deciso: essa non avrebbe fatto la passeggiata con Piero. Perchè non poteva avere un amante. Qualcosa d'inesorabile stava in fondo al suo essere: la sua leale rettitudine. L'educazione di famiglia le aveva dato a intendere che la sua rettitudine di donna maritata avrebbe dovuto consistere nel non avere un amante e il non avere un amante era diventato la sua inesorabile rettitudine. Lasciò la finestra e la sua volontà era fissa: la mattina sarebbe rimasta in casa. Ma la mattina appena si fu risvegliata, l'amore la colse all'improvviso e la vinse. Le ripresentò l'immagine di Piero quale le era apparso all'«Operaio Italiano» in preda al suo patire. Una tremendissima paura l'assalì di farlo soffrir di nuovo, e allora l'amore la fece volare. Si ritrovarono in un viale sul mare dove c'era un gran palazzo bianco e un giardino di fiori radi e vivi e la baia dinanzi formava lago tutto chiuso da più archi di colline, di rocce e d'isole. Dove il lago s'apriva sul mare, Piero e Giovanna riconobbero il Pan di Zucchero e più in dentro l'isola del Buon Viaggio che dà l'ultimo saluto ai naviganti che escono dal porto, e dietro all'orizzonte, la riga bianca d'Icarahy dov'è Nicteroy, e riconobbero da presso sul viale la più leggiadra delle colline, la figlia della roccia e dell'aria, il Morro da Gloria, alata di palme. Piero e Giovanna si incamminarono per il viale aperto e sereno verso la florida Gloria e c'era nella luce del sole, nello spirito dell'aria, nel cielo, nel mare, nelle colline e nelle rocce una leggerezza elisia. Un sorriso elisio correva per il viale leggiero leggiero con i suoi giardini radi e vivi nell'argentina serenità del mattino. E Piero non si ricordava più di nulla, avendogli l'amore distrutta tutta la coscienza e tolto ogni contrasto, come per altri amori gli era accaduto. Egli accanto alla donna la quale per la prima volta amava, era ora ciò che altre volte era stato: un amante di romanzo in luoghi di romanzo. Egli e Giovanna raccontavano ciò che avevano fatto e visto durante la loro breve rottura, perchè da quattro giorni soltanto s'eran rappacificati e quella mattina si trovavan soli per la prima volta. Piero due volte senza accorgersene dette del tu a Giovanna, e Giovanna pensò: — Perchè dovrei ora amareggiarlo? — Giunsero sotto la Gloria dove c'erano altri giardini di fiori vivi e una grande statua bianca e due palme sovrane. E di là dal verde e dal rosso dei giardini appariva un color di violetta ed erano le rocce e le colline del mare. Piero e Giovanna attraversarono i giardini e s'accostarono al mare. Sulla catena lontana il Dito di Dio rifulgeva nella luce eccelsa; tutta la catena era una nube di fulgore; il Pan di Zucchero e le altre rocce avevano il color del rubino tra il mare azzurro e il cielo celeste, e il mare, il cielo e tutte le rocce rifulgevano; la Gloria, gioiello delle colline, sollevando in alto la chiesetta bianca e l'ala d'aria e di palme rideva tutta traforata di fulgido sereno. Allora Piero guardò Giovanna che aveva un gran cappello di paglia e nell'ombra il viso le rideva silenziosamente. Tutto il viso le rideva di una felicità innocente come l'infanzia, perchè essa amava per la prima volta, ne d'altro si ricordava in quel momento. Piero si ricordò di quando quelle labbra avevan detto: — A Rio de Janeiro! — E sentendosi scoppiare il cuore dalla tenerezza volle parlare, ma non lo fece, perchè il suo amore fu fatto più delicato da quello di Giovanna. Con una delicatezza quale non avev'avuta mai, come se risvegliasse un bambino che dormisse, prese una mano di Giovanna, l'alzò e appena appena la sfiorò con le labbra. E soltanto, il suo cuore diceva a Giovanna: — Svegliati, amore! Piero fu pieno di felicità in quei giorni. Ei portò la sua felicità fra gli amici i quali si meravigliavano di lui perchè aveva una potenza nuova e quando semplicemente conversava, con questa potenza creava nelle loro anime. Gli amici non comprendevano, ma quando parlava loro dell'Italia, quelli che più non la ricordavano, la rivedevano, e quelli che l'amavano, l'amavano più ardentemente. Egli però amava ora l'Italia nell'amore di Giovanna. Gli amici vedevano nei suoi occhi un fuoco che prima non vedevano, sentivano nella sua voce un'altezza che prima non sentivano, e se ne rallegravano. In quei giorni Piero passò con loro più d'una sera: desinavano insieme, uscivano per la città, andavano sul mare, salivano ai colli e vagavano per i luoghi solitarii e selvaggi conversando forte, ridendo e cantando. Piero scherzava, raccontava storielle, suscitava l'ilarità, diceva: — Cantiamo, cantiamo! E allora Diego Mùrola, un giovane che appena parlava per timidezza, levava nel silenzio notturno la sua voce argentina e intonava i canti della patria lontana e il Tanno e il fratello e gli altri l'accompagnavano. E Piero si domandava dentro di sè: — A chi penserà ora Giovanna? Che vedrà? E la sua voce superava quella degli amici. Una notte andarono al Corcovado ed erano della comitiva anche Giovanna e il marito perchè gli amici italiani avevan voluto portare gli Axerio e il Buondelmonti su quel punto famoso e durante il tragitto magnificavano loro le meraviglie che avrebbero viste di lassù. Giovanna seduta nel treno accanto a Piero stava zitta, guardava le cupe ombre della foresta in mezzo alla quale salivano e sentiva per Piero una tenerezza come non aveva mai sentito, perchè nella passeggiata della Gloria egli era stato quale lo aveva voluto lei. Sentiva per Piero una tenerezza che le faceva ridere il delicato cuore. Pensava dentro di sè, mentre il treno saliva nel cupo della foresta e della notte, Giovanna pensava: — Sarà sempre così questo grand'uomo che in Italia da tanta gente ho sentito dipingere come cattivo e violento? Basterà ch'ei legga sulle mie labbra una parola che non dirò: «Silenzio!». E lui saprà amarmi com'io voglio! — Perchè Giovanna aveva sempre paura di diventar l'amante di Piero. Quando il treno fu al termine, la comitiva fece a piedi l'ultima salita del gran picco e giunta presso la cima, uno degli amici disse agli Axerio e al Buondelmonti: — Bisogna vedere a un tratto! Giù gli occhi finchè non saremo al punto. Un altro ridendo gridò: — Bisogna mettere loro la mano sugli occhi! Allora uno mise una mano sugli occhi a Buondelmonti, un altro all'Axerio e nessuno osando fare altrettanto alla signora Axerio le fu detto: — Lei, signora, camminerà a occhi chiusi, vero? E gli amici con una mano coprendo loro gli occhi e con un'altra guidandoli facevano camminare l'Axerio e Piero, mentre quest'ultimo teneva per la mano Giovanna che camminava a occhi chiusi. Dopo qualche passo Piero le disse: — Non guardi, sa! Deve vedere con noi. — No no! — gridò Giovanna e ogni tanto si sentiva un leggiero trillo di riso uscir dalla sua gola. Giunsero al punto, più voci dissero: — Via! Le mani s'abbassarono, gli occhi s'aprirono, giù nell'abisso apparve Rio de Janeiro illuminata. — Ah! — gridò Giovanna e battè le mani dalla gioia e poi subito levò gli occhi verso il cielo e disse a Piero: — Guardi in su! Piero guardò e non si vedevano più le stelle, nè il cielo dopo aver visto la città illuminata. — Che è quel cerchio di lumi a destra? — La Lagoa Rodrigo de Freitas. A sinistra il Morro del Cantagallo e quelli dietro sono i lumi del Leme e dell'Ipanema. — E quest'altro cerchio in faccia? — Botafogo. — E laggiù nel mare quelle due file di lumi? — La spiaggia d'Icarahy e Nicteroy. Queste domande e risposte si facevano l'Axerio e gli amici movendosi qua e là per vedere, ma Piero e Giovanna stavan da sè in disparte e di tanto in tanto si parlavano con un fil di voce. — Guardi giù. Nelle gole di quelle colline ci son come vezzi distesi, cascatelle di perle! Guardi! Botafogo è come una ghirlanda aperta. Eran campi immensi e giardini di brillanti, regge d'oro e raggiere, ghirlande e vezzi di perle, lontani lontani. E tutti i brillanti, tutte le perle, tutti i punti d'oro palpitavano e mutavano di colore passando per tutti i colori delle pietre preziose, come se avessero una minuscola pupilla o un minuscolo cuore d'un'altra luce nella loro luce. — Guardi laggiù laggiù quel piccolo vezzo solo solo, un po' in alto, a pie' d'una collina, dev'essere. Chi lo lasciò in quel posto? E per chi? Giovanna sorrise. Poi da' sentieri de' colli salì il rumore di un veicolo e dal mare l'ululo d'una sirena. E a volte si sentiva il canto de' grilli e qualche latrato. Piero disse: — I brasiliani raccontano d'un gran gigante che dorme sul mare. Ha il capo sui picchi della Tijuca e della Gavea e i suoi piedi toccano il Pan di Zucchero. Forse prese parte alla guerra del mare e della montagna. Forse il gigante lasciò sulla riva del mare tanti gioielli per qualche divina creatura che deve giungere di là dal mare. Perchè dorme ancora il gigante? Perchè la divina creatura non è giunta ancora? Giovanna sorrise di nuovo dicendo a Piero dentro di sè: — Sì, ho capito: tu vuoi darmi tutto quello che vedi. E si vedeva a' piedi tutti quelli immensi gioielli e tesori, mentre si diceva dentro di sè: — Tu sei una divina creatura per lui! — E un pensiero d'orgoglio le rideva in mente. Piero le domandò: — Ha aperto gli occhi avanti? Ha visto insieme con me? Allora l'amore rispose all'amore: — Avevo la sua mano sugli occhi. Giovanna sentì le sue proprie parole e il cuore le fece un balzo. Si voltò, cercò, gli altri erano in distanza, qualcuno parlava, ma non si vedeva nessuno nel buio della notte. E appena di nuovo si voltò verso l'abisso de' tesori, si sentì sul viso una parola d'amore e non potè distaccar le sue labbra dalle labbra di Piero. VI. Giovanna stava lavorando nel suo salotto, aveva incominciato un ricamo per Piero ed era tant'occupata in questo lavoro che non sentì entrare il marito. Costui aveva per Giovanna un sentimento non di marito e neppure d'uomo ma di grand'uomo, il sentimento che può avere un grand'uomo per una cosa di secondaria importanza. Alcune volte però tornando dalle sue fatiche professionali aveva piacere di riveder sotto il tetto domestico la leggiadra moglie e così fu quella sera. Inavvertito le si accostò alle spalle e mettendole una mano intorno al volto l'attirò a sè e si chinò per baciarla; ma Giovanna saltò in piedi e balzò all'indietro rimanendo nell'atteggiamento dell'animale spaurito sulle difese. L'Axerio le conficcò gli occhi in faccia e la scrutò lungamente a barba bassa. Poi disse: — Che novità è questa? E dando una spallata s'avventò verso la propria camera. Infatti c'era una novità: da mezz'ora appena Giovanna aveva lasciato Piero e quel giorno era stato il primo del loro amore. Giovanna era tutt'occupata nel lavoro che aveva cominciato per lui, stava tutta raccolta intorno al pensiero di lui col piccolo capo ridente sulle agili dita e gli parlava con ogni punto che metteva. Sentiva per sè e per la sua persona qualcosa di nuovo come accade alla donna in principio d'amore: le pareva che la sua persona si fosse un po' distaccata da lei e nello stesso tempo fatta più intima, simile ad una cara amica ritrovata dopo tanto tempo. Quand'era entrato il marito e la aveva toccata ed essa era balzata in piedi dallo spavento e riconosciutolo, lo spavento s'era mutato in ribrezzo. Il marito nella propria camera continuò a domandarsi: — Che novità è questa? E andava su e giù tenendosi stretta nel pugno la lunga barba nera da cui schizzavan fuori due zigomi color cadavere, movendoglisi negli occhi una losca collera. Andava su e giù a grandi passi con la barba nel pugno e si domandava: — Che novità è questa? — Ma non sapeva che pensare. Soltanto, la propria grandezza gli stava presente come non mai e gli diceva: — Com'è possibile che quella donnetta abbia fatto questo a te? Che è successo? È impazzita? — Spinto dalla collera e dalla curiosità tornò dalla moglie. Questa pure s'era ritirata in camera sua e s'era coricata, e appena sentì aprir la porta e vide comparire il marito, balzò su dal letto, poi ricadde giù, nè più si mosse. Quegli le disse: — Mi spiegherai un po' che hai stasera. E cominciò a spogliarsi aggiungendo: — Non rispondi? Hai perduto la voce? Ma Giovanna non rispondeva. S'era tirate le coperte fin sopra alla bocca e fissava il marito con gli occhi sbarrati. E quegli seguitava: — Che cosa sono questi capricci? vediamo un po'. E più Giovanna taceva, più l'Axerio si sentiva crescer la collera contro di lei. La collera gli portava via le vesti di dosso e dalle mani, gli sbatteva la barba sul torace cadaverico ed irsuto. Finchè si coricò accanto a lei. E la mattina se n'andò per le sue faccende. La sera poi verso la solita ora tornò a casa e la cameriera gli disse: — La signora è uscita stamani e non s'è ancora rivista. Il professore Axerio ripensò a quello che era successo la notte e si disse: — È fuggita? — Ma si padroneggiò, non domandò nulla, e mormorò soltanto: — So, so. Ed entrò nel suo studio rivedendo dentro di sè le facce di maggiorenti della colonia, di grandi brasiliani amici suoi, e dicendosi: — Come nasconderò loro questa fuga? Rimase nel suo studio, al suo tavolino fin all'ora del desinare, e ogni momento aspettava di sentir il passo della moglie e ogni momento quell'uomo si diceva: — Farà parlare di me? Ma venuta l'ora del desinare si padroneggiò, si sedette a tavola e mangiò senza che un pel di barba gli si movesse sotto gli occhi de' servitori. A un certo punto la cameriera che gli aveva dato l'annunzio, gli domandò: — Il signore può dirmi se la signora torna stasera? Il professor Axerio con le mani pallide incrociate dinanzi alla barba levò gli occhi in faccia alla donna perchè gli era parso che avesse riso, e intanto pensava se dovesse rispondere di sì o di no e giudicò che fosse più prudente rispondere di no. E allora la cameriera aggiunse: — Perchè la signora non ha preso nulla con sè, nè ha detto nulla a nessuno. È sparita! Ma il professor Axerio mormorò: — So bene, so bene. E fissava la donna come se fosse distratto. Finito di desinare uscì per i dintorni della villa e spiava nella notte lungo la strada se la moglie tornasse, ma non tornò, ed egli rincasò e dopo aver parlato con qualche servitore si coricò. Non dormì ma piombò in un torpore ingombro d'incubi: gli appariva la moglie caduta giù in un precipizio del Silvestre e rimasta morta; gli appariva il corpo di lei fatto a pezzi sui massi e i tronchi d'albero, in fondo in fondo, e nessuno lo ritrovava. Rivedeva le facce de' maggiorenti della colonia, dei grandi personaggi brasiliani amici suoi, e provava un gran sollievo perchè il corpo della moglie non era ritrovato da nessuno; come se avesse fatto cader lui la moglie in fondo al precipizio per vendicarsi. La mattina però quando si fu alzato, aveva un solo desiderio, quello che la moglie tornasse. Invece ricevè per la posta una lettera di lei e in questa lettera essa gli dichiarava, senza fare alcuna allusione alla violenza patita la notte, che riprendeva la sua libertà per sempre come se mai gli fosse appartenuta, come se mai l'avesse conosciuto. Allora l'Axerio mandò un ruggito soffocato e addentò la lettera, perchè sentì tutto il ridicolo che lo colpiva a un tratto. Il ridicolo colpiva lui che sin a quel momento non aveva fatto altro se non portare se medesimo in pompa magna per il mondo. Egli aveva avuto sempre somma cura di apparire un modello di regolarità in ogni atto e detto agli occhi del mondo come uomo, come professionista, come marito, come cittadino. E per apparir così aveva sempre calcolato tutto, tutto aveva fatto con calcolo a tempo debito. Per star bene nella compagnia del maggior numero ben pensante, com'aveva scelte cert'opinioni politiche e credeva nella futura solidarietà del genere umano, così aveva brigato per ottener onorificenze e a tempo debito aveva preso moglie. Il professor Axerio insomma aveva per fede che la sorte toccatagli nascendo fosse di dare spettacolo di ciò che è un grand'uomo in un uomo regolare, perchè egli era l'uomo civile e borghese per eccellenza. E la gran barba era per lui il segno del privilegio; ei l'amava più di qualunque altra parte della sua persona come quella che riuniva la serietà dell'uomo regolare e la dignità del grand'uomo. Egli aveva avuto dalla natura la gran barba per segno della sua dignità borghese professionale, come, a male agguagliare, aveva avuto per la sua umanità il sesso. Ma ora tutto andava in rovina nel modo più ridicolo. Il professor Axerio fu invaso dalla paura del ridicolo. E incontanente spinto da questa paura scese da Santa Teresa. Quando, qualcosa di straordinario accadde dentro quell'uomo: ei trovò il modo di metter d'accordo la paura del ridicolo col proposito di dare al fatto domestico l'importanza di un avvenimento pubblico. E perciò corse al palazzo d'un gran personaggio che conosceva e fattosi annunziare fu subito ricevuto. Lo stesso personaggio che aveva un alto potere nella repubblica, gli andò incontro fin sulla soglia del suo gabinetto con tutte e due le mani tese festosamente. Ma appena l'ebbe invitato a sedersi ed egli pure si fu seduto, s'accorse col suo occhio assuefatto a legger dentro nelle intenzioni degli uomini, che gli stava dinanzi uno che aveva da raccontargli qualcosa di grave. Il professor Axerio avev'assunto un'aria solenne per far colpo, ma il personaggio afferrò in lui un che di forzato e con un leggiero sorriso grazioso gli disse: — Eccomi qui tutto per Lei se posso esserle utile in qualche cosa. Il professor Axerio tirò fuori la lettera della moglie e passatavi sopra l'unghia del pollice là dove c'era rimasto il segno del dente, la porse al personaggio; il quale lesse, comprese, rilesse e facendo le viste di non capir nulla, col solito sorriso domandò: — Ebbene, professore, questa lettera? — Questa lettera è della signora Axerio. — Oh! Il personaggio s'arrovesciò all'indietro sulla sedia e rimase a guardar l'italiano con la bocca ancora arrotondata dall'esclamazione sotto l'arco dei baffi. E l'italiano proruppe: — Eccellenza, son venut'a pregarla d'aiutarmi a rintracciare la signora Axerio! E sua eccellenza di rimando: — La ringrazio d'aver pensato a me. E poi riprendendo il suo grazioso sorriso continuò: — Naturalmente, la cosa è tanto delicata che non ardisco pregarla di darmi particolari. — Io stesso non riesco a spiegarmela. La signora m'è stata sempre devota e sommessa. — Non poteva essere altrimenti. — Ieri le feci soltanto un'osservazione e ci fu tra noi qualche parola, nulla più. Venni in città, al mio ritorno se n'era andata e stamani ho ricevuta questa lettera. — E non ha nessun sospetto.... — Sospetto? — Dove possa trovarsi.... — Nessuno. — Naturalmente, la cosa è molto delicata; le leggi della repubblica, come Lei stesso può supporre, non ci permettono gran che, molto più trattandosi d'una signora straniera. Se la signora si rifiuta di tornare sotto il tetto coniugale, neppur nel Brasile si può in alcun modo obbligarla. — Neppur io intendo obbligarla. Ma intendo trovare, nella peggior'ipotesi, una soluzione, e per il presente e per l'avvenire, che mi metta al coperto da ogni menomazione della mia personalità nella considerazione pubblica. — Comprendo. Professore, mi lasci pensare al da farsi, perchè la cosa, Le ripeto, è molto delicata, soprattutto trattandosi d'un uomo illustre come Lei. Mi lasci pensare. Le manderò notizie in giornata a casa. Così dicendo il personaggio guardava fisso fisso il professore italiano, senza smetter di sorridere graziosamente. E poi riprese: — Naturalmente non posso prometterle di far ricerche per tutto il Brasile. Il territorio della nostra repubblica è per disgrazia così vasto! Ma la signora non vorrà certo allontanarsi da Rio. Eccettochè non prenda il volo per l'Europa e allora noi saremmo molto dispiacenti se per questo dovessimo perdere anche Lei prima del tempo. Il professore Axerio incominciò a sentirsi a disagio sulla poltrona, perchè sempre più gli pareva che il personaggio con la sua grazia lo burlasse fine fine. E tanto più quando gli disse: — Mi permette una domanda? Lei certo è venuto qui non dall'uomo pubblico, perchè la cosa sua non è materia di stato, ma dell'amico. Ebbene, mi permette che Le dia un consiglio da amico? Cerchi anche Lei. Ripassi con la mente le amicizie.... le amiche che la signora Axerio può avere in Rio. Forse.... qualche amica potrebbe conoscere il suo rifugio. Il professor Axerio s'alzò, salutò, andò via, tornò a Santa Teresa, si rinchiuse nelle sue stanze sentendosi inseguire dal ridicolo. Rinchiuso dentro ripeteva fra sè: — Oh se ti rimetto le mani addosso! Per quella donna era stato burlato e da chi! Lui, lui burlat'in alto! Ritrovarla, ritrovarla a ogni costo! Volle almeno rivederne le stanze. Andò in punta di piedi e come un ladro, perchè aveva paura de' servitori. Entrò nel salotto della moglie e poi nella camera, se la raffigurava, gli pareva di rimetterle le mani addosso. S'accostò al letto, la rivide come quando nell'accesso della collera per provarle che era il padrone le aveva usato violenza. Abbassò la barba sul letto con la gola gonfia di ruggiti come in quel momento e si disse: — Perchè non l'ho soffocata? Lì dov'era il letto s'aprì un vuoto, ei rivide il corpo della moglie giù in fondo al precipizio del Silvestre e gli attraversò il cervello un fantasma che gli saziò il cuore: vide se medesimo di notte in atto di portar via il corpo morto da quel letto fin all'orlo del precipizio. Sentendo battere alla porta gridò: — Che c'è? E scagliò la barba contro la porta, gli zigomi irti e pallidi come due mozziconi di ceri. Qualcuno entrò con un dispaccio. Sua eccellenza annunziava che s'eran fatte le ricerche ma invano: per tutti gli alberghi della città non esisteva traccia d'una signora italiana giovane giunta il giorno avanti, sola, nella quale si potesse supporre la signora Axerio. Così la moglie gli sfuggiva dalle mani. Ma esso gridò dentro di sè: — La ritroverò io! Si ricordò delle ultime parole di sua eccellenza: — Forse qualche amica potrebbe conoscere il suo rifugio. Risentì la beffa. Gli vennero in mente più nomi. A un tratto, come lampo che scoppia di notte, fu presente al suo spirito il Buondelmonti, e subito l'Axerio si ricordò d'una cosa che era successa sere prima quand'erano stati insieme al Corcovado. Si ricordò che in tutt'il tempo Giovanna e il Buondelmonti avevano parlato soltanto fra loro; anch'allora l'aveva notato, un momento che que' due eran rimast'indietro, ma subito s'era distratto e non ci aveva pensato più. Subito si ricordò anche che la moglie una volta a tavola l'aveva difeso, la volta che erano stat'insieme sulla cupola del palazzo costruito dal Berènga. Egli n'aveva parlato male e la moglie l'aveva difeso dicendo: — Il signor Buondelmonti non è così. E del resto è amico tuo e mio e mi dispiace sentirlo trattar male come tu fai. E quand'egli le aveva dato di sciocca, essa aveva ribattuto: — Ti ripeto che il signor Buondelmonti non è così. Lo conosco meglio di te. È una grande anima. E non aveva fiatato più. A un tratto ritornò in ment'all'Axerio una folla di ricordi dell'«Atlantide». Si ricordò d'una domanda che aveva fatto alla moglie i primi giorni del viaggio: — Perchè il Buondelmonti viene a Rio de Janeiro? La moglie aveva risposto: — L'avrai visto nei giornali. Viaggia per istudio. Esso non ci aveva pensato più. Ma ora si ricordò di quella curiosità che aveva avuto e d'altre. Un'altra volta aveva domandato alla moglie: — Dove l'hai conosciuto il Buondelmonti? Ed ess'aveva risposto: — Ci conoscevamo sin da quando stavo a Firenze. — Siet'amici d'infanzia? — Sì. Un'altra folla di ricordi ritornò in ment'all'Axerio. Si ricordò di quando il Buondelmonti e lui sull'«Atlantide» tante volte s'eran serviti della discussione come d'un mezzo per sfogar l'odio e il disprezzo che si avevano l'uno contro l'altro. Si ricordò quando per la prima volta aveva dovuto dentro di sè chiamar odio l'odio, quand'attraversando il ponte dop'una delle solite discussioni aveva scort'il Buondelmonti tra gli emigranti e aveva torti gli occhi da lui per non salutarlo. E di tante e tant'altre volte si ricordò in cui aveva trovat'insieme il Buondelmonti e la moglie a parlar tra loro, aveva notato la differenza tra le relazioni sue proprie col Buondelmonti e quelle della moglie, ma poi s'era distratto. Ora l'Axerio per tutt'una notte e un giorno andò camminando nelle sue stanze con la barba nel pugno e gli occhi a terra. Non pensava nulla di preciso, ma non poteva scacciar dal suo cervello l'immagine del Buondelmonti che vi s'era confitta dentro. E a poco a poco fu preso dal desiderio di rivederlo e di parlargli. Non l'odiava più, non sentiva più contro di lui nulla e solo non poteva far di meno di fissarne l'immagine dentro di sè. Solo gli pareva come di ricordarsi vagamente d'averlo odiato molto, e senza che quasi se n'accorgesse c'era in lui come un vago desiderio che quanto poteva essere accaduto, fosse accaduto, come per avere una ragione di riprender a odiarlo e perchè qualcosa di terribile succedesse fra loro. Tanto una volta l'aveva odiato. Mise fuori il capo dalla finestra d'una stanza e vedendo calar le ombre della sera tra le piante del giardino si decise a scendere in città per trovare il Buondelmonti. Era già uscito nel giardino e camminava sempre a barba bassa, quando vide venirsi incontro dalla via uno che non aveva visto da un pezzo. Era Filippo Porrèna il quale non era più stato a salutar la signora Axerio fin dall'ultimo loro incontro alla festa dell'«Operaio Italiano». Il Porrèna s'accostò, salutò l'Axerio e gli domandò se la signora era in casa. L'Axerio rimase qualche momento senza poter rispondere, perchè il Porrèna era la prima persona del mondo che gli si parava dinanzi per domandargli questo, e non era una persona ma tutt'il mondo che gli era venut'incontro all'improvviso. Esso soffriva orribilmente volendo e non potendo dare l'orribile risposta, perchè doveva dire: — Mia moglie non è in casa. Si sentiva le fauci secche e la lingua come un boccone che non va giù. Finalmente disse: — Mia moglie non è in casa. Aveva la barba distesa lungo il petto, le braccia distese lungo i fianchi, gli occhi sbarrati e smarriti, era come il reo colto in flagrante. Il Porrèna lo scrutò con occhio sagace scotendo un po' le due rughe sul naso e subito riprese: — Mi dispiace. Domani la signora sarà in casa? — Non sarà in casa neppur domani — rispose d'un fiato l'Axerio, ma appena finita l'ultima parola sentì che questa risposta era anche più orribile della prima. Allora il Porrèna ebbe un balzo al cuore e si domandò se davvero ci potesse esser qualche legame fra quello che egli sospettava, e lo stato dell'uomo che ora aveva dinanzi agli occhi. Anche la mattina in città essendo entrato in un'agenzia di navigazione per prender notizie d'un piroscafo col quale voleva tornar in Europa, vi aveva trovato il Buondelmonti e in una signora velata che l'aspettava alla porta dentr'una carrozza, aveva riconosciuto la signora Axerio. Perciò ora scotendo più forte le due rughe sul naso disse: — Allora mi procurerò un altro giorno il piacere di presentarle i miei omaggi. E subito aggiunse: — Può darsi che l'abbia vista stamani? — Dove? — sfuggì dalle labbra dell'Axerio. — Nell'Avenida Centrale. — Non so — balbettò l'Axerio non resistendo all'orribile martirio. E l'altro subito aggiunse: — Era certamente la signora Axerio. L'Axerio avrebbe voluto domandar particolari, ma non aveva più forza di vincer la vergogna, non aveva più l'uso della voce nè delle membra e rimaneva tra le piante del giardino com'un cadavere messo in piedi, coi capelli irti dal terrore. E l'altro continuava a scrutarlo con lo stesso occhio sagace con cui sull'«Atlantide» aveva notato la speciale intimità fra la signora Axerio e il Buondelmonti, e poi il loro distacco a Rio de Janeiro, quando lui medesimo aveva tentato d'insinuarsi nelle grazie della signora, e poi il loro rappacificamento, quando lui era stato piantato in asso sulla soglia dell'«Operaio Italiano» con suo gran dispetto. Ora sentendosi fervere il cuore di risa vendicative, per cavar qualcosa di più dalla bocca dell'Axerio gli ripetè: — Era certamente la signora Axerio. Ma l'Axerio non rifiatò. Ma il Porrèna a veder quell'uomo avvilito con la barba morta, incalzò: — Sa che riparto presto per l'Europa? Credo anzi che riparta anche il Buondelmonti, perchè l'ho visto stamani in un'agenzia di navigazione all'Avenida Centrale. — Era con mia moglie? — avrebbe voluto dimandar l'altro, ma non ne ebbe la forza. Chiuse gli occhi e quando li riaprì, si vide dinanzi il Porrèna che gli trafiggeva la barba con un risolino acuto come uno stile. Poi quegli stesagli la mano se n'andò via. E dopo, uno che si risvegliasse cieco, uno che si risvegliasse sepolto vivo, soli potrebbero comprendere ciò che fu dell'Axerio. Perchè quell'uomo s'era sempre creduto nato privilegiato, il primo degli uomini: la sua professione era la prima, tagliar un arto per salvar un uomo era rendere all'umanità il massimo servizio, perchè esso partiva dal concetto che la vita dell'uomo è sacra. S'era sempre considerato il primo professionista, della prima professione del mondo, vale a dire il primo uomo, perchè egli era di coloro che nascono prima professionisti che uomini; e se avesse dovuto riassumere in poche parole ciò che pensava di se medesimo e del mondo, avrebbe detto: — Io sorrido di degnazione al mondo che mi guarda con stupore! — Ma ora la moglie non l'aveva forse tradito? Non l'aveva reso ridicolo dinanzi al mondo? La bestia feroce che stava nel suo petto, mandò un ruggito. Scese da Santa Teresa per parlare col Buondelmonti, ma ora non vedeva più lui e soltanto per mezzo suo voleva ritrovar la moglie. La bestia feroce gli mandava ruggiti dal fondo del petto, e la sua barba se uno avesse potuto vederla nell'oscurità della notte, era terribile. Poco dopo, il professor Axerio si trovava in città fermo su un marciapiede, in vista dell'albergo dove alloggiava Piero Buondelmonti. Passava poca gente, solo qualche rumore veniva dal mare vicino, l'Axerio sotto l'ombra degli alberi che si levavano sulla piazza guardava verso la porta dell'albergo illuminata, per vedere le persone che entravano e uscivano. E quando passava qualcuno, si ritirava ancor di più nell'ombra e si metteva una mano sulla faccia perchè aveva paura d'esser riconosciuto. Poco prima s'era presentato alla porta dell'albergo e aveva domandato se il Buondelmonti era rientrato; essendogli stato risposto di no, aveva domandato quando di solito rientrava e avuta la risposta se n'era andato e poi subito tornato sui suoi passi s'era messo ad aspettarlo sulla piazza. L'aspettò a lungo. Vedeva un andare e venire di gente per la porta dell'albergo. Dove poteva essere il Buondelmonti a quell'ora? Al professor Axerio tornavano in mente le notizie che il Porrèna gli aveva dato qualche ora prima dicendogli: — Era certamente la signora Axerio stamani nell'Avenida Centrale. E poco dopo aveva aggiunto: — Ho visto stamani il Buondelmonti nell'Avenida Centrale. Voleva certamente dire d'averli visti insieme. Dove poteva essere il Buondelmonti a quell'ora? A un tratto lo scorse proprio nel punto che metteva il piede sulla soglia dell'albergo, si mosse, fu un momento, rivide il Buondelmonti tornar fuori di nuovo e riprender la via donde era venuto. Lo seguì. Il Buondelmonti percorse quella via e poi un'altra e l'Axerio lo seguiva a una certa distanza senza perderlo mai d'occhio. Seguendo il Buondelmonti gli pareva d'avvicinarsi sempre più alla sua meta. Lo vedeva andar avanti di passo eguale, piuttosto in fretta, senza voltarsi nè a destra nè a sinistra, com'uomo che va per uno scopo. Sempre più gli pareva d'avvicinarsi alla sua meta. Quella parte della città era deserta a quell'ora di notte. Il Buondelmonti giunse in una via tutta palme e molto oscura. Di là dai tronchi delle palme s'intravedevano villini e giardini. L'ombra del Buondelmonti quasi si perdeva nell'oscurità, spariva di tanto in tanto fra' tronchi delle palme. L'Axerio accelerò il passo con ansia avendo paura di perderlo di vista, camminò, camminò spingendo la barba in avanti e giunse a pochi metri di distanza da lui, ne sentì il passo, temè che quegli sentisse il suo. S'arrestò, lasciò che quegli s'allontanasse, riprese a seguirlo con ansia, spingendo la barba in avanti. Gli pareva che quello dovesse essere il luogo, ma il Buondelmonti percorse tutta la via delle palme senza fermarsi e si mise per un'altra anche più oscura. A un tratto sparì per un cancello e un giardino, l'Axerio s'avanzò un po' e vide in mezzo al giardino una villa. Pensò: — Mia moglie è lì! E rimase un momento con la barba terribile spinta in avanti nelle tenebre. VII. A un tratto il professor Axerio tornò in sè. Come dinanzi all'ostacolo si rompe la corsa del cavallo, così il furor bestiale del professor Axerio dette giù a vedere il Buondelmonti sparir nella villa sconosciuta. Anche prima, quando l'aveva visto entrar nell'albergo, era rimasto un momento titubante, ma ora dinanzi a quella villa chiusa e quasi invisibile nelle tenebre della notte, una folla d'interrogazioni invase la sua mente e gli impedì di muover ancora un passo. Come entrarvi? Come dimandare alla porta del Buondelmonti? Chi insomma gli aveva detto che fra la moglie sua e il Buondelmonti ci fossero relazioni tali da permettere all'uno di far visita all'altra a quell'ora di notte? Di chi non poteva esser quella villa? Tutte queste interrogazioni arrestarono l'Axerio e lo fecero ritornare in sè. Egli comprese che il solo mezzo per non scoprir se la moglie fosse in quella villa era di presentarsi alla porta in quel momento, perchè quando pure ci fosse, il Buondelmonti avrebbe negato e avrebbe respinto l'intruso, mentre altrove, il giorno dopo, lontano di lì, a quattr'occhi, era uomo da dire per conto suo a grinta dura: — Così è! A un tratto si sentì un balzo al cuore pensando che cosa poteva esser successo se avess'avuto il tempo di farsi avanti al Buondelmonti sulla soglia dell'albergo, oppure l'avesse raggiunto nella via, o si fosse presentato alla porta della villa. Il Buondelmonti avrebbe indovinati i sentimenti che nutriva contro la moglie, si sarebbe accinto a difenderla e glie l'avrebbe sottratta per sempre. Voltò per la via donde era venuto e fu sì forte la paura che si mise a fuggire. Dopo allentò il passo e attraversò quella parte solitaria della città per tornare a casa. Camminando pensava al da farsi per il giorno seguente e prima di tutto si propose di scrivere al Buondelmonti per aver con lui un abboccamento e cercar di conoscere lo stato vero delle cose. Ora vedeva chiaro e netto: tutto quello che aveva saputo, che credeva d'aver saputo dal Porrèna; tutto quello che aveva visto, che credeva d'aver visto seguendo il Buondelmonti; tutto quello che egli aveva sospettato, che credeva di poter sospettare ripensando a certi ricordi del viaggio, non era il fatto. Il fatto di cui egli realmente stava in possesso, era questo e nulla più: una certa sera sua moglie l'aveva respinto, egli le aveva usata violenza ed essa il giorno dopo era sparita. Ciò che il Porrèna gli aveva non raccontato ma semplicemente accennato, poteva esser al massimo un fil di luce ed egli non doveva far altro che seguirlo, e perciò bisognava veder il Buondelmonti, ma fingendo di non sospettar nulla. Bisognava servirsi del Buondelmonti soltanto per giungere alla moglie. E quindi si sarebbe presentato a lui ma come ad un amico per chiedergli lume e poi vedere che cosa ne sarebbe venuto. Egli sapeva fino a che punto fosse uomo di carattere aperto e ardito e se lo rappresentava dentro di sè quale tante volte sull'«Atlantide» l'aveva avuto faccia a faccia in discussioni talvolta aspre. Ora ne rivedeva il viso più mutevole dell'onda ai soffii del vento, ai più leggieri moti del pensiero e dello sdegno. Un uomo simile era incapace d'infingersi. Quando il professor Axerio giunse a casa, era già notte tarda; tutti i servitori s'eran coricati e soltanto la cameriera l'aspettava nel giardino. Egli la scorse seduta sulla soglia della porta nell'ombra delle palme e delle altre piante. E la rimbrottò, sì perchè l'aspettava nel giardino e non dentro, sì perchè gli altri servitori s'eran coricati. Egli aveva rancore contro di lei perchè era stata la prima ad annunziargli la sparizione della moglie e soprattutto perchè una volta era allegra e loquace e da quel giorno non aveva riso nè parlato più. Quando l'Axerio rincasava non poteva vederla senza sentirsi rimescolare il sangue, perchè gli pareva una muta accusatrice; pensava che essa forse aveva assistito alla partenza della moglie, e che forse la moglie le s'era confidata; pensava questo l'Axerio a vedere la donna e aveva rancore contro di lei e in quel rancore ogni volta che rincasava, si rinfocolavano il suo odio e il suo furore contro la moglie. Così fu e più forte anche quella notte. Rimbrottata la donna che non rispose, il professor Axerio andò nelle sue stanze, si mise una giacchetta più leggiera, si rinfrescò le mani e la faccia con acqua, s'accorse d'aver fame, chiamò la donna e le ordinò di preparargli un po' di cena. La donna andò in fretta, egli uscì a passeggiare nel giardino e poco dopo si mise a tavola. Mentre mangiava sbirciava di tanto in tanto la donna che stava immobile in un angolo voltando un po' la faccia verso una parete con quella speciale ostinazione che indica malanimo contro chi non si guarda. Osservandola il professor Axerio pensava alla moglie e dentro di sè provava un piacere nuovo perchè gli pareva di esser vicino finalmente a rivederla. Egli mangiando studiava i modi di giungere a questo per mezzo del Buondelmonti. Una sera, si ricordava, sull'«Atlantide» aveva avuto una discussione col Buondelmonti. A voce alta quella sera aveva lungamente sostenuto che ognuno doveva preparare in sè e negli altri col buon esempio l'avvento di una umanità migliore. Ognuno doveva domar le sue passioni per cooperare a rendere più piccola nelle future generazioni umane quella parte animalesca con cui l'uomo ha avuto origine. Ognuno doveva accrescere in sè il patrimonio dello spirito, della ragione, della bontà, dell'amore e della pietà; perchè dall'uomo presente sorgesse il solo superuomo che bisognava invocare, non quello di certa filosofia moderna ma il suo opposto, una sorta di superuomo angelico. E siccome il Buondelmonti aveva continuato a sorridere a capo basso sotto l'ombra della sua bella chioma, l'altro aveva continuato a gridare: — Preparate le vie del Signore, preparate le vie del Signore! — E aveva preso a celebrar tutte quelle istituzioni e tutti quei sodalizi contemporanei che secondo lui preparavano quelle vie, cioè l'avvento di una umanità migliore: molte istituzioni e sodalizi filantropici e altri d'altra natura, ma che gli parevano affini, per il femminismo, per il libero pensiero, per il vegetalismo, per l'arbitrato internazionale e la pace perpetua. Egli aveva gridato che faceva parte, com'era vero, di tutte quelle istituzioni e di tutti quei sodalizi. Ora mangiando se ne ricordava e andava pensando di cominciar così il suo discorso al Buondelmonti il giorno dopo: — Vengo a mostrarle non più a parole ma a fatti l'altezza delle mie dottrine alle quali ho conformato tutta la mia vita! Io sono stato sempre un paladino d'ogni genere di libertà, della libertà di coscienza, di quella della vita umana. Io non mi smentirò! Mia moglie s'è ripresa la sua libertà. Venga per sentirsi dichiarare che io non posso far altro che chinare il capo e per regolare di comune accordo il nostro avvenire. — Così avrebbe parlato al Buondelmonti e gli pareva la buona via per riuscire. Studiava, studiava i modi per riaver la moglie dinanzi a sè, foss'anche per pochi istanti. Egli non pensava più a ricondurla stabilmente sotto il tetto coniugale; ciò che ei voleva era ben poco, ma era tutto per lui: riaver la moglie dinanzi a sè gli occhi negli occhi, la donnetta sommessa che era fuggita via di soppiatto, riaverla dinanzi a sè e dirle qualcosa. Che cosa le avrebbe detto? Non sapeva, ma qualcosa da alleggerirsi il cuore per tutti quei giorni di supplizio. Continuava a cenare masticando lentamente. Teneva i gomiti appuntati sulla tavola e ogni tanto si dava un'occhiata alle mani bianchissime e delicate che si stropicciava l'una con l'altra dinanzi alla barba. Sbirciò la cameriera e a un tratto gli parve da un moto delle labbra che avess'intenzione di parlare, ma quella volse altrove la faccia. Ripensò alla moglie e gli parve più di prima di essere vicino a rivederla. A un tratto la donna ruppe il silenzio e gli domandò con mal celata ostilità: — Il signore può dirmi se la signora rimarrà assente ancora qualche tempo? — Ancora — rispose il professor Axerio, finì in fretta di cenare, lasciò il salotto, tornò in camera, tornò nel giardino, riafferrato dalle immaginazioni criminali. Andava su e giù per il giardino e rivedeva se medesimo in atto di soffocare la moglie nello stesso loro letto, rivedeva attraverso le tenebre della notte il precipizio del Silvestre. Andava su e giù inchiodandosi col mento la barba sul petto, gli occhi atterrati dinanzi al suo passo, e il cuore gli balzava invocando la vendetta che da tanti giorni cercava. Ma ad un tratto il professor Axerio si scosse a quelle immaginazioni, perchè gli pareva d'esser vicino a riveder la moglie ed aveva paura di commettere il delitto che era punito dalla legge civile. La belva feroce che era in lui, invocava la vendetta, ma l'uomo ebbe paura di commettere un delitto che sarebbe stato scoperto, e si sforzò di scacciare le immaginazioni criminali. Si coricò tardissimo e continuamente, mentr'era steso in letto, gli ritornavano per la mente ingombra quelle immaginazioni ed egli le scacciava, si dibatteva sotto le coltri, mandava gemiti e mugolii tra la barba rabbuffata, soffriva orribilmente, perchè gli pareva di dar ascolto a quelle immaginazioni e di perdersi. Poi si quietava e con un piacere che non aveva mai provato, pensava alla sua professione di medico e chirurgo. Vedeva se medesimo in atto di accostarsi alla moglie con una goccia di liquido sulla punta di un ago. Gli pareva d'esser in mezzo all'oceano. Vedeva quello che avrebbe potuto fare senza alcun suo rischio, gli pareva, un'altra notte in mezzo all'oceano. La moglie dormiva, egli s'accostava, la toccava appena ed essa sarebbe passata dal sonno alla morte. La mattina, levatosi, invece di scrivere al Buondelmonti pensò di telegrafargli chiedendogli un colloquio per il giorno stesso e nelle ore pomeridiane ebbe la risposta affermativa. Il Buondelmonti l'attendeva all'albergo quella stessa sera. Il professor Axerio si vestì per tempo accuratamente. Mentre stav'in piedi dinanzi alla toelette e si guardava nello specchio aggiustandosi qualcosa indosso, fra gli altri oggetti della sua persona sparsi sul tavolino davanti a sè vide la rivoltella che portava sempre adosso per difesa, da perfetto uomo civile e borghese il quale calcola e prevede tutto, anche l'aggressione da parte di qualcuno dei suoi simili, e s'approfitta di tutto ciò che la legge concede. Il professor Axerio aveva sì forte l'istinto della propria conservazione, stimava sì preziosa la sua propria esistenza che il portare la rivoltella era da lui considerato non come un diritto, ma come un dovere. Quella sera però gli parve una cosa nuova e gli fece un effetto che non gli aveva fatto mai. La prese in mano e tenendosela dinanzi alla barba la guardò a lungo domandandosi se anche quella sera doveva portarla con sè. Decise di sì perchè quella sera doveva veder soltanto il Buondelmonti e si sentiva forte abbastanza per resistere a quella tentazione, non correva affatto il rischio di servirsi dell'arma contro di lui, altrimenti avrebbe commesso un assassinio. Se la mise in tasca ed uscì. Per la via aveva tutta la mente invasa dal pensiero di sua moglie e senza saper perchè riandava i lontani giorni in cui l'aveva conosciuta. Era nel primo tempo della sua carriera e incominciava a farsi largo nel pubblico, quando una volta da Roma dove abitava con la famiglia d'origine napoletana, era stato chiamato per un'operazione a Firenze e quivi in casa d'un amico medico aveva conosciuta la signorina Giovanna Prali, una giovinetta con un'aria ancora puerile, e gli era piaciuta fortemente. Di lì a poco tornato per un congresso a Firenze aveva rivista più volte la signorina Prali, aveva saputo che era molto ricca e invaghitosene con ardente desiderio l'aveva chiesta in moglie. Si ricordava del giorno che era andato in casa de' parenti per la conclusione. L'avevano fatto passare in un salotto e da una stanza attigua aveva sentito la voce della signorina Prali esclamare ripetutamente con un accento di meraviglia e d'allegria: — Quell'uomo, quell'uomo! — Poi era entrata la madre e dopo qualche momento lei stessa con gli occhi raggianti della stessa allegria e della stessa meraviglia che avevano risonato poco prima nella sua voce. Il professor Axerio si ricordava del giorno delle nozze e di quando la sera eran rimasti soli. Si ricordava d'averle ricoperto tutto il viso pallido e tremante con la sua barba. E riprovava la sensazione che aveva provata allora, quando poi aveva affondato e riaffondato la sua barba insaziabile nel petto di lei fragile come quello d'una bambina. E ora ne rivedeva i piccoli pugni che s'eran levati per discostarlo. Un momento essa gli aveva tirato la barba e gli aveva fatto un po' di male; egli s'era irritato e l'aveva vinta con brama e con ira. Poi i giorni seguenti tutte le volte che tornava di fuori, al solo vederla diventava tutt'ardore. Essa se ne stava seduta nel suo salotto o altrove e quando appariva lui, faceva gli occhi spauriti, ma lui dava in una risata, la prendeva sulle braccia come una bambina e la portava correndo nella loro camera. Ora il professor Axerio si ricordava di quei giorni, si ricordava di quanto aveva provato allora e tanto più si accendeva il suo odio contro la moglie. Giunse all'albergo dove alloggiava il Buondelmonti. Alla porta avendo dimandato di lui gli fu risposto: — Il signore l'attende. E fu introdotto nel suo salotto. Di lì a qualche momento un'altra porta che l'Axerio non aveva vista, s'aprì e comparve il Buondelmonti. Questi lo squadrò da capo a' piedi, non gli stese la mano e soltanto gli fece cenno di sedersi. Sedutisi tutti e due, l'Axerio incominciò: — Spero che Lei possa darmi qualche lume.... — Su che? — domandò il Buondelmonti e rimase a fissare l'Axerio chinandosi sulla vita e allungando la faccia verso di lui. Al contrario era manifesto che l'Axerio cercava le parole per continuare a fingere. Riprese: — Noi non avevamo avuta in Italia una lunga consuetudine d'amicizia, ma fra tutti gli italiani che sono qui, Lei è quello che conosco meglio.... abbiamo fatto il viaggio insieme.... Ho alta stima del suo ingegno e del suo carattere. Tutte queste cose Le spiegheranno perchè ho pensato di rivolgermi a Lei; molto più che Lei era anche buon amico della signora Axerio. A quest'ultime parole il Buondelmonti si drizzò sulla vita e spinse il capo all'indietro. Allora l'Axerio disse: — Lei sa dove si trova la signora Axerio? Il Buondelmonti tacque un momento come consigliandosi tra sè e sè e poi rispose: — Lo so. E s'alzò in piedi. Anche l'Axerio s'alzò in piedi e rimasero tutti e due muti l'uno di fronte all'altro. Il Buondelmonti fissava l'Axerio con aperta ostilità, la testa un po' in avanti. L'Axerio trovò ancora la forza di pensare che attraverso il suo nemico che ormai gli stava dinanzi in atto di sfida, bisognava raggiungere la moglie. Nello sforzo di padroneggiarsi gocciava sudore dalla fronte. Gli zigomi irti gli lustravano in mezzo al negrore della barba e de' capelli. Ogni tanto si passava il fazzoletto sulla fronte. Finalmente disse: — Signor Buondelmonti, vuol portare alla signora Axerio il mio consiglio, la mia preghiera di ritornare sotto il tetto coniugale? Il Buondelmonti non rispose subito. Continuava a fissare l'Axerio con la testa in avanti, nè un muscolo della faccia sotto l'ombra della chioma gli si moveva. Finalmente disse battendo forte le sillabe come per conficcarle nel cuore del nemico: — Non posso fare ciò che Lei mi chiede. — Oh!... Perchè? — disse l'Axerio e parve che mandasse un gemito. E l'altro incalzando: — Perchè in tutto quello che è accaduto, io approvo la signora. — Oh! — gemette l'Axerio, si portò una mano agli occhi, la lasciò cader giù lungo la barba e parve che vacillasse come uomo che è colpito al cuore. Pure trovò ancora la forza d'aggiungere: — Lei conosce i miei principii morali; ne abbiamo parlato anche durante il viaggio. Ma Lei forse ignora fino a che punto sono la regola della mia vita. Se la persona che ha abbandonato il tetto coniugale senza lasciar traccia di sè, volesse venir ad un colloquio, saprebbe che io non desidero altro se non trovare di comune accordo la maniera più conveniente per riconoscerle definitivamente quella libertà che s'è ripresa da sè. Ma il Buondelmonti vedeva dinanzi a sè soltanto l'uomo che aveva per violenza posseduta la donna amata. Accecato dall'ira gli s'accostò, gli buttò sulla faccia: — Ciarlatano! All'improvvisa ingiuria l'Axerio barcollò balbettando sillabe senza nesso. Ma l'altro l'incalzò, continuò: — Inutile, altre parole. Quella persona scrisse l'ultima sua volontà, nè ha nulla da mutare. E ci son io a difenderla. Uomo per uomo. Il professor Axerio si discostò un po', abbassò la testa e la barba come l'ariete che sta per dar di cozzo e fece l'atto di avventarsi, ma il Buondelmonti l'afferrò e lo trattenne per un braccio. Così per qualche momento rimasero i due uomini l'uno nella morsa dell'altro, senza muoversi. I loro petti quasi si toccavano, ma i loro occhi non si fissavano e guardavano basso. C'era fra loro la lotta per la ragione più feroce, la donna, ma qualcosa di più feroce ancora c'era fra loro. Tutte le discussioni simili a risse a stento represse che avevano fatte sull'«Atlantide», si rinfocolavano ora nel loro sangue. Tutto il disprezzo e tutto l'odio di razza che si avevan l'uno contro l'altro, ma che allora si eran dovuti tante volte ringoiare, ora stavano per poter prorompere. Per tutte le loro idee, per il sangue che avevan nelle vene, per tutto quello che avevan detto e fatto durante tutta la loro vita, erano nemici mortali l'uno dell'altro. Erano due uomini, di lotta entrambi, ma avversi, l'uno naturale e forte solo della sua forza, l'altro assuefatto a farsi armi d'ipocrisia di tutte le istituzioni della civiltà. Le due teste quasi si toccavano. Senza muover la sua nè liberare il braccio l'Axerio con l'accento che vuol lacerare il cuore del nemico, disse finalmente: — Sei tu che mi tieni mia moglie. L'altro rispose a bassa voce: — Sono io. — Voglio riaverla. — No. Allora i due uomini s'azzuffarono. A un tratto si riaprì la porta donde era comparso il Buondelmonti, dalla soglia partì un grido e Giovanna si precipitò nel salotto. — Piero: — gridò Giovanna. Allora il professor Axerio mandò un ruggito di vittoria e fulmineamente la rivoltella gli brillò nel pugno. Egli aveva afferrata l'occasione del delitto impunito, del delitto sancito dall'eroico borghese: dell'uccisione degli adulteri colti in flagrante. Mandò un altro ruggito e agitando spaventosamente la barba tese il braccio. Il Buondelmonti vide, si gettò fra Giovanna e l'Axerio, fu colpito in pieno petto e stramazzò a terra. Allora la donna s'abbandonò sull'uomo che essa amava chiamandolo per nome. L'Axerio le fu sopra e tirò. Essa ripeteva ancora: — Piero! L'Axerio tirò ancora, ancora, ancora, chino su di lei, con la barba nei suoi capelli. Ed essa ripetè ancora: — Piero! Finchè la sua voce s'estinse. Il professor Axerio, mentre d'ogni parte dell'albergo accorrevan persone, fuggì per il corridoio con la rivoltella ancor fumante dinanzi alla barba ruggente: — Mi tradivano! Mi tradivano! VIII. Piero uscì di pericolo soltanto dopo aver passato molti giorni tra la vita e la morte e lungamente dovè tener ancora il letto prima d'entrare in convalescenza. Intorno al suo capezzale nell'albergo vegliaron sempre gli amici italiani, Giorgio Tanno, il Berènga, Pasquale e Diego Mùrola e più di tutti il socialista Giacomo Rummo. Questi, al primo annunzio dell'accaduto, era stato preso di subita pietà per il Buondelmonti, era accorso e non aveva più, si può dire, lasciato l'albergo. La tragedia d'amore e di sangue aveva levato gran rumore e profondamente commossi gli animi nella città; le fantasie e i giornali s'eran per giorni e giorni disfrenati sul terribile romanzo degli amanti italiani, incominciato, dicevano, sull'oceano e terminato in America dalla morte. Gran gente aveva seguito i funerali di Giovanna e molte delicate e appassionate brasiliane, di quelle che l'avevano conosciuta quand'era viva e sì bella, e altre che avevan sentito parlar di lei soltanto dopo che era morta, avevan mandato cumuli di fiori per la sua salma. E tutti i giorni giungevan fiori all'albergo per Piero Buondelmonti; innumerevoli persone, ignoti della colonia italiana e i più ragguardevoli cittadini di Rio de Janeiro, letterati, artisti, uomini pubblici, venivano per notizie e far visita. Chi li accoglieva nel salotto attiguo alla camera dove Piero giaceva, era di solito Giacomo Rummo, e lo stesso prendeva i fiori e ne adornava le stanze. Perchè quell'uomo politico in esilio, aveva nel fondo del cuore un bisogno d'affetti non mai soddisfatto. Egli s'era volto al socialismo sin dai banchi della scuola quand'aveva quattordici anni, forse per una istintiva reazione contro la propria famiglia, perchè egli era figliuolo d'un prefetto del regno d'Italia; a diciassett'anni era già un socialista militante, e furiosamente militante, nei circoli e nei comizi; dai diciotto ai venticinque anni aveva perduto il padre e la madre ed era rimasto solo al mondo e con appena di che vivere; verso i trent'anni poi s'era innamorato senz'essere corrisposto e avrebbe sofferto molto di quell'amore, se non fosse stato portato via dalle furie del partito. Il ricordo di quell'amore era rimasto dentro di lui lontano lontano, come in una parte del suo essere dove il suo pensiero scendeva solo di rado e alla sfuggita. Giacomo Rummo aveva varcati i trent'anni solo, senza compagnia di donna, ridotto a puro uomo politico e socialista militante, uomo di caffè e di circolo, di comizio e di strada. Ma talvolta in fondo alla sua acrimonia sentiva qualcosa di più amaro della sua acrimonia stessa ed era una pena di rimpianto per ciò che non aveva mai posseduto. Giacomo Rummo era un propagandista socialista ed anche uno scrittore, uno scrittore altrettanto rozzo quanto sostanzioso, ingombro di neologismi sgradevoli; ma amava e coltivava la musica. La musica era per lui tutto ciò che il mondo non gli aveva dato, nè egli aveva voluto. Ed ora al capezzale dell'uomo che una volta egli aveva respinto come amico, Giacomo Rummo incominciò a provare quello che gli ispirava la musica, quando dopo aver una sera ascoltata un'opera, andava nei giorni seguenti ripensandoci e riaccennandosela fra sè e sè e dentro nel cuore si sentiva nascere tanta dolcezza e tanta delicatezza. Così s'ingentiliva ora facendo l'infermiere. Nessuno sapeva disporre i fiori meglio di lui, nè ricevere i visitatori, e nessuno metteva più riguardo nel parlar sotto voce e camminare sulla punta de' piedi; nessuno prendeva gli ordini da' medici con più diligenza. Così s'affezionò al Buondelmonti più che a un fratello e gli altri amici si meravigliavano del suo mutamento. Conoscevano il suo gesto rotto e la sua voce stridula di propagandista, la faccia senza riso, dalle labbra secche e taglienti, dalla barbetta rigida e puntuta come un cono metallico, ed ora lo vedevano passar da una stanza all'altra senza levar un alito di rumore, così assorto nel suo ufficio amoroso che pareva contento; e poi lo vedevano inchinarsi sul volto del giacente e studiarne il respiro trattenendo il suo respiro. Il giorno che Piero potè aprire gli occhi ed esprimere un sentimento, nel vedere accanto al letto fra gli altri amici il Rummo gli si illuminò il viso di meraviglia e di gioia e la sua mano dissanguata fece l'atto di cercare quella di lui. Il Rummo appoggiò leggermente la palma sulla mano di Piero e gli sorrise. Qualche giorno dopo, Piero rimase solo con uno dei fratelli Mùrola e sforzandosi di parlare gli domandò del Rummo, e il Mùrola gli raccontò che era stato uno dei primi ad accorrere ed era uno dei più assidui e bravi nell'assisterlo, che l'aveva vegliato anche tre notti di seguito e spesso aveva l'aria di voler escludere di camera tutti gli altri per restarvi soltanto lui. Piero con la testa resupina sui guanciali, cereo nell'ombra della sua chioma castagna, sorrideva come uno che è consolato. Quando poi tornò padrone della sua vita, Piero stava con tutti volentieri e a tutti era grato delle cure che avevano avuto ed avevano per lui, ma provava una contentezza speciale quando il Rummo restava solo in sua compagnia. Allora questi leggeva qualche libro o i giornali e se leggendo s'imbatteva in un passo che altrove gli avrebbe strappato dall'anima il grido della protesta socialista, sorvolava o cercava con un'osservazione di mettere in luce qualcosa che in proposito ci poteva essere di concorde nelle loro dottrine che erano così in disaccordo. Ei si ricordava di quando torceva il viso dallo scrittore arrivato d'Italia, come aveva fatto al pranzo del Berènga, all'«Operaio Italiano», altrove, e di quando aveva cessato di salutarlo per ostinata acrimonia di parte incontrandolo per la via. Si ricordava ed il suo cuore diventava più delicato verso il suo nuovo amico. Giacomo Rummo e gli altri, quando Piero fu entrato in convalescenza e incominciò a essere in grado di lasciar l'albergo, si concertarono per trovargli una villa sui colli di Rio de Janeiro dove quegli potesse andar a rimettersi in forze prima di riprendere il mare per tornar in patria. Si radunarono una sera in casa del Berènga e discussero a lungo. Il Berènga avrebbe offerta volentieri la sua stessa villa di Santa Teresa, ma non si poteva condurre Piero su quel colle dove aveva abitato Giovanna. Si decisero finalmente per la Tijuca ricca d'ombre e di sole, elegante e selvaggia, a giusta distanza dalla città. Il giorno dopo lo stesso Berènga, uomo dell'arte, e Giacomo Rummo vollero andare a scegliere la villa e trovatala come la volevano, semplice e tutta cinta di fiori e all'ombra d'una foresta, di lì a poche sere vi ritornarono con gli altri e con Quirino Honorio do Amaral e ne adornarono di fiori le stanze, facendo questo non soltanto per amicizia verso Piero, ma anche per devozione verso la patria, perchè Piero era l'ultimo compaesano giunto di laggiù. La mattina dopo, tutti quanti insieme in automobile lo condussero alla Tijuca. Erano tre mesi e mezzo dalla catastrofe e dalla morte di Giovanna quando Piero lasciò l'albergo. Più che ei non si sedesse lo avevano adagiato nell'automobile e avevan preso posto accanto a lui Pasquale Mùrola, Quirino e Giacomo Rummo, mentre in un altro automobile salivano il Tanno e Diego Mùrola, senza Lorenzo Berènga che aveva quella mattina molte faccende in città e aveva promesso che avrebbe raggiunto la comitiva alla villa nelle ore pomeridiane. Non avevano ancora detto a Piero che Giovanna era morta. Ne' primi momenti, appena, riavutosi, quand'aveva ancora il proiettile nel petto, Piero aveva subito dimandato di Giovanna e qualcuno gli aveva detto che era gravemente ferita, come lui ma non uccisa. I primi giorni Piero sempre aveva dimandato di Giovanna e sempre gli era stata detta la stessa cosa. E quando Piero era uscito di pericolo, gli era stato detto che anche Giovanna aveva fatto altrettanto, perchè ognuno ormai aveva temuto che la vita di lui sarebbe stata di nuovo messa in forse se lo avessero disingannato. Sicchè lo stato di Giovanna era passato per le stesse fasi dello stato di Piero. Dopo essersi a lungo consigliati insieme que' delicati animi d'amici avevano deciso che gli avrebbero dato il colpo sol quando ei sarebbe il più possibile tornato in forze; erano d'intesa il Rummo, i Mùrola, il Tanno, il Berènga, Quirino Honorio do Amaral e tutti gli altri che venivano ammessi nella camera di Piero, compresi i servitori dell'albergo, e ciascuno per conto suo sapeva di dover mentire fino al giorno che a tutti fosse sembrato opportuno di dir la verità. Perciò quando stavano in più intorno al suo letto, o soli, il Rummo, Giorgio Tanno e gli altri, ciascuno sapeva che cosa rispondere di preciso alle sue domande e come eludere le sue investigazioni: Giovanna si trovava sempre press'a poco nelle medesime condizioni di Piero, anch'essa in un albergo della città, anch'essa avviata verso la guarigione. Ma una sera Piero era rimasto solo col Rummo. Da molti giorni non aveva domandato di Giovanna. A un tratto fissandolo dal suo guanciale pregò il Rummo di portargli i giornali di quei giorni in cui era successa la catastrofe, e il Rummo sostenendone lo sguardo, gli promise che li avrebbe cercati e glie li avrebbe portati. Passarono alcuni giorni, Piero chiese di nuovo i giornali al Rummo e questi gli rispose che non aveva avuto tempo di cercarli. A un tratto Piero fissandolo gli disse: — È morta, vero? La sua faccia era sì stravolta che il Rummo spaventandosene protestò prima che nessuno aveva mai mentito e poi per rincalzar la menzogna con un'altra menzogna aggiunse: — C'è una sola novità: Giovanna è ripartita per l'Europa. Il Rummo senz'accorgersene nel forzar la voce aveva ritrovato un po' l'accento dell'acre violenza del propagandista. Piero si tacque. Poi lo stesso giorno, essendo rimasto solo or con questo or con quell'amico, a tutti domandò di Giovanna e tutti gli risposero la stessa cosa, che era ripartita per l'Europa. Allora Piero non domandò più ne di Giovanna nè dei giornali. E intanto il suo povero corpo recuperava le forze e la salute, perchè la gioventù e l'istinto di conservazione potevano più d'ogni altra cosa. La mattina che fu condotto dagli amici alla Tijuca Piero aveva dentro di sè un dolore e una gioia. Il suo corpo e la sua anima gioivano della luce, dell'aria e della libertà che tornavano a godere, ma il pensiero di Giovanna gli dava dolore. La sua anima era come un'orchestra quando due motivi s'uniscono e non si distinguono più l'uno dall'altro: così egli non distingueva più la sua gioia dal suo dolore, ma sentiva la contentezza di tornare a vivere, con una pena in fondo al cuore, e di tanto in tanto questa pena si smarriva in quella contentezza. Il suo dolore in quei momenti non nasceva dal pensare che Giovanna fosse morta, ma nasceva dal vedere che mentre gli stavano intorno tanti amici, essa sola da lui più di ogni altra persona amata era assente. Egli girava intorno gli occhi come uno che fosse risorto e talvolta sulle sue labbra spuntava un sorriso, tal'altra i suoi occhi pareva che si velassero di lacrime. E gli amici lo guardavano e gli sorridevano, ma il pensiero di Giovanna era anche in loro, e già sentivano pietà del colpo che qualcuno quanto prima avrebbe dovuto dare a lui che allora allora tornava a vivere. Tutti ma sopratutto Quirino, presero a mostrargli la bellezza dei luoghi per cui passavano. Il giovane brasiliano pareva aver perduto l'impeto e l'entusiasmo d'una volta e aveva nei grandi occhi e nella voce una malinconia che meglio d'ogni altra cosa, meglio degli stessi occhi insistenti di Giacomo Rummo, sapeva parlare alla gioia e al dolore di Piero. Attraversarono strade lunghe lunghe e strette, d'ambo i lati folte di giardini e di selve dentro cui stavano villette come sommerse. Quirino mostrava quanto erano leggiadre e leggiere quelle villette secondo il clima, mostrava il cupo verde della esuberante vegetazione tropicale e diceva il nome di certi alberi che dai giardini e dalle selve gittavano grandi rami sopra la strada carichi di fiori gialli come oro e azzurri come il mare e rossi come il fuoco e il sangue. E poi giunsero dinanzi a un vasto edifizio sotto immani rocce nude e biancastre e Quirino disse che era il Collegio Militare, e poi presero a salire e di tanto in tanto attraverso i sentieri della foresta scoprivano lontano lontano un occhio di mare. E Quirino parlava del mare, delle foreste e delle rocce, e Piero lo guardava fisso fisso come se a sentirlo parlare gli spuntasse un pensiero nella mente. Gli amici lo osservavano trepidando perchè i suoi occhi nel fissare il giovane brasiliano diventavano sempre più ploranti. Qualcuno gli domandò per distrarlo se fosse mai stato in quei luoghi. Piero rispose: — Mai. E aggiunse: — Sono nuovi due volte. E parve che dai suoi occhi fosser vicine a sgorgar le lacrime. Gli amici si guardarono di nascosto e rimasero un momento zitti comprendendo il suo dolore e ripensando che quanto prima dovevan dare a quel dolore il colpo. Qualcuno poi per distrarlo gli domandò: — Perchè nuovi due volte questi luoghi per te? — Perchè — rispose Piero — non ci sono stato mai e perchè anche ciò che si rivede, dopo una lunga malattia par nuovo come tutto ciò che ci appare per la prima volta nell'infanzia. Piero sentiva nel suo povero corpo e nella sua povera anima la gioia di questa novità d'infanzia e di resurrezione nei luoghi nuovi, e più così sentiva il doloroso desiderio di Giovanna che era assente. Prestando orecchio a Quirino che mostrava la bellezza dei luoghi per cui passavano, Piero pensava a Giovanna, pensava ad altri luoghi che egli stesso aveva visti con Giovanna, ad altri luoghi che egli stesso aveva mostrato a Giovanna, e pensava quanta gioia avrebbero avuto tutti e due ora, se essa non fosse stata assente. Ma ora a mano a mano che salivano, il dolore s'impossessava sempre più di lui e gli pareva che Giovanna fosse morta; tanto che aveva paura che qualcuno glielo dicesse. Guardava il Rummo e avrebbe voluto domandargli: — È vero che hai sempre mentito? È vero che Giovanna è morta? Guardava Quirino e vedeva quanto appariva mutato da quello d'una volta; pensava che così fosse, nel suo ingenuo attaccamento, per pietà del suo dolore, del dolore che gli altri ancora gli tenevano nascosto, e sentiva per lui tanta tenerezza di gratitudine. Avrebbe voluto domandargli: — Tu sai, vero, che Giovanna è morta? Tutti sapevano. Erano lì accanto a lui, in un attimo quelli amici avrebbero potuto rivelargli la verità. Ei li guardava, or questo or quello, vedeva che sapevano la verità, gli pareva di vederla dentro di loro. Più volte la domanda gli giunse fino alle labbra, ma aveva paura che gli dicessero che Giovanna era morta. E anche nella villa non l'abbandonò per tutta la giornata questa paura. La sera finalmente, colto un momento in cui si trovava solo col Berènga, gli disse sottovoce e come se continuasse un discorso interrotto poco prima: — È morta, vero? Il Berènga lo circondò con un braccio e due volte se lo strinse al petto; poi disse: — Ebbene, figliuolo, sii uomo! Dio ha voluto che fosse così. Accetta la sua volontà e ti sentirai consolato. Piero incominciò a piangere in silenzio, e appena gli amici s'accorsero che il Berènga aveva parlato, tornarono di nuovo verso Piero per consolarlo, ma il Berènga li tenne indietro con un gesto imperioso e tutti rimasero in piedi intorno a Piero che continuava a piangere a piangere a lagrime colanti e senza singhiozzi, come se il nodo del suo pianto si fosse sciolto da tanto tempo. Il Berènga gli stava più vicino e con la mano ancora in aria continuava a tener gli altri discosto dicendo: — Lasciamolo piangere, lasciamolo piangere. E a capo basso stava a vederlo piangere. Gli altri stavano intorno sottomessi al cenno del Berènga. Quando ad un tratto questi levò la voce e pregò: — Dio Signor nostro, concedi la pace a questo nostro fratello. Concedi la pace anche all'altra anima che comparve dinanzi a te nel modo che tu permettesti. Noi non possiamo sapere, o Signore, ciò che ci aspetta dinanzi al tuo tribunale, e perciò non dobbiamo giudicare gli altri ma dobbiamo aver pietà di quelli che soffrono e pregare per tutti. A questo nostro amico tu hai voluto concedere la guarigione. Egli resterà ancora qualche tempo fra noi e poi tornerà in patria. Assistilo nel viaggio, assistilo quando sarà in patria, e serbagli in conto per la sua salute eterna queste lacrime che versa ora, serbagliele e a lui e all'altra anima più poveretta. Così pregò il Berènga e tutti gli altri nei loro cuori, e quelli che credevano e quelli che non credevano, pregarono con lui per l'amico piangente e per la creatura che giaceva non lontano di lì sepolta nella terra straniera. Qualche giorno dopo, Piero disse al Rummo e a Quirino: — Voglio vedere dov'è sepolta. Tutti e tre colsero dei fiori e andarono dov'era sepolta Giovanna. Per la strada Piero aveva sulla faccia dolorosa un sorriso, perchè gli pareva di andare a rivedere Giovanna. A un certo punto volgendosi a Quirino che appariva sempre abbattuto, gli disse con una dolcezza che mai la sua voce aveva avuta: — Caro, non ti riconosco più. Sei così per me? Quirino rispose ciò che era vero: — Sì. — Eppure qualche mese fa non ci conoscevamo. E così dicendo Piero gli strinse la mano. Poco dopo disse al Rummo: — Giacomo, qualche volta c'imbattiamo in avversarii che si vorrebbero subito per amici e sentiamo che nessuna amicizia ci sarebbe più cara. Per me tu eri di questi prima della mia disgrazia. E si sforzava di sorridere all'uno e all'altro. Quando poi furono dinanzi alla tomba, vi sparsero sopra i fiori e Piero non pianse ma s'inginocchiò e rimase più d'un'ora senza muoversi. Nè per tutto il ritorno aprì mai bocca, perchè stando in ginocchio sulla tomba aveva pregato per l'anima di Giovanna come aveva fatto il Berènga. E tornando sognava di rivedere Giovanna in un'altra vita. Un acutissimo desiderio di rivedere Giovanna lo pungeva e sognava di poterlo appagare, sebbene da tant'anni avesse perduta la fede ereditata da' padri e da' padri de' padri con la carne e col sangue. IX. I giorni seguenti e per molto tempo il dolore tornò a dar a Piero frequenti assalti con una ferocia tale che gli lacerava il petto ancora debilitato dalla ferita e lo stringeva alla gola sino a soffocarlo e a costringerlo a piangere, a piangere. Piero più volte al giorno dinanzi agli amici rompeva in pianto. Poi a poco a poco quest'assalti del dolore cominciaron ad essere più radi e men feroci. Com'ogni altra cosa che nasce, anche quel dolore, quand'ebbe raggiunto il sommo della sua vita, cominciò a declinare e ad avviarsi verso la sua morte. E allora Giacomo Rummo il quale aveva sempre vigilato, cominciò a far di tutto per aiutar l'opera della natura. Tutti gli amici italiani lasciavan Piero men che potevano solo nella villa della Tijuca, ma più degli altri gli faceva compagnia Giacomo come quegli che aveva maggior tempo libero fra i giornali brasiliani sui quali di tanto in tanto scriveva di cose italiane, e l'«Operaio Italiano» del quale era segretario. Giacomo incominciò a portar a Piero qualche giornale, a raccontargli le notizie d'Italia e a parlargli di letteratura, d'arte e soprattutto di musica. E ne parlava sì bene, quel politico nutrito degli strepiti dei comizii parlava sì bene di musica, che a Piero pareva di sentir musica. E quando gli parlava di Riccardo Wagner che era il suo Dio musicale come Carlo Marx era il suo Dio politico, a Piero pareva di riveder la cavalcata delle Walkirie e di risentire il canto d'Isotta sul morto Tristano. Così Giacomo dopo aver curato il corpo di Piero ne curava l'anima e voleva risanarla e voleva renderle la pace. A poco a poco i due amici cominciarono a discutere fra loro. Ma in principio Giacomo e Piero pareva gareggiassero per andare il più possibile d'accordo. C'era fra loro il bisogno di aver la stessa opinione, quel bisogno che spesso c'è fra due avversarii appunto, diventati amici di fresco. Avevan bisogno su quistioni su cui i loro animi eran profondamente scissi, di dirsi l'un l'altro: — Hai ragione! È proprio così! — E gli animi con indescrivibile delicatezza si sforzavano di tenersi a fior degli argomenti e non penetrar fin dove gli argomenti sarebbero diventati quistioni. Insomma Piero e Giacomo avevano l'un per l'altro lo zelo e l'amore della loro nuova amicizia, perchè Piero nutriva per Giacomo tutta la gratitudine di cui il suo cuore poteva esser capace, e Giacomo vedeva in Piero l'uomo pel quale egli durante tanti giorni e tante notti aveva fatto un'opera buona ed anche per questo gli era straordinariamente attaccato. C'era qualcosa in cui tutti e due consentivano com'un uomo solo, ed era nel fare il processo alla borghesia contemporanea che secondo loro mancava d'ogni virtù. Incominciò il Rummo una mattina a dimostrar la decadenza politica della borghesia; la borghesia non era più capace di tener il dominio degli stati moderni, nelle stesse lotte economiche essa portava un animo stremato ormai e impaurito. Seguì il Buondelmonti mettendo in luce le inferiori qualità della morale borghese, dell'arte borghese, della scienza borghese, della religione e dell'incredulità borghese. Tutti i valori dell'uomo erano abbassati e falsati. Il rispetto della vita umana posto come primo principio d'un vangelo umanitario tendeva a distruggere la storia dell'umanità. Il Buondelmonti giungeva a vedere nella stessa pace armata delle nazioni contemporanee qualcosa di borghese grandemente deplorevole, il prodotto di due spiriti borghesi, dell'industrialismo borghese che incalzava la fabbrica delle armi, e del pacificismo borghese che ne impediva l'uso. Il Buondelmonti e il Rummo passarono in rassegna costumi, istituzioni, leggi, opinioni, uomini e cose del nostro tempo, e si trovaron sempre d'accordo nel condannare, perchè in ciò tutti e due, il socialista e il nazionalista, eran con pari convincimento partigiani della stessa parte, eran tutti e due profondamente antiborghesi. L'uno e l'altro stando fuori di questo tempo parteggiavano per la vita eroica. Ma però i due amici sin dall'infanzia s'eran formati diversamente: l'uno, Piero Buondelmonti, s'era formato sulla cultura, l'altro, Giacomo Rummo, sulle prime impressioni della sua stessa adolescenza. Leggendo appunto le guerre di libertà, Piero Buondelmonti da giovinetto aveva sentito nascere dentro di sè l'amore della patria e della vita eroica; poi aveva rafforzato quest'amore nelle scuole classiche congiungendolo col culto di Roma, e finalmente dopo i vent'anni, dedicatosi a severi studii di storia, aveva appreso a vedere il mondo per grandi fatti e per grandi forze, come si vede di lontano nel tempo dove tanto di ciò che accade sotto i nostri occhi non può giungere; aveva appreso a distinguere e a prediligere su tutto nella formazione delle società umane e delle civiltà il giuoco delle grandi nazioni e degli imperi che quelle si conquistano. E poi di ciò che la storia gli aveva insegnato, aveva materiato la sua dottrina. Egli era dotato di mirabili occhi per scoprire nei fatti storici che possono essere in mille guise, la legge dell'animo umano che è in una guisa sola attraverso il tempo e lo spazio, e quindi aveva potuto ricavare dalla storia alcune poche verità immanenti, semplici e chiare, delle quali egli era diventato coi libri il banditore in Italia. Su queste verità poggiava la sua dottrina nazionalista e imperialista. Al contrario Giacomo Rummo dai banchi della scuola era caduto nella lotta di classe; un compagno di scuola l'aveva portato al comizio e alla dimostrazione di strada, e quivi la sua prima vita aveva ricevuto le lezioni della realtà che tocca più da vicino gli uomini, la realtà dei bisogni, del dolore e del furore pei bisogni insoddisfatti. Il giovinetto Giacomo Rummo da ciò che aveva visto nel bianco dell'occhio d'uno che gridava accanto a lui, aveva tolto la sua vocazione, e questa era di combattere, di combattere in pro di tutti coloro i quali avevano da lanciare un grido per esigere la soddisfazione di un bisogno. Il giovinetto Giacomo Rummo era entrato nella lotta di classe con l'animo che hanno i soldati presi nella mischia sul campo di battaglia. Dal comizio alla dimostrazione, dalla dimostrazione al circolo, dal circolo al caffè e agli altri ritrovi degli amici, egli viveva nel clamore della sua furia, senza sentire altre voci del resto del mondo, nè di se medesimo. Tutti e due adunque, Piero e Giacomo, così essendo, si trovavano facilmente d'accordo nell'affermare per l'uomo la necessità della vita eroica; ma l'uno amava soltanto la vita eroica della classe e l'altro soltanto quella della nazione. Tutti e due vivevano fuori dell'atomo e dell'attimo del loro essere, ma l'uno viveva nelle generazioni della patria, l'altro nella generazione che passava con lui. L'uno, come fu detto, aveva due nature, l'individuale e la nazionale; l'altro in luogo del suo egoismo aveva posto l'egoismo di classe. E a poco per volta nelle loro conversazioni e discussioni questi due termini, classe e nazione, raddrizzarono il capo e stettero di contro l'uno all'altro. Fu il primo il Rummo a cambiare la conversazione in discussione e la discussione in affermazione. Un giorno erano stati in città ed avevano parlato d'architettura con Lorenzo Berènga. Tornando ripresero l'argomento e venendo a discorrere delle arti in generale Piero a un certo punto disse che il loro fiorire e il loro decadere nella storia dei varii popoli erano strettamente legati con i periodi delle grandi guerre nazionali. — E delle rivoluzioni! — esclamò Giacomo. E ne uscì una discussione sul valore delle rivoluzioni e delle guerre rispetto alla formazione delle civiltà umane, sul valore delle classi e delle nazioni. Giacomo vedeva nella storia l'importanza maggiore della rivoluzione e della classe, Piero l'importanza maggiore della guerra e della nazione. E per giorni e giorni le due dottrine, le due culture, le due coscienze lottarono vivamente. Piero Buondelmonti fu il primo ad accorgersi che la loro amicizia poteva soffrirne, e siccome non voleva questo, incominciò ad affermare meno per parte sua e a lasciare che l'altro affermasse di più. Tacendo sorrideva dentro di sè. Quando Giacomo nel calore delle sue dimostrazioni pronunziava una frase orrida di neologismi teorici dedotti, secondo il linguaggio del socialismo scientifico e militante, dal concreto nell'astratto, Piero, che aveva l'armonioso parlare dei padri, sorrideva dentro di sè e un'ombra del sorriso gli appariva altresì sul volto magro e triste. Sorrideva dell'amico suo pensando che per la sua scienza egli aveva quel gergo, egli che per esprimere l'inesprimibile dell'anima sua aveva la divina musica. Ben presto accadde che in Giacomo Rummo risorse il propagandista. Piero aveva trovato un modo per far contento l'amico e non scontentar troppo se medesimo: invece di contradirlo, quando affermava, prendeva argomento dalle sue affermazioni per domandargli notizie sugli istituti, su uomini e cose del socialismo. Un giorno i due amici stavano nel giardino e Piero interrogò Giacomo sui sindacati di mestiere. Questi parlò a lungo e l'altro lo stette ad ascoltare con molta attenzione e poi gli domandò se aveva certi libri italiani e francesi su quella materia, aggiungendo che li avrebbe letti volentieri. L'amico il giorno dopo glie li portò, e per più giorni, man mano che Piero li andava leggendo, formarono il tema de' loro discorsi. Piero mostrava di dar molta importanza a quei libri e di riconoscerne il valore e Giacomo se ne compiaceva e li magnificava. Ei magnificava la nuova scuola del socialismo alla quale egli apparteneva e che era appunto il sindacalismo. Ei vedeva nei sindacati i germi del mondo futuro, vedeva questo mondo uscire dallo sciopero generale, e parlandone diventava eloquente per virtù della sua fede, e siccome non poteva per l'abitudine della sua vita scompagnar l'eloquenza dalla propaganda, nè questa dall'idea di far proseliti, incominciò a nutrir fiducia di poter aver una qualche efficacia sull'animo dell'amico. E un giorno specialmente parlò con straordinaria forza e con straordinario amore per convertire l'amico. Avevan fatto una passeggiata e parlato di se stessi e di tante cose, nè mai nella loro amicizia avevan avuto un'ora così intima. A un certo punto Piero aveva fatto allusione alla sua disgrazia e sentendosi serrar la gola da uno di quegli assalti del dolore che eran diventati sempre più radi, ma non mai scomparsi del tutto, s'era messo a piangere. Giacomo l'aveva consolato. Poi tornati alla villa s'eran messi a sedere nel giardino, e Giacomo sentiva una grande pietà per l'amico e anche per la prima volta sentiva pietà per Giovanna. A un tratto il cuore gli dette un gran balzo d'orgoglio. Giacomo, come mai per il passato, ebbe l'orgoglio della sua fede e per mezzo di questa concepì il proposito di poter dare all'amico un'anima nuova. Subito avviato il discorso sull'argomento del sindacalismo incominciò a parlare con tanto calor d'eloquenza che presto Piero ne fu preso e levando su di lui gli occhi meravigliati e ascoltando dimenticò il suo dolore. Giacomo parlò delle unioni dei lavoratori nei sindacati, parlò dei lavoratori che producono la ricchezza del mondo, energici e disciplinati come le macchine di ferro e di fuoco che trattano. La sua eloquenza era scultura da cui i lavoratori sorgevano trasformati in eroi. La sua eloquenza era bella non ostante il gesto rotto, la voce stridula, le labbra secche, tanta era la passione dell'animo, tanta era la religione nella quale egli aveva trasformato il suo furore, le invidie che esistono accumulate nel sangue umano da generazioni. I lavoratori, gli uomini diversi da lui, rappresentavano per lui la sua parte di bene che non aveva avuto, il suo amore che non aveva avuto, la soddisfazione delle sue ambizioni politiche che non aveva avuto, rappresentavano quanto dal profondo del suo egoismo umano non aveva levato nemmen la voce attraverso gli anni nel clamore della furia di classe, eppure esisteva accumulato da generazioni. I lavoratori erano coloro che agivano, che vivevano per lui oltre i limiti della sua vita e della sua azione. Ma egli non sapeva questo, non sapeva più nulla di se medesimo, ed era giunto ad amare i lavoratori per loro soli con frenesia d'amore, e perciò quando parlava di loro diventava il loro sacerdote, il loro poeta, il loro profeta. E quella volta dinanzi ad un uomo solo parlò come dinanzi ad una moltitudine d'anime. Dando la più profonda e pura sostanza del suo ardentissimo cuore, aveva perduto persino gli sgradevoli neologismi teorici e la sua eloquenza sgorgava dalla più pura vena, più profonda delle sorgenti stesse della musica. Ei terminò: — Bisogna credere nell'ascensione dei lavoratori! Credi, Piero, credi! Sono i migliori nostri fratelli, i più forti ed i più generosi. Tu stesso per le tue idee nazionali, se avrai bisogno della forza, troverai in loro la forza, se avrai bisogno della generosità, troverai in loro la generosità. Bisogna credere nell'ascensione dei lavoratori. Credi, Piero, credi! E renditi conto che le cose grandi si possono fare con una sola classe e con una sola età: il popolo e la gioventù. Piero gli gettò le braccia al collo esclamando: — Tu mi apri gli occhi! L'altro ripetè ancora trasportato dal suo impeto: — Sono i più forti e i più generosi! I giorni seguenti tornarono sull'argomento, tornarono a discutere di sindacalismo, ed ora era Giacomo tutto fervore di consentire con Piero e guardingo, con indescrivibile delicatezza, di contradirlo il meno possibile, perchè era riuscito a porre nel cuore di lui una parte di sè, la miglior parte di sè, e perciò l'amava come un padre il figlio. Infatti avvenne un mutamento nella coscienza di Piero: questi nel popolo e ne' lavoratori per la prima volta vide la più generosa forza della nazione. E così la sua coscienza fu rinnovata e rifecondata. Perciò un giorno disse a Giacomo: — Ho deciso di tornar in Italia. Vieni con me. Giacomo impallidì di commozione, perchè non aveva mai pensato di tornare in Italia. Piero gli domandò: — Non puoi? Giacomo rispose: — Non son legato qui. La mia vita è libera. Ma che farò in Italia? Piero rispose: — Lavoreremo insieme. Giacomo esultando acconsentì. E subito aggiunse: — Possiamo annunziare agli amici la nostra partenza? Piero rispose di sì, e gli amici di Santa Teresa di lì a poco ebber l'annunzio da Giacomo, andato da loro di corsa. Il quale da quanti lo videro in quei giorni non era riconosciuto, tanto aveva il cuore leggero e contento. Un sorriso che egli stesso non avrebbe saputo dire da che angolo del cuore gli venisse, gli errava sulle labbra e pareva che gli costellasse di puntini d'oro la barbetta rossigna. E quella ingenuità che è in fondo all'anima d'ogni uomo di fede, pareva nei suoi occhi fatta più buona e ispirava quel sentimento che ispira una cosa buona e umile quando si mostra contenta. Eppure per l'innanzi non gli era mai nemmen passato per la mente di ritornare in Italia. Egli poteva stare in Europa come in America e dappertutto, perchè era solo al mondo e portava con sè tutto il suo bene: un residuo ancora di quel poco che gli aveva lasciato il padre, sufficiente pel tozzo di pane quotidiano e il rozzo vestito di cui soltanto aveva bisogno nella sua nobile astinenza. E quel poco di più che raggranellava a Rio de Janeiro avrebbe potuto raggranellarlo da per tutto e specialmente in Italia; eppure non gli era mai passato nemmen per la mente di ritornare in Italia. Qui, ei sapeva, poco da combattere e sopratutto nessuno con cui combattere e nulla contro cui combattere, perchè quelli che un tempo egli aveva per compagni di fede, erano ora da lui ritenuti seguaci d'un socialismo vecchio e degenere, ed il nuovo socialismo al quale s'era andato poi convertendo, in Italia non attecchiva, mentre dall'altra parte le classi dominanti eran molli e i governi corruttori. Comunque fosse, era rimasto a Rio de Janeiro. Ora però, dopo aver deciso di ritornar in Italia con l'amico, si sentiva il cuore leggiero e contento e pareva altresì che si desse una cert'aria d'importanza come uno che è molt'affaccendato, e a chi gli domanda: — Ci sono novità? — Sì — può rispondere — ci sono molte novità! — Con una cert'aria diceva a tutti: — Partiamo per l'Italia col Buondelmonti. Era sulla fine di Marzo e la partenza era stata stabilita verso la metà d'Aprile. Gli amici italiani sapevano che non avrebbero potuto far feste d'addio per via del lutto di Piero, ma pure vollero ancor una volta testimoniare ai partenti il loro affetto ricevendoli per le case. E il due d'Aprile Piero tornò per la prima volta a Santa Teresa nella villa di Lorenzo Berènga. Questi lo ricevè nella biblioteca dove l'aveva ricevuto la sera che il giovane era andato da lui a cercar forza contro la sua passione. C'era anche la nipote Bruna, in piedi accanto allo zio che stava seduto al tavolino. E quando i due uomini ebber cominciato a conversare, Bruna discostatasi si mise a girar pian piano intorno alla stanza, rasente agli scaffali dei libri, col viso verso il Buondelmonti, guardandolo come quei che scruta. Poi uscì per una porta. Allora accortosi della sua scomparsa lo zio disse al Buondelmonti: — Quella figliuola lì.... Le dirò che cosa fece. Quel giorno.... quel giorno, sa.... avevo osservato che parlava anche meno del solito. Non parla quasi mai, ma le qualità del padre in lei son come i tesori nascosti sotto terra. Ha il nostro cuore. Il nostro sanguaccio nelle sue vene ha preso fuoco.... Anche lei è sola, e perciò quasi non ha linguaggio. Dunque, avevo osservato che girava, girava per la casa con la testa bassa.... E a un tratto la vedo sparire come ha fatto ora. Io credo che Dio m'abbia fabbricato di ferro rugginoso, ma il mio cuore è debole per quella creatura, e quando la vedo sopr'a pensiero, mi porta via a tutto. Dunque anche quel giorno la cerco e la scopro sotto la pergola in fondo al giardino che leggeva un giornale. M'accosto, le prendo il giornale. C'era la narrazione della catastrofe. Allora le dissi: — Sai chi sono? — I signori arrivati d'Italia. — Io allora le dissi: — Ebbene, giacchè sai, manda de' fiori per il feretro. — Quella volta non mi spogliò il giardino, colse pochi fiori, ma li portò da sè, sola, senza dir nulla a nessuno. All'albergo non la volevano lasciar passare; passò. In camera, dove la poveretta era esposta, non la volevano lasciar passare; passò. S'accostò al letto, le aprì le palme, glie le ricongiunse sui fiori e tornò via. Mentre il Berènga raccontava, l'altro piangeva, nè il suo dolore era stato mai così acuto, neppur la prima sera della Tijuca, quando lo stesso Berènga gli aveva detto che Giovanna era morta. X. I primi giorni d'Aprile i giornali di Rio cominciarono a pubblicare gravissime notizie d'Europa. L'incendio in Europa era stato acceso da' piccoli popoli del centro, e tutte le grandi potenze si levavano in armi, tra le altre l'Italia e il vicino impero. Le vecchie alleanze eran rotte, ne eran sorte delle nuove. Di giorno in giorno le notizie aggiunsero che in Italia c'erano stati gravissimi moti di popolo, che il vecchio governo era caduto e che aveva preso le redini della nazione con mani forti e con animo ardito un ministero composto di uomini nuovi. Aggiungevano il 10 d'Aprile i telegrammi che il popolo italiano era esultante, che la gioventù e gli studenti infiammavano l'esultanza del popolo e che il figliuolo di Garibaldi raccoglieva già volontarii. Incontanente, lette queste notizie, Piero uscì di casa e il suo partito era preso: tornare il più presto possibile in Italia e se fosse scoppiata la guerra accorrervi. Scendendo dalla Tijuca ripensava a Giovanna con un sentimento nuovo, tenerissimo e senza alcuna pena. Egli in Italia qualche anno prima aveva scritto un libro per porre in evidenza il valore etico della guerra e in questo libro aveva considerato la guerra come la grande vittoria della natura collettiva dell'uomo sopra la individuale. La guerra, il Buondelmonti aveva affermato, al pari della morte sopprime l'individuo, col divario che in essa l'individuo è sommamente attivo. Egli ora andava con la mente da questo libro a Giovanna e gli pareva di sentir dentro di sè la voce di Giovanna parlargli e dirgli: — Anch'io voglio che tu corra a dar la vita per la patria! Così, se anch'io feci qualcosa di male, sarà redento da te! E sarà la grande vittoria della tua coscienza già vinta dal nostro amore! Giunto in città Piero corse al telegrafo e telegrafò al figliuolo di Garibaldi pregandolo d'accettarlo tra' volontarii. E poi si diresse ad un'agenzia di navigazione e durante il cammino gli s'eran fitte in mente le immagini d'alcuni amici suoi d'Italia e d'alcuni discepoli e si raffigurava il loro animo. Si ricordava d'aver sempre nella patria lontana vissuto in un dissidio tragico fra sè e il di fuori, perchè quanto più la sua coscienza nazionale era stata eroica ed epica l'arte, tanto più intorno a lui la vita nazionale era stata vile. Nato con lui, sviluppato dagli studii storici, stava nel più profondo del suo essere l'istinto dell'eroico che è per le nazioni ciò che è per gli individui il seme generativo; e come senza di questo gli individui non potrebbero prolificare, così senza di quello le nazioni non possono creare civiltà. E sempre, quando quell'istinto s'era risvegliato dentro di lui e secondo la sua propria natura aveva cercato d'uscire da lui per incarnarsi nella vita collettiva, allora sempre era avvenuta la tragedia. Perchè esso aveva cercato d'incarnarsi in elementi esterni forti e generosi, corrispondenti alla natura sua, e la vita esterna che era intorno, non gli aveva offerto se non miseria. Esso, l'istinto dell'eroico nazionale, cercava cercava fuori di sè, come un affamato il pane, cercava le affinità eroiche in cui incarnarsi e propagarsi, e non trovava se non miseria e viltà. Questo il dissidio e questa la tragedia del Buondelmonti in Italia. Una volta il Buondelmonti aveva in un'opera immaginato alcun che d'eroico e tutta la gente ne aveva vilissimamente riso. Ma ora le cose eran mutate ed egli si raffigurava laggiù gli amici suoi. E si raffigurava gli uomini del governo abbattuto, le vecchie schiene smidollate e curve dinanzi all'interno e all'estero, estremi avanzi de' secoli servili, gli omiciattoli cupidi e inetti che erano stati tanti anni a capo della nazione per distruggere la nazione. Ora non più. Ora il Buondelmonti vedeva la patria liberata dal più abbietto de' servaggi ed esultava nel cuore per le vie della città straniera. Sulla porta dell'agenzia di navigazione s'imbattè in alcuni italiani i quali pure avevan lette le notizie ed erano agitati. Si fermarono a parlar insieme, riaprirono i giornali, li rilessero, li discussero. Altri italiani passarono e si soffermarono. Passò qualche brasiliano che era da loro conosciuto; si soffermò, ascoltò le notizie, fece un augurio e se ne andò. Il Buondelmonti riprese la via e alcuni l'accompagnarono. Da per tutto incontravano italiani e ogni poco eran fermati o fermavano. I giornali pomeridiani portavano telegrammi d'Europa anche più gravi. In mattinata il Buondelmonti aveva visto il Berènga, i Mùrola, Giorgio Tanno, il console, altri notabili della colonia, e quando vennero gli ultimi telegrammi, egli si trovava appunto nelle officine del Tanno dove su mille e duegento operai ce n'erano circa ottocento italiani. Giorgio Tanno era uno dei capi della colonia, il primo dopo il Berènga per la sua intelligenza, la sua ricchezza, il suo ardore patriottico, la sua munificenza, e come presidente del comitato della Dante Alighieri raccoglieva intorno a sè quanto d'italiano c'era di meglio a Rio de Janeiro. Sicchè quel giorno si videro giungere alle officine gli uni dopo gli altri medici, ingegneri, altri professionisti, commercianti italiani, tutti per parlare di quello che da un momento all'altro poteva accadere nella patria lontana. Altri ne furono chiamati per telefono e accorsero perchè si sentiva il bisogno di stare insieme. S'eran radunati dove i primi venuti avevan trovato il padrone delle officine fra i suoi operai, sotto una capanna di scarpellini di granito, e fra il battere di cento mazzuoli vagliavano il pro e il contro per l'Italia se fosse scoppiata la guerra, ciascuno mettendo fuori le cognizioni che aveva sugli armamenti italiani di terra e di mare. Da tutti era molto interrogato Piero Buondelmonti come ultimo giunto d'Italia. Eran quasi tutti meridionali, della Calabria e della Basilicata, e gridavano tra lo strepito de' mazzuoli con un furor di gesti e di voci. Qualche scarpellino de' più vicini di tanto in tanto alzava gli occhi verso di loro. Dinanzi alla capanna s'ergevano le cave di granito sotto il sole rovente e su quelle salivano e scendevano e smovevano lastre altri operai de' quali pure, alcuni, di tanto in tanto alzandosi su guardavano con stupore. Ma da nessuna parte appariva un segno che distinguesse in quel giorno gli operai italiani dagli altri. Tutti lavoravano muti sotto il sole rovente tra le cave e il mare. Subito di là dalla capanna appariva il mare e fermi alla ripa stavano barconi carichi di legname e uomini seminudi li scaricavano. Centinaia e centinaia d'italiani lavoravano nelle officine dei fabbri, centinaia e centinaia in quelle de' falegnami e d'altri materiali da costruzione; ma da nessuna parte appariva un segno. Quando però fu cessato il lavoro, il Tanno e gli amici lasciate le officine pochi momenti prima, s'eran soffermati sopra un largo della strada dinanzi all'uscita, perchè uno aveva fatto la proposta d'andare dal console e dal ministro italiano: a un tratto si videro circondati da uno stuolo di operai che li guardava in silenzio; e lo stuolo crebbe in pochi minuti; a mano a mano che gli operai lasciavano le officine, diventò una grande radunata: erano tutti operai italiani. Presto questi presero animo, interrogarono il padrone, il Buondelmonti e gli altri, e si levò un brusìo di voci. A un tratto una voce forte dominò tutte le altre gridando: — Signori! E verso il centro della radunata dove stavano Tanno e il Buondelmonti, si avanzò un giovane con una faccia maschia e gioviale e disse: — Se ci sarà la guerra, i nostri fratelli daranno il loro sangue; noi invece restiamo qui. Ma loro signori facciano una colletta e anche noi non ci rifiuteremo. Da cento e cento petti si levò un'acclamazione. Sul momento, in mezzo agli operai tennero una specie di consiglio il padrone delle officine, il Buondelmonti e gli altri, e deliberarono che si sarebbe fatta la colletta per i soldati italiani e che di lì a due giorni il Buondelmonti avrebbe fatto un discorso in pubblico a pagamento. Subito il Tanno levandosi sulla punta de' piedi, piccoletto com'era, col cuore che gli saltava fuori del petto dall'entusiasmo patriottico, agitò in aria tutte e due le braccia per ottenere silenzio e col suo modo di fare bonariamente solenne bandì la deliberazione a gli operai gridando: — Brava gente! Il nostro caro e grande connazionale Piero Buondelmonti qui presente parlerà doman l'altro a gli italiani di Rio de Janeiro! Domani subito sarà iniziata la colletta! E i denari che ricaveremo da questa e dalla vendita dei biglietti per il discorso, li manderemo in patria per i soldati che vanno al campo, se ci sarà la guerra. E se voi sottoscriverete ciascuno per una giornata di lavoro, noialtri qui soli, tanto meglio provvisti, dovremo mettere insieme di tasca nostra per lo meno un milione. E lo metteremo! Qualora poi non scoppi ora la guerra, non manderemo i denari subito, ma continueremo la colletta fino a che gli italiani del Brasile non abbiano messo insieme tanto da poter offrire alla patria una corazzata! Sull'ultima sillaba dal folto proruppe una voce stridula e gridò: — Non esageriamo! E soprattutto non precipitiamo! Il Tanno riconobbe la voce del Rummo e gli si scagliò contro furibondamente gridando: — Credi tu che un milione non sarei capace di darlo anche di mia tasca? — Io credo che andiamo troppo presto con la solita rettorica patriottica. — Ah maledetto animale! Guai a te se fai opposizione! E simile a mastino che fa il salto per agguantar l'orecchia del bove, l'uomo che aveva sulla gota il segno di Menelik balzò e s'avventò al petto del Rummo. Ma incontanente gli fu sopra il Buondelmonti gridando: — Tanno, che fai? E cintolo con le sue braccia di ferro lo strappò dal nemico. Ma il Tanno nella stretta si dibatteva come un indemoniato e urlava. Il nobile amor della patria che egli da anni e anni aveva nutrito in fondo al suo petto d'una furiosissima collera, ferito ora gli lanciava sin agli occhi il più feroce e nero sangue del cuore e sulla faccia gli guizzava più rossa del fuoco la cicatrice del pugnale, mentre le sue labbra convulse balbettavano: — Rettorica patriottica, maledetto animale, serpente velenoso! Il Buondelmonti prese sotto il braccio il Rummo e si misero in cammino avanti a tutti. Il Tanno, gli altri e gli operai serrati li seguivano per il viale che portava nel centro della città costeggiando il mare. Il mare tremolava verso l'imboccatura del porto, aureo sotto il cielo rosato. A quei duri uomini ferveva il cuore per la patria lontana. Ma nel cuore di Giacomo Rummo s'era risvegliata la furia di parte nata fin dagli anni della pubertà. Al solo nome di nazione e di patria prendeva fuoco; odiava la guerra e in Italia era stato uno de' più arrabbiati antimilitaristi, ebbro di lotta di classe. Ora nel petto gli si rimescolavano le invettive dei lontani comizi. Andava muto al braccio del Buondelmonti, a denti stretti, dispettosamente. E non potendo più sostenere la compagnia che aveva accanto, sentiva contro tutti una collera d'odio inveterato, perchè era un uomo d'ostinazione e di passione, non voleva che la guerra avvenisse e soffriva orribilmente al pensiero che potesse avvenire, odiava coloro che aveva accanto, come nemici suoi proprii che gli avessero fatto e gli facessero un gran male, perchè non consideravano la guerra impossibile come lui voleva. Soffriva orribilmente. A un certo punto il Buondelmonti che lo teneva per il braccio, gli domandò sotto voce: — Tu verrai in Italia con me? — No — gli rispose il Rummo seccamente. — Non vengo più. E si strappò dal braccio di lui. Allora il Buondelmonti gli disse: — Vedi, Rummo, se avessi potuto dimenticare quello che hai fatto per me, il contegno del Tanno per le tue parole dinanzi a quella brava gente ti sarebbe parso una carezza di amico a petto al mio. Non conosci il mio sangue. Ma non potrò mai dimenticare. Però da te stesso devi riconoscere, tu che vorresti essere il loro duce, devi riconoscere che hai risposto male a quelli operai che ti avevano dato un esempio così pronto, così spontaneo, di carità di patria. Disse così e si discostò dal Rummo. Questi gli rispose con una spallata di disprezzo e continuò ad andar avanti solo. Ma i passi dietro le sue spalle gli facevano un effetto orribile. Il cuore gli scoppiava dall'odio. Il Rummo avrebbe voluto fuggire, ma per orgoglio non poteva. Sentiva dietro di sè le voci e gli parevano grida ostili d'una folla che l'inseguisse, ma non poteva accelerare il passo per orgoglio. Sboccarono nella via principale della città e il Rummo si confuse tra' passanti. Soffriva orribilmente. Tornò indietro per fuggire la gente e rifece il viale sul mare sino a una via in costa a destra chiamata Donna Luisa dove aveva una stanzetta a un terzo piano. Su per le scale bestemmiò fra sè e sè perchè secondo il solito erano ingombre di stracci e di fogli; alcuni inquilini delle stanzette aperte lungo le scale lo salutarono, ma ei non rispose. Erano camerette misere e in disordine e vi erano giovanotti, studenti, seminudi per la grande afa della sera. Tutta la casa aperta, senza custodia alcuna, pareva abbandonata ai passanti della via. Il Rummo salì fino all'ultimo piano, entrò nella sua cameruccia che pareva un ripostiglio di carta straccia. Da per tutto c'erano libri, aperti, fin per terra, e fogli e giornali, soprattutto giornali a monti e giornali spiegati da per tutto, i giornali che erano per il Rummo ciò che sono per altri le lettere d'amore. E su tutta quella carta pesava un odor fortissimo di fumato e qua e là si vedevano tabacchi e pipe di terra e di legno, il solo vizio di Giacomo Rummo. Questi si sentì le fauci secche, volle bere, ma l'acqua che aveva in camera era troppo calda, l'afa era soffocante, s'alleggerì di vesti e si sedette alla finestra. Faceva ancora giorno. Giacomo Rummo soffriva orribilmente sforzandosi di rappresentarsi quali potessero essere in quel momento lo stato e le forze del socialismo nelle nazioni che erano sul punto di scendere in campo. Avrebbe potuto il socialismo gettarsi in mezzo a loro? Il Rummo aveva lasciato l'Italia e l'Europa molti anni prima quando il socialismo combatteva strenuamente. Allora il socialismo avrebbe potuto imporre la pace, e il Rummo si ricordava quante e quante volte lui stesso aveva affermato questo nei discorsi di propaganda e nei comizi. Ma ora? Ora aveva presenti tutte le mutazioni fatte negli ultimi anni dal socialismo, sapeva quanto quel vecchio socialismo europeo distasse ormai da quello nuovo del quale egli era divenuto seguace; pure in un resto d'illusione invocava ancora che si mettesse il grande veto alla guerra. E passata l'illusione soffriva orribilmente, soffriva orribilmente come se avesse avute al mondo le cose più care che non aveva, e fosse per perderle. Soffriva orribilmente e si sentiva sbranare il cuore dall'odio contro le patrie, come se queste fossero state sue nemiche, nemiche di lui solo. A un tratto pensò che la guerra non sarebbe scoppiata, perchè non sarebbe scoppiata, perchè tante guerre negli ultimi decennii avevan minacciato l'Europa e s'eran sempre evitate, perchè la civiltà non voleva più le guerre; allora esultò come per una gioia che fosse toccata alla sua vita. Si mosse per la sua stamberghetta, battè le palme sui monti di giornali levando gran polvere, tornò alla finestra e si mise a fumare, a fumare vittoriosamente dinanzi alla fornace della sera tropicale, dinanzi alla città che s'accendeva de' primi lumi. Fumò vittoriosamente sulla faccia delle patrie. Poi a poco a poco il Rummo tornò quello di prima; la sua povera persona stava su in cima a quella stamberghetta di Rio de Janeiro, privata di tutto, e la sua anima con la sua furia di parte e la sua impotenza era perduta lontano lontano dinanzi alla guerra delle nazioni. Ei sentiva una sete che gli arrabbiava la gola. Accostò l'acqua alle labbra. Era intollerabile. Il Rummo soffriva orribilmente, perchè era un uomo misero e grandioso, poteva far sorridere ed era tragico. Perchè come nessun altro poteva vivere fuori di se stesso in una vita più vasta, nella vita collettiva, con tutti i tormenti che possono martoriare un cuore d'uomo per se solo. Come nessun altro, aveva una tragica volontà che si estendeva fuori di lui stesso nella vita collettiva, in quella che sola era esistita fin lì per lui, nella lotta delle classi il cui esito non poteva dipendere da lui. Aveva, come nessun altro al mondo, un tragico egoismo sradicato, per così dire, dal cuore di lui medesimo e trapiantato con tutte le sue feroci cupidigie in un cuore più vasto, nella lotta delle classi. Era anch'egli l'individuo tragicamente collettivo. Quella sera stava seduto alla finestra, il gomito nudo sul davanzale, il pizzo schiacciato nel cavo della mano. Venne a poco a poco la notte, la città si accese tutta, parevano uscir dalle tenebre vampate d'incendio. Il Rummo di tanto in tanto risentiva la sete, si rammentava che l'acqua era troppo calda, con gli occhi dello spirito vedeva tutta la casa senz'acqua, tutto il colle senz'acqua, rivedeva tutta la via lunga che bisognava fare per giungere fino a quel caffè della città bassa dove la sera innanzi aveva bevuto un bicchiere d'acqua fresca con succo d'ananasso. E i suoi occhi continuavano a guardar lontano, carichi di passione. Che vedeva in Italia? Vedeva se stesso negli anni della prima gioventù quando lottava per il proletariato, quando ebbro di lotta di classe infuriava tra le folle clamorose contro gli armamenti e le guerre nazionali, ostacolo al trionfo del proletariato. E ora per quello stesso egoismo che è più forte in chi più vive di vita collettiva, vedeva se stesso vinto laggiù, vedeva le classi schiacciate dalla guerra delle nazioni e si sentiva schiacciato lui stesso; avrebbe voluto levarsi e agire per le classi; ma non era nemmeno una classe, era un individuo, e nemmeno un individuo perchè lontano, annullato da immenso spazio, era un atomo distante migliaia e migliaia di miglia dalle nazioni dalle quali si sentiva vinto e schiacciato. Gli restava solo l'occhio per fissare, da quella finestra della città straniera, de' punti ostili di là dall'oceano, spasimosamente. La sete arrabbiava il suo patire. Rivide i suoi nemici della giornata, il Buondelmonti, il Tanno e gli altri, e tutto quello che avevano fatto gli parve che l'avessero fatto contro di lui. Ma ripensando specialmente al Buondelmonti si ricordò delle sue parole, si ricordò anche lui dei giorni e delle notti passate al suo capezzale, si ricordò dell'amicizia che avevano stretta fra loro. E riandando tutto il tempo che l'aveva conosciuto, dal primo incontro nella villa del Berènga sin all'ultimo di quel giorno nelle officine del Tanno, gli parve di scoprire nel Buondelmonti una bontà che in se medesimo non ritrovava. Gli risonavano all'orecchio le sue parole: — Non potrò mai dimenticare! E le altre parole le aveva dette con una voce più accorata che dura. Ripensò a questo il Rummo e il cuore gli si spetrò, un animo gli disse: — E se il tuo nemico avesse ragione? Se la causa per la quale egli combatte, fosse migliore della tua? Rivide dentro di sè gli operai per il viale sul mare. Perchè camminavano così raccolti e muti? Risentì ancora le parole del Buondelmonti. — Ti hanno dato un esempio di carità di patria! Che era dunque questa carità di patria? Che era quel piccolo nome lontano lontano che quelli uomini portavano nel loro cuore e per cui eran pronti a dare il sudor della loro fronte? Che era? E il Rummo ricominciò a pensare al passato e si sforzava di ricordarsi. Si sforzava di riafferrare le memorie della sua infanzia e della sua prima giovinezza trascorse in Italia per varie città e varie regioni. Egli era nato in una città della Sardegna dove suo padre aveva avuto la sua prima residenza nelle prefetture, e il Rummo ora si sforzava di riafferrare il ricordo de' luoghi e di tornare a raffigurarseli in mente. Ma non poteva. Perchè? Non poteva, non poteva quella sera stando a quella finestra di quella catapecchia di Rio de Janeiro, non poteva, per quanto si sforzasse, raffigurarsi in mente que' luoghi di Sardegna dov'egli era nato e dove aveva vissuto fino a otto anni. Perchè, perchè? E poi s'accorse che non era mai tornato a raffigurarseli, anzi che non ci aveva ripensato mai. Il cuore gli fece male orribilmente. Dopo, il padre era passato a Livorno, e il Rummo si sforzava di ricordarsi la città sul mare, ma non poteva. Perchè, perchè? Non ci aveva ripensato mai. Non aveva sentito mai il bisogno di riandare col pensiero là dov'era nato, dov'aveva vissuto col padre e con la madre. Dopo, il padre era passato a Genova e poi a Bologna e poi in altre città, e il Rummo per conto suo, già grande, aveva viaggiato per tante altre città e paesi d'Italia, e ora rivedeva, rivedeva, rivedeva tutto, luoghi, strade, edifizi, persone, col suo occhio spasimoso, da quella finestra di Rio attraverso tanta notte; ma anche si ricordava che per tanti e tanti anni di lontananza non aveva ricordato mai, non aveva mai sentito il bisogno di ricordare, come se per quelle città e per quei paesi, come se per tutta l'Italia egli fosse passato da straniero, muto di cuore e di lingua. E il cuore gli fece male orribilmente, sempre più male, sempre più male. Finchè si ricordò della contentezza che aveva provata pochi giorni prima dopo aver presa la decisione di partire col Buondelmonti. Per quale motivo? Non lo aveva saputo, ma ora lo sapeva. Era la contentezza di tornare in patria. E allora per la prima volta, con un suono che non aveva sentito mai, si sentì risonare anche nel suo cuore quel piccolo nome lontano lontano, Italia, Italia, e con un desiderio che lo fece morire, per la prima volta da che era nel volontario esilio, pensò all'Italia. L'amore che non era mai nato nel suo cuore, non durante l'infanzia, non durante la gioventù, non da vicino, non da lontano, nacque allora e fu come se la patria medesima gli fosse venuta incontro con quanto essa aveva di più dolce, di più bello e di più grande, col suo nome, con un riso del suo cielo, con un segno di fraternità impresso sul volto della sua gente, con la sua gloria, perchè soltanto quella notte e così di lontano il Rummo vide per la prima volta il cielo ridente della patria, sentì la dolcezza che è nel suo nome, sentì circolarsi per le vene un'indefinibile fierezza d'esserle figlio, si ricordò di Roma dov'era stato dalla sua provincia, disse fra sè e sè qualche verso di Dante. E pianse per i versi di Dante, pianse per il ricordo di Roma, pianse pianse dolcissimamente e amarissimamente per il piccolo nome lontano al quale come allora non aveva pensato mai. Pianse pianse pianse per la città dov'era nato, e per tante e tante altre città dove aveva vissuto, e per tante e tante cose e tante persone che ora a un tratto gli apparivano care; pianse come se avesse ancora il padre, la madre e tanti fratelli e dopo anni e anni di inimicizia avesse fatto pace con loro. Risentì nella sua amarezza le parole del Buondelmonti. — Hai risposto male a quelli operai! Risentì questo e n'ebbe rimorso. Sentì nell'amarezza del suo pianto il rimorso di non aver amato prima ciò per cui allora piangeva, e si ripassò in mente tutta la sua vita acre e dura. Non aveva lottato e sofferto? Ed aveva egli lottato e sofferto per sè o per gli altri? Non aveva lottato e sofferto soltanto per gli altri, per gli operai appunto, per tutti i lavoratori? E che cosa aveva chiesto per sè all'infuori del lottare e del soffrire, all'infuori del martirio che li supera tutti, all'infuori dell'odiare? Odiare, odiare, odiare! Un animo gli disse: — Tu ti sei messo l'odio nel cuore come se ti fossi messo un serpente nel seno e con questo ti sei dato a lottare per i lavoratori. Tu lottavi e l'odio ti straziava il cuore. Perchè hai il rimorso di non aver amato tu che hai odiato tanto non per te ma per gli altri? Hai chiesto forse una casa migliore, un cibo migliore, hai chiesto l'amore d'una donna? Tu non hai chiesto nulla ed hai lottato, odiato, sofferto tanto per i lavoratori: perchè hai rimorso? — Egli voleva giustificare la sua vita. Ma un altro animo gli ricordava che un giorno aveva affermato: — Non esiste la patria, esistono i lavoratori di tutto il mondo! — Gli riapparivano i lavoratori quali li aveva visti poche ore prima pel viale sul mare, pensosi della patria lontana, e la sua amarezza aumentava, perchè quei medesimi uomini gli dicevano: — Noi abbiamo un sentimento che mettiamo al di sopra di noi stessi e tu l'hai negato! — Per tutta la notte la patria gli fu vicina al cuore e gli diceva: — Perchè m'hai negata? Perchè hai agito contro di me? Spuntò l'alba, egli stava ancora alla finestra, la voce della patria continuava a rimproverarlo. Ma nella giornata il vecchio uomo riprese il sopravvento. Di prima mattina corse a comprare i giornali. Le notizie erano immutate, nè più nè meno gravi. Il Rummo continuava ad avere avversione per gli stessi fatti e gli stessi uomini d'una volta: continuava a non volere che fosse possibile una guerra in Europa in genere e una guerra dell'Italia in ispecie. In mattinata rivide il Tanno e il Buondelmonti; con un'ostinazione che in lui stesso aveva dello straordinario, li cercò per osteggiarli, per impedire ciò che avrebbero fatto, e il Buondelmonti non era più per lui l'amico, ma era ritornato il nazionalista. Quando il Buondelmonti, il Tanno e gli altri trattarono di mandare un telegramma a San Paolo per promuovere anche lì la colletta, il Rummo osteggiò quella decisione e cercò d'impedirla sostenendo che quei di San Paolo non avrebbero visto bene che altri li incitasse a fare il loro dovere. E quando si trattò di mandar telegrammi in Italia esprimenti la devozione delle colonie del Brasile verso la madre patria nell'ora grave, egli si levò su con gli occhi fuori dell'orbita a gridare ciò che nel suo furore, non avendo più la percezione delle proporzioni fra cause ed effetti, realmente credeva, a gridare che si volevano così gettar legna sul fuoco, precipitare gli avvenimenti, che si voleva insomma la guerra. Di fuoco sotto il negror della barba guizzava il segno di Menelik sulla faccia al Tanno, ma il Buondelmonti aveva giurato di non dimenticar mai ciò che il Rummo aveva fatto per lui, e con gli occhi imperiosi frenava l'assalto del Tanno. Si fecero varie proposte di telegrammi e il Rummo ancora disperatamente ostinato si levò su a sostenere che bisognava aggiungere un augurio come manifestazione del desiderio delle colonie: l'augurio che si potesse scongiurare la guerra nemica della civiltà e del progresso de' popoli. Allora il Buondelmonti scattò in piedi e con voce terribile gridò: — Perdio, Rummo! Vuoi che dimentichi tutto? — Fallo! — gridò il Rummo e cieco d'ostinazione e di furore si lanciò dal suo posto per tenergli testa. E il Buondelmonti contro a lui e il Tanno come un mastino. Ma a un tratto il Buondelmonti afferrò il Tanno per le spalle e facendo una ferocissima violenza a se stesso disse: — No! Non debbo dimenticare! E tornò al suo posto. Dopo mezzogiorno, presenti il console e il ministro d'Italia, ci fu adunanza dei notabili della colonia per stabilire il luogo, il prezzo, il modo di distribuire i biglietti la sera dopo per il discorso del Buondelmonti. E anche il Rummo, ormai preso da malefico fascino, non potè far di meno di assistere all'adunanza, ma non fiatò più. Soltanto, dall'angolo dove s'era messo a sedere fissava il Buondelmonti odiandolo come non aveva mai odiato nessuno in vita sua, odiandolo specialmente quando ei parlava. Non poteva tollerarne la voce, nè soprattutto quell'ardore di febbre che aveva negli occhi sotto l'ombra della chioma, perchè gli pareva che dentro di sè esultasse per la speranza della guerra. Il Buondelmonti accennò l'argomento del suo discorso e mentr'ei parlava, pareva al Rummo per via del suo accecamento d'odio e di furore, gli pareva di sentirlo bandir lui stesso la guerra gloriandosene. Il console, il ministro, tutti i notabili pendevano dalle sue labbra, ed egli, il Rummo, dall'angolo lo fissava, l'uccideva con gli occhi appassionati d'odio, perchè era il nemico, l'antagonista, colui che voleva e faceva il contrario e vinceva e si glorificava. Vedeva il Buondelmonti come dentro una fiamma e non poteva levargli gli occhi di dosso, affascinato dall'odio. Il Buondelmonti era le stesse nazioni che schiacciavano lui. Finchè non ne potè più; lasciò la sala, si precipitò all'ufficio del telegrafo, telegrafò agli amici di San Paolo, socialisti ed anarchici, di essere a Rio per la sera dopo perchè bisognava contrapporre una loro affermazione al discorso del Buondelmonti. E poi trasportato dal cattivo genio che aveva preso possesso di lui, corse dal presidente dell'«Operaio Italiano» che da molti anni per motivi di rivalità era irreconciliabile nemico del Tanno, e lo trasse a sè. Trasse a sè altri soci dell'«Operaio Italiano» di cui egli stesso era segretario, dalla sera alla notte e per tutta la notte e tutto il giorno dopo, correndo senza riposarsi mai, ricercò tutte le inimicizie che formicolavano nella colonia e trasse a sè nemici del Berènga e altri di altri e del console e del ministro. Disse che il discorso del Buondelmonti era la manifestazione del mondo ufficiale italiano, dell'autorità e delle alte classi, e che bisognava contrapporgli qualcosa di popolare e di libero. Scese nei bassifondi della colonia, accostò operai sul lavoro per le strade, stuoli d'emigranti sbarcati di fresco e girovaghi ancora senza lavoro, e parlò loro come ai tempi in cui ebbro della lotta di classe, faceva la propaganda in Italia per le città e per le campagne nei recinti notturni e sotto la sferza del sole. Parlò contro i governi che tradiscono la causa del proletariato, contro il militarismo, contro la guerra. Come una colluvie che a un tratto rigurgita, le frasi, le perorazioni, le invettive di cento lontani comizi, uscirono dalle sue labbra per una notte e per un giorno senza sosta. Suscitò, o risuscitò in petti sconosciuti, in un quarto d'ora, la furia della lotta di classe, l'antimilitarismo, il socialismo. La sera, poche ore prima del discorso, giunsero alcuni amici di San Paolo e all'ora debita più di cento partigiani del Rummo movevano alla volta del teatro dove stava per parlare il Buondelmonti. Il Rummo aveva deciso di prender la parola. Quando giunse al teatro trovò sulla porta gran folla ed essendosi già risapute le intenzioni sue e de' suoi, al suo primo apparir nell'atrio si levarono da più parti rumori ostili. Ma egli non badandovi, trasportato dalla sua furia si difilò verso il palcoscenico dove tra le quinte già stava con gli amici il Buondelmonti il quale visto il Rummo, non salutato, non lo salutò sulle prime; poi accennato agli amici di non muoversi e discostatosi da loro fece alcuni passi verso il Rummo con l'intenzione di parlargli ancora amichevolmente e di pregarlo di non suscitare scandali in quell'ora grave e solenne, per carità di patria. Ma il Rummo drizzando contro di lui la faccia lo fermò con lo sguardo del nemico che non ammette nè conciliazione nè patti. E il Buondelmonti allora gli disse: — Sta bene. Sappi però che qui parlo io soltanto, e chiunque disturberà, sarà messo alla porta. — Fa' il debito tuo! Rispose il Rummo e prese il suo posto tra le quinte, mentre gli amici del Buondelmonti dalla parte opposta gli mettevano gli occhi addosso per guardarlo a vista. Poco dopo, il Buondelmonti si presentò sul palcoscenico per parlare e mille e mille persone si levarono in piedi prorompendo in applausi e gridando: — Evviva l'Italia! Sullo stesso palcoscenico italiani e alcuni giornalisti brasiliani dal banco della stampa gridavano: — Evviva l'Italia! Quirino Honorio do Amaral alla testa de' giornalisti, in piedi sopra una sedia, indemoniato d'entusiasmo gridava; — Evviva l'Italia! Giacomo Rummo dall'ombra delle quinte fissando con gli occhi che non gli battevano nè vedevano più, aspettava il suo momento. Il Buondelmonti incominciò a parlare sul culto degli eroi nazionali nell'età moderna, su Dante, su la lampada votiva che alcune città italiane avevano accesa dinanzi alla sua tomba, sulla magnanima Trieste che era una di quelle città, con altre sorelle dell'Istria e della Dalmazia, figlie dell'Aquila romana e del Leon di San Marco. Alto, giovane, potente, senz'un gesto in mezzo al palcoscenico il Buondelmonti parlava e il pensiero già era balzato dalla sua fronte, quando ancora la parola non era uscita dalle sue labbra. Sul capo il volume della sua chioma gli stava come un casco tirato in avanti e sotto, tutt'il volto gli ardeva. Ma di tanto in tanto la sua voce s'indeboliva ed egli sentiva un po' di dolore al petto, perchè la cicatrice della sua ferita era ancor fresca. Al tempo stesso un'animazione di gioia, più forte d'ogni gioia e d'ogni animazione, ei sentiva dentro di sè, perchè tutti i suoi animi erano in gran moto e uno gli diceva: — Questo dolore ti ricorda il tuo rimorso! — E un altro: — Ma tu ora fai un'opera di riparazione! — Un altro gli ricordava la guerra con parole ardenti. Tutti questi animi gli parlavano insieme, egli non ne distingueva alcuno, ma da tutti levato in una indicibile gioia, non parlava più, sibbene la sua eloquenza era prima per lui medesimo che per gli altri più inebriante d'un canto trionfale. Solo, di tanto in tanto sentiva un po' di dolore al petto dov'era stato ferito per il suo amore; ma il giovane che amava ora la patria più d'ogni altra cosa al mondo, vinceva con la sua gioia il suo dolore. A un certo punto apparve fuor delle quinte il Rummo con una faccia terribile e dalla sala si levaron subito qua e là mormorii, perchè era questo il segnale per i partigiani di muovere il tumulto. E già i mormorii s'eran fatti più forti, già si levavano voci di protesta, già stava per scoppiare il tumulto e il Rummo già s'avanzava dal fondo del palcoscenico alzando la mano per prender la parola, quand'ecco incontanente sul banco de' giornalisti brasiliani si vide una trepidazione, un foglio passò di mano in mano, Quirino lo ghermì a volo, mandò un grido, si precipitò verso il Buondelmonti. Questi pure, gettati appena gli occhi sul telegramma, mandò un grido e un attimo dopo nel più profondo silenzio di tutto il teatro annunziò: — La patria è in guerra! Un urlo non umano uscì da mille e mille petti. Subito fu un silenzio di morte. In mezzo al palcoscenico stava il Rummo, poco discosto dal Buondelmonti, solo. Aveva una faccia terribile, ma stava immoto. Di nuovo il Buondelmonti accennò di voler parlare e fu fatto silenzio. Ma prima che egli aprisse bocca, un dolore, acutissimo ora, lo morse al punto della ferita. L'immensa anima nazionale con tutti i torrenti delle generazioni s'era precipitata nel suo petto, sforzava le pareti del suo petto. Quando incontanente una gran voce dentro di lui gli gridò: — Tu puoi creare un segno di ciò che dovrà fare l'Italia per la sua salute! Tu puoi trasformare cento, dieci di questi emigranti in combattenti! Esultò il Buondelmonti, vittorioso alla fine, e ripreso a parlare aggiunse altre notizie del telegramma e raccontò che in Italia il figliuolo di Garibaldi raccoglieva volontarii, che innumerevole gioventù accorreva a lui, che d'ogni parte del mondo tornavano italiani in patria a prender le armi. Così disse e gridò: — Chi di voi partirà con me? Da tutte le parti del teatro si levarono voci: — Io, io! E gesticolavano verso il Buondelmonti offrendo ciascuno la sua vita alla patria. Il Buondelmonti accennò di voler parlare ancora e di nuovo fu fatto silenzio. Ma questi non aveva ricominciato a parlare, quando un urlo non umano s'udì alle sue spalle: — Evviva la patria! E il Rummo si lanciò avanti dibattendosi come preso da convulsioni e da follìa. Urlò ancora: — Evviva la patria! Evviva la patria! E piombò a terra come morto, atterrato dall'invisibile nemico, la patria trionfante. Accorse verso di lui il Buondelmonti a braccia aperte. XI. Lorenzo Berènga gridò con gran voce: — Tutti coloro che partono, sono invitati per domani sera da me. Riceveranno a casa mia l'addio della colonia e gli augurii per la patria. Anch'egli, quando dalla gran voce del Buondelmonti era stata data la notizia della guerra, anch'egli con tutt'il petto fuori del suo palco aveva mandato un urlo spaventoso in mezzo all'uragano di grida che facevan crollare il teatro. Poi precipitatosi fuori, rompendo la calca e correndo aveva attraversato il teatro, era salito sul palcoscenico e aveva gettato intorno al collo del Buondelmonti le sue grandi braccia. E poi fattosi avanti al proscenio sedò col cenno delle braccia il tumulto delirante e lanciò l'invito per la sera dopo. Dopo di che tornando a Santa Teresa con alcuni amici si mise a parlare d'un suo antico parente che era morto nelle guerre dell'indipendenza italiana, e per tutta la strada non parlò d'altro. Parlava con una gran cordialità e una gran gioia. Ma giunto alla villa si mutò. Licenziati gli amici pranzò solo. Alzatosi da tavola si mise a camminare su e giù per il salotto a grandi passi e sospirando dal profondo. Finchè a un tratto s'arrestò in mezzo alla stanza e levata la fronte s'irradiò di contentezza. In fretta ritiratosi nel suo studio si sedette al tavolino ripetendo fra sè e sè: — Vediamo, vediamo. E raccolse tutti i suoi pensieri sopra i lavori che aveva allora a mano nella città. Eran più case e palazzi in costruzione, quanti non ne aveva avuti mai, perchè la sua fortuna fioriva, nè mai era stata così in fiore per il passato. Pensava a chi avrebbe potuto affidarli, que' suoi tanti lavori, tanti, tanti per tutta la città, e gli passavano per la mente nomi d'altri costruttori, di fidi suoi sottoposti, d'amici, ma ben presto dovè convincersi che dovunque non si poteva far di meno della sua presenza. Egli era di quegli uomini i quali sono legati al proprio lavoro come l'anima al corpo, si stimano ad esso necessarii sempre, nè se ne possono allontanare, nè molto meno ammettervi estranei, uomini di dovere, di passione e d'orgoglio. Tale era il Berènga e in tanti anni non s'era mai allontanato dal suo lavoro, nè l'aveva affidato ad estranei. E nemmeno quella sera poteva. Poteva anche meno che se avess'avuto una famiglia che Dio non gli aveva voluto dare. E tra sè e sè si diceva proprio così: — Posso io, posso io lasciar qui la mia carnaccia e andarmene con l'anima, se il Signore non vuole? O posso lasciar qui l'anima mia e andarmene col resto? E così dicendo sospirava di nuovo dal più profondo del petto perchè non poteva partir insieme con gli altri per l'Italia. Stava al tavolino su cui per tanti anni la notte, dopochè il giorno aveva costruito case per gli altri, era andato costruendo per sè, rudimento con rudimento, scienza con scienza, arte con arte, costruendo la sua propria vita interiore. Stavano lì sotto i suoi occhi cumuli di libri, quaderni, disegni; ma ora tutto quello che egli aveva fatto di bene, tutte quelle testimonianze del suo nobile amore di conoscere e della sua nobile pazienza d'apprendere gli si voltavano contro e gli dicevano: — Tu non puoi partire! Perchè quanto vedeva intorno a sè, gli ricordava le radici che egli non aveva mai cessato di mettere nel suolo straniero per tanti e tanti anni il giorno e la notte. Perchè era accaduto a lui come avviene ai nobili alberi i quali salgono su col tronco aspirando verso il cielo, che quanti più rami buttano in alto, tante più radici devono profondar nel terreno. Così egli aveva dovuto profondar tutte le sue radici nel suolo straniero, perchè tutto aveva fatto qui, e quando vi era giunto, egli non era nulla. Tornò ancora a levar la fronte con un raggio di luce. Gli pareva d'aver trovato l'uomo a cui poter affidare i suoi lavori. Ma subito come il mare crudele accumula onda su onda sul capo di chi va giù, gli vennero a mente le cinque officine nelle quali aveva dovuto portar da settecento a mille gli operai. Nè mai per il passato, quando la catastrofe l'aveva colpito, il suo ferocissimo cuore s'era rivoltato tanto, nè aveva dolorato tanto, quanto ora per il favor della fortuna. S'alzò da sedere, si mise a camminar per la stanza mandando sospiri che erano muggiti soffocati. Il cuore gli andava via dal petto. Mai come ora il desiderio del ritorno, l'amore della patria lontana l'avevano tormentato. E non era l'amore della grande patria, non dell'Italia, ma della piccola patria, del paese natio all'ombra del Gran Sasso. Ombre, ombre lontane, lontane nella memoria e di là dall'oceano, lasciate a dodici anni per l'ultima volta e non viste più con gli occhi del corpo, ma che ritornavano sempre dinanzi a quelli dell'anima! Ombre del Gran Sasso, del paese e del padre e della madre! Qual forza era in loro che giungevano di sì lontano, gli s'attaccavano al cuore e glielo tiravano via come se fossero state catene di ferro? E come se ora il costruttore avesse dovuto in una volta sola ripatire tutti i dolori della sua vita, a una a una gli ritornarono in mente tutte le occasioni in cui più era stato ripreso dall'amore del suo paese e dal desiderio del ritorno, durante gli anni del suo feroce esilio. La prima volta era stata quando gli era morto il padre, ma egli allora giaceva malato in una città dell'alto Brasile. E dopo qualche anno gli era morta la madre ed egli a lungo, a lungo, a lungo aveva sentito acuto il desiderio di rivedere il sepolcro de' suoi, la casa paterna, il paese, ma anche questa volta era riuscit'a soffocar quel desiderio lavorando. Lavora, lavora, lavora! Più le ombre lontane gli tiravano via il cuore, e più esso lavorava. E a forza di lavoro recuperava la padronanza su di sè. Egli portava nel lavoro lo stesso impeto, lo stesso furore che in tutt'il resto. A poco a poco il desiderio del paese natìo era ucciso, tornavano i giorni ordinarii, quando il lavoro rapiva a ogni altra cosa. Ma poi era rimpatriato per sempre il primo de' fratelli minori, quegli che aveva lavorato di più con lui nel Brasile, era rimpatriato lasciando lui a lavorare ancora. Ed egli ne' giorni che avevan preceduto quella partenza, aveva concepito contro il fratello un malo animo d'invidia e d'ira accusandolo dentro di sè d'egoismo, perchè se n'andava e lasciava lui. E quando sulla nave che stava per salpare, l'aveva abbracciato per l'ultima volta, se non fosse stato fratello, per la disperazione di non poterlo seguire, l'avrebbe stritolato fra le sue braccia. E a lungo, a lungo poi, i giorni dopo, seguendolo con l'immaginazione per la via dell'oceano era tornato e tornato a perdere gli occhi sull'ombre lontane, men d'un'ombra d'un'ombra giù giù in fondo alla memoria dove stavano le reliquie dell'infanzia. Ma lavora, lavora, lavora! Anche questa volta aveva recuperato la padronanza su di sè e di nuovo la furia del lavoro l'aveva rapito via. E dopo qualche anno era partito un altro fratello e poi un altro. E le catene di là dall'oceano avevano tirato sempre con più forza, ma il costruttore aveva lavorato. Ora però quella notte partivano un'altra volta tutti i fratelli insieme, i genitori tornavano a morire? Quando era morto il padre, il figliuolo non aveva desiderato tanto di rivederlo. E quando era morta la madre, il figliuolo non aveva desiderato tanto di ristringersela al petto. Eppure non aveva mai dimenticato l'ultimo abbraccio che aveva ricevuto da lei a dodici anni. Il fratello maggiore voleva troncar gli addii respirando già il libero mare e il mondo ignoto; ma la madre serrandosi più forte al petto il frutto ultimo delle sue viscere aveva detto all'altro: — Lasciamelo un momento ancora! — Ma ora, quella notte, l'emigrante del Gran Sasso desiderava di rivedere il paese natìo come non l'aveva desiderato mai nessun'altra volta. A un tratto s'illuminò di nuovo e gli parve che i genitori resuscitassero, che i fratelli gli ricomparissero davanti. S'illuminò di gioia l'emigrante, perchè un momento aveva deciso di partire. Ma con chi sarebbe partito? Si ricordò di quello che era successo la sera: la patria grande, l'Italia, stava in guerra, il Buondelmonti e tanti, tanti altri italiani sarebbero partiti per offrirle la vita. Ed egli aveva soltanto pensato ad appagare il suo cuore, a tornare al paese natìo? Era dunque rimasto sempre l'emigrante del Gran Sasso com'a dodici anni, quando il paese natìo, anzi la casa paterna, era tutta la patria? E tutto, tutto aveva potuto far nel Brasile, imparar tante cose, ingentilirsi, sviluppar tanti doni che gli aveva dati il Signore, ma un solo germe no, uno solo, il germe dell'amor di patria, questo solo no? Così era avvenuto e riconoscendolo, l'emigrante rimase ore e ore seduto a tavolino rassomigliando nell'abbandono del corpo e in tutto l'aspetto a chi è atterrato da una catastrofe e tocco nel cervello. Esso sentiva rimorso del suo lavoro. Aveva lavorato, lavorato, lavorato, il lavoro era stato tutto per lui, al lavoro esso aveva sacrificato l'amor di patria. Tutto il lavoro era stato fatto nel suolo straniero, per elevarsi esso aveva dovuto profondar tutte le sue radici nel suolo straniero. Se così non fosse stato! Se avesse dat'ascolto al suo cuore la prima volta, la seconda volta, tutte le volte! Egli avrebbe conosciuta l'Italia, avrebbe conosciute tutte le sue città! E avrebbe amata l'Italia, la patria grande, l'avrebbe amata di più, tanto di più del suo paese natìo! Si levò finalmente in piedi. Dalla finestra appariva l'alba, ei guardò fuori, vide giù nel piano il mare e qualche nave, si immaginò che una fosse per gli italiani che partivano, si ricordò ancora e volse gli occhi verso un punto dov'egli da se medesimo s'era costruito il sepolcro per quando sarebbe morto. Così da se medesimo s'era detto avanti tempo e per sempre: — Tu non tornerai! — E aveva deciso di dormire nella terra straniera. Si ricordò ancora, si ricordò di Bruna, andò, s'accostò alla porta, sentì il respiro della giovinetta che dormiva, guardò dalla porta, entrò, vide che essa sotto le coltri giaceva sul fianco tutta raggomitolata, selvaggia e chiusa come nella sua vita, con tutti i capelli buttati sulla gota, simile al naufrago che l'onda lasciò sull'arena del lido. In piedi, accanto al capezzale rimase a contemplarla e le parlò col cuore dolente. Sarebbe almeno lei tornata? — Tornerai almeno tu? Oppure anche tu dormirai sola con me fino alla resurrezione delle nostre anime? Tornerai almeno tu, oppure io e tuo padre, scellerati, quando partimmo dal nostro paese tanti anni prima che tu nascessi, prendemmo con noi anche la tua sorte e poi la gettammo in fondo al mare? La sorte del tuo dolce ritorno, creatura del nostro sangue, più dolce del tuo anello nuziale, se anche questo non ti mancherà un giorno? — Così ei diceva nel linguaggio del suo cuore che amava più di quello d'un padre. Si chinò e per non svegliar la giovinetta toccò un lembo della coltre, si portò la mano alle labbra e si baciò le dita con un gesto nato dal più profondo del suo essere dov'erano ancora le radici de' consanguinei lontani. Andatosene, tutto il giorno sui lavori fu triste per un pensiero che non avev'avuto mai e che ebbe ora per la prima volta: il pensiero della sua vecchiezza. Per la prima volta si sentì vecchio, mentre pensava ai giovani che sarebbero partiti per la guerra. La sera poi tornato a Santa Teresa si mise a leggere la Bibbia aspettando gl'invitati, perchè senza che la sua coscienza se n'accorgesse, il suo istinto di vita, cosiffatto com'era, ricorreva a Dio come ad ultimo rimedio e cercava pace in Dio quando in nessun'altra parte altrove l'aveva trovata, e prima la sua umanità combatteva da se sola. Così quella sera leggendo la Bibbia e parlando per mezzo di quella lettura con Dio, cercava pace. Ad un tratto, nelle prime ore di notte, risonarono sotto le finestre le voci degli invitati che giungevano. Risonarono le voci del Tanno, del più giovane de' fratelli Mùrola, di altri. Parevano spiritate. Come quando il vento investe la foresta e ogni albero e ogni ramo tremano, così nel buio della notte la voce d'ognuno tremava scossa da una gran gioia. Mentre attraversavano il giardino, la voce del Tanno ripeteva: — Due milioni, capite, due milioni! E il Tanno aggiungeva il nome d'un tale, d'un gran signore d'origine italiana che s'era iscritto nella colletta per quella somma. E altri annunziavano altre somme e facevano altri nomi. E altri raccontavano di donne italiane che avevano offerto alla colletta per la guerra della patria tutti i loro gioielli. E altri nominavano quelli che s'eran dati in nota per partire, quelli che eran accorsi da San Paolo per partire anch'essi. E appena la moltitudine giunse a pie' della loggetta che stava dinanzi alla villa, apparve su in alto Lorenzo Berènga, e la moltitudine lo salutò col grido: — Italia! Italia! Il Berènga rimase un momento in silenzio, poi levò il braccio in aria e rispose una volta sola: — Italia! Poi altri sopraggiunsero, altri, altri ancora, alla spicciolata e a frotte, e tutti parlavano con voce concitata, e in ogni voce risonava sempre lo stesso nome: — Italia! Italia! Tutti i partenti eran percossi dallo stesso vento, ardevano nello stesso incendio. Attraversavano il giardino e qualunque cosa dicessero, si sentiva che continuavano il discorso di quelli che eran passati prima, e questi di altri, di altri, di altri e pareva che quella notte per quel giardino dovesse passare tutt'il mondo facendo lo stesso discorso in cui risonava sempre lo stesso nome: — Italia! Italia! E alla vista del Berènga e degli altri che eran giunti prima, lanciavano il grido a cui era risposto. E si facevan gli uni con gli altri cento domande sulle stesse cose, sui partenti e sulla colletta. E già c'era una folla nella villa, quando apparve Piero Buondelmonti con Giacomo Rummo, e tutti corsigli incontro, ei disse: — Potremo arrolarci col figlio di Garibaldi. Poi aggiunse: — Ho aspettato fino a ora il telegramma. Eccolo. Lo mostrò in giro. Allora tutti s'abbracciarono e si dissero addio, piangendo quelli che restavano, e quelli che partivano, esultando. Quella sera fu veramente fatta pace nella colonia. Ma in breve il padrone della villa rimase solo, perchè tutti gli altri eran portati via verso la patria lontana. Quegli s'era messo sul cancello del giardino e ognuno dei partenti l'abbracciava e quegli diceva addio guardando basso senz'aggiunger altro. Fu solo. Giù pel sentiero del colle si sentivano scendere i passi di coloro che partivano, allontanandosi rapidamente. Quegli stava in ascolto. A un tratto i partenti incominciarono a cantare. Era un inno nazionale guerresco. Quegli rimase ad ascoltare. Il canto s'allontanò. E per lui diventò un canto lontano lontano che veniva da migliaia e migliaia di miglia lontano, veniva dagli anni lontani lontani. Quegli tese sempre più l'orecchio, sempre più verso il canto che si allontanava, e poi come tratto da quello fece qualche passo avanti. E intanto le sue labbra borbottavano pregando Dio: — Dio creatore e Signor nostro, concedi la vittoria alla patria, all'Italia, alla cara.... alla santa patria nostra.... E fece ancora qualche passo per la china verso il canto che s'allontanava. Tutte le catene di là dall'oceano gli tiravano via il cuore. Quegli continuava a seguire il canto che s'allontanava, moriva. A un tratto un grido risonò nella notte: — Zio! E la nipote balzò accanto a lui, gli si strinse a' panni come se volesse rattenerlo. Il vecchio s'arrestò, tese ancora l'orecchio, il canto era morto. E allora il vecchio incominciò a piangere. Cogli occhi fissi dove s'era estinto il canto, di là dall'oceano, il vecchio colava lacrime da tutta la faccia, solo con l'ultimo frutto del suo sangue, nella notte straniera. XII. Il giorno dopo gli italiani salparono da Rio de Janeiro. Eran circa quattrocento che avevan fatto dono della vita alla patria in un momento d'entusiasmo suscitato dalle parole di un uomo generoso. La nave che li portava era celere, ma più celeri erano i loro cuori e ora temevano di non poter giungere in tempo per prender parte alla vittoria, ora che già le armi della patria avesser la peggio, e un'ansia li occupava, di volare, di volare, come se il loro arrivo soltanto potesse mutar le sorti della guerra. Erano imbarcati insieme col Buondelmonti siciliani, calabri, liguri, piemontesi, lombardi, veneti, d'ogni altra regione italiana. Uno solo non italiano era imbarcato, il giovane poeta di Rio de Janeiro Quirino Honorio do Amaral, volendo egli pure combattere per la patria lontana. Taluni di quei reduci eran di coloro che nel Brasile avevano lavorando mutato condizione, ma la maggior parte eran popolo come quando v'eran giunti. E tutti vivevano come nella poesia. Non avevano più ciascuno la sua anima chiusa, ma come intorno a loro si moveva la medesima aria fra cielo e mare, così dentro di loro una sola medesima anima. Alle volte mettendosi a parlare dell'arrivo e della guerra cadevano già in preda all'ebbrezza delle battaglie, alle volte il mare li placava e rasserenava, prendeva nel suo incanto la loro anima umana. Il Buondelmonti, Giacomo Rummo, il Tanno, Quirino mangiavano in compagnia degli altri, seduti a terra sul ponte, e il primo parlava, parlava più di tutti. Parlava e raccontava le storie antiche di Roma e d'Italia, o le meraviglie del mondo moderno, durante le grandi giornate senza mutamento di cielo e di mare, o quando sui capi palpitavano le coperture di poppa e di prua al soffio del vento e sulle coperture passavano le nuvole, e gli orizzonti s'aprivano e si chiudevano. Il Buondelmonti parlava perchè il cuore eroico gli traboccava, perchè i pensieri che esso aveva concepiti una volta in Italia nella solitudine del suo studio, ora nella mente gli si risvegliavano animati dagli spiriti del mare e del cielo, dell'amor di patria e della guerra. La guerra e la patria davano ai suoi pensieri l'animazione; il cielo e il mare lo spazio. Egli nel suo libro l'«Elogio della guerra» aveva celebrato la guerra madre d'uomini e di popoli magnanimi. L'aveva celebrata mostrando come fosse capace di riattivare i valori maggiori dell'animo umano e di deprimere quelli inferiori venuti su nei lunghi periodi di pace, i valori de' mercanti e de' demagoghi, i valori degli spregevoli borghesi e l'opinione pubblica degli omiciattoli pusilli. Aveva mostrato come la guerra distruttrice di esistenze effimere fosse creatrice d'eterno umano ideale, e come quindi la sua morale fosse più alta di quella della pace. E come spazzasse via i popoli inferiori, o debilitati dalla vecchiezza e putrefatti in lunga decadenza, e portasse al comando del mondo i popoli migliori, nuovi, barbarici, e come suscitasse e diffondesse le grandi civiltà. E il Buondelmonti aveva celebrato i greci, Alessandro, i romani, tutti i popoli e gli uomini guerreschi sino a Napoleone Primo. Aveva celebrato la guerra paragonandola col dolore della maternità: come la natura vuole che le madri partoriscano con dolore, così vuole che altrettanto accada per le nazioni le quali debbono esser madri delle civiltà. Come delle femmine dell'uomo così è delle nazioni: alcune sono sterili e altre feconde. — Noi tutti, aveva scritto nel suo libro il Buondelmonti, vorremmo formare della nostra Italia un organismo non sterile, ma creatore, e la sua creazione altro non potrebbe essere se non il nuovo impero e la nuova civiltà, e perciò dovrebbe farsi l'animo a patire la guerra che è il mezzo di creazione. — Così il Buondelmonti aveva celebrato la guerra. L'aveva finalmente celebrata come supremo atto della nazione, della nazione la quale al pari della musica, dell'arte, della religione, è uno sforzo dell'uomo per uscire dall'individuo e propagarsi nel tempo e nello spazio. Nella musica l'uomo s'oblia, nella religione e nell'arte si trasfigura e si eterna, nella nazione s'incarna in società vaste e nel corso delle generazioni. La guerra è il sacro supremo atto dell'incarnazione nazionale, mentre le esistenze individuali muoiono. Ora tali pensieri si risvegliavano nella mente del Buondelmonti tra cielo e mare. Egli navigava alla testa d'un drappello tornando verso la patria e andando verso la guerra. E perciò la sua vita era finalmente lirica nella realtà dei fatti com'era stata nella realtà della poesia e dell'arte. Era eroica com'era stata nella profonda conoscenza storica. E perciò parlava, parlava più di tutti. Ed ai compagni parlava delle più grandi cose, animato dal grande inno eroico che risonava dentro di lui. E i compagni gli si raccoglievano intorno a sentirlo, prima quelli che si trovavan più vicini e poi altri e poi altri e poi tutti, perchè erano incantati dall'eloquenza che a Rio de Janeiro li aveva rapiti via, e perchè nella sua voce sentivano l'animazione del grande inno che più li incantava ancora. Il Buondelmonti parlava del vasto, veloce, potente mondo moderno descrivendo macchine e ogni sorta d'invenzioni, di terra, di mare e di cielo, ora i piccoli navicelli micidiali che filano sotto mare, ora i veicoli che volano sulla terra, ora quelli che tentano le vie del cielo, ora descrivendo il passaggio d'una parola umana delicata come l'idea da un continente a un altro, da un oceano a un altro attraverso le tempeste senza alcun conduttore. Talvolta raccontava de' circuiti aerei che avevan avuto luogo in Europa l'anno prima, in Francia, in Italia e altrove, e raccontava di certi mirabili uomini i quali si chiamavano Paulham, Lathan e Farman e per tre giorni avevano gareggiato in potenza di volo e uno aveva per ore e ore tenuto il cielo a grandi altezze, mentre sopraggiunte le tenebre della notte imperversavano vento, pioggia e fulmini. Altre volte il Buondelmonti che riuniva in sè la forza di tutto il passato, di tutto il presente e di tutto l'avvenire, metteva i compagni a parte delle grandiose e terribili visioni del suo spirito, fondate sull'istinto che egli aveva delle leggi storiche. E parlava di grandi guerre che sarebbero avvenute fra continente e continente e d'imperi che sarebbero sorti tali da sembrare in paragone ben piccoli quelli antichi e i presenti. Oppure altre volte parlava di arti e di grandi artisti e poeti del passato, di Michelangelo e di Dante e dei monumenti che adornano Roma e le altre città d'Italia. E altre volte il Buondelmonti mostrava il mare, il cielo, le mutazioni di colori, il sole che scendeva nel mare. Ci furono giorni e giorni in cui al parapetto la nave era tutta pupille che guardavano. Guardavano come da sera a sera i colori variavano, come nella stessa sera i colori nascevano, si mutavano gli uni negli altri, morivano, rinascevano, si combattevano, vincevano ed eran vinti. Guardavano e perdevano gli occhi sopra un mare verde sotto un cielo tutto nuvole lilla, mentre il sole moriva in un campo di fuoco. Un'altra sera vedevano il sole morire in campo d'oro. E quando il sole era sparito, tutto il gran cerchio del mare pareva un'immensa fiorita di violette legate intorno da un filo d'oro. Ma soprattutto quelli uomini godevano come fanciulli dinanzi ai tramonti monumentali, quando l'artista divino e giocoso, il sole, prima d'abbandonarli, dava loro una gran festa di creazioni fantastiche, suscitava con i suoi raggi e con le nuvole edifizi non più visti, castelli, laghi, isole, città e foreste. Ma la notte Piero Buondelmonti quando si ritrovava solo, spesso non riusciva a prender sonno per via del dolore di Giovanna, nè ora era soltanto dolore, sibbene acutissimo rimorso. Prima aveva provato dolore ed ora provava rimorso, perchè la sua coscienza s'era finalmente per la prima volta svegliata e gli diceva che per causa di lui e non di altri Giovanna era morta. Egli e non altri aveva tolto dal mondo quella giovane vita. Egli avrebbe potuto spiegare a Giovanna le sue idee, far di lei una sua discepola, darle quella grande anima e quella grande coscienza di cui essa era degna; e invece aveva fatto di lei la sua amante ed era stato la causa della sua morte. Oh rimorso, rimorso! Sempre il Buondelmonti, quand'ei tornava individualmente in sè, trovava questo rimorso pronto a lacerargli il cuore. E di notte balzava a un tratto dal sonno e si metteva a invocar Giovanna con lacrime e con i nomi più cari e più santi per far tacere il suo rimorso. E si ricordava di quando il Berènga aveva pregato per l'anima di lei, e di quando egli stesso sulla tomba di lei aveva pregato, e tornava a pregare, a pregare, come se avesse fede, e certe volte gli pareva d'aver fede e di vedere l'anima di lei e di parlarle e di chiederle perdono, e così talvolta aveva requie dal rimorso. Ma altre volte questo gli straziava di più il cuore, perchè il Buondelmonti si ricordava di avere spesso a Rio de Janeiro giudicata male Giovanna, quando l'aveva giudicata una piccola borghese, la solita donnetta frivola capace di darsi per ozio, o per vizio, o per vanità, non per passione d'amore. Oh il rimorso dell'offesa! Ora invece gli riappariva quale gli era apparsa un attimo prima della tragedia, quand'egli aveva visto balenare la persona di lei sulla porta e subito aveva sentito il grido: — Piero! — Un attimo d'un attimo aveva visto, prima del colpo, la donna precipitarglisi contro, un attimo d'un attimo l'aveva sentita stretta a sè, e poi più nulla. Oh rimorso, rimorso! La sua sorella eroica! La sua sposa ideale! Ma ora, ora soltanto la comprendeva, ora soltanto, e prima no; prima l'aveva amata senza comprenderla! Prima amandola l'aveva umiliata e offesa! E la notte sull'oceano gli ritornava dinanzi come gli s'era presentata a Rio de Janeiro, fuggitiva dal tetto domestico, piccola piccola e tremante e balbettante: — Son tutta insozzata, son tutta insozzata! — E Piero non aveva potuto toccarla, come se essa fosse stata tutta una piaga. Ora egli apriva finalmente gli occhi: non Giovanna, ma lui aveva peccato contro l'amore; lui che a Roma, durante il viaggio, a Rio de Janeiro altro non aveva cercato se non l'avventura d'amore. Ora finalmente apriva gli occhi! Egli non aveva amato Giovanna e soltanto aveva desiderato di diventare il suo amante! E sempre era stato così, tutta la sua vita non era stata se non un tessuto d'amori e d'amorazzi, senza amore. Ed ora nella solitudine della notte oceanica questo amore sorgeva in lui soltanto per il pensiero di Giovanna, della giovane donna che era morta per causa sua. Oh rimorso! Egli tornava in patria, essa era rimasta laggiù laggiù, sepolta nella terra straniera. Dal suo giaciglio, mentre la nave andava nella notte, Piero fissava quel punto che sempre più s'allontanava, quel punto dove egli s'era inginocchiato ed aveva pregato. Perchè almeno la cara salma non tornava più in patria con lui su quella stessa nave? Piero fece voto d'adoprarsi per questo dopo la guerra, se fosse stato ancor vivo; sarebbe andato dai parenti di Giovanna, o avrebbe trovato altra via; ma Giovanna doveva tornare in patria, ed egli stesso un'altra volta avrebbe attraversato l'oceano per accompagnarvela. E una notte Piero uscì dalla sua cabina. Lo stretto corridoio delle cabine era quasi all'oscuro, e nel silenzio si sentiva l'ansito della nave e il fiotto del mare che la flagellava. Piero corse lungo il corridoio e in fondo battè a una porta. Una voce di dentro rispose: — Aprite. Piero entrò e quando Giacomo Rummo lo vide, gli domandò: — Che vuoi a quest'ora? Ma Piero aveva la faccia così pallida e trasfigurata che l'amico lo prese per mano e lo fece sedere accanto a sè sul giaciglio. E allora l'altro gli disse: — Giacomo, se non morrò in guerra, tornerò a Rio de Janeiro per andare a prendere lei e riportarla in patria. Ma se io morrò, promettimi che tu farai questo per me. Cercherai de' parenti di lei e combinerai e tu stesso tornerai a Rio de Janeiro a riprendere il corpo in vece mia e come mio fratello. Il Rummo promise che l'avrebbe fatto, e subito come se per quelle stesse parole Giovanna fosse morta in quel momento, Piero scoppiò in un dirottissimo pianto, nè mai il dolore e il rimorso gli avevano lacerato il cuore come allora. Perchè era veramente come se in quello stesso momento Giovanna fosse morta, mentre insieme la memoria senza pietà tornava a ripresentar viva Giovanna dinanzi agli occhi di Piero, qual era con lui sopra un'altra nave pochi mesi prima. Il Rummo mise un braccio intorno al collo dell'amico e lasciò che piangesse, e anch'egli era molto triste. Gli giungevano all'orecchio col pianto dell'amico l'ansito della macchina che pareva anelare al porto del suo riposo, e il furor ferocissimo della notte oceanica contro il fragile legno. E in quell'ora di notte sul puro cuore del Rummo pesava tutta la tristezza della miseria umana. Finchè egli si levò in piedi e con voce forte e risoluta, come se volesse comandare allo spirito di lui, prese a confortare l'amico parlandogli della patria e della guerra. E confessandogli l'amico il suo rimorso, il Rummo gli disse: — In Italia troverai la tua redenzione. Abbandonàti a noi stessi, chiusi nel nostro egoismo, noi tutti non siamo altro che un bersaglio di dolori e un ricettacolo di colpe. E in fondo la tua stessa dottrina non ha voluto insegnare se non questo: che bisogna morire a noi stessi per rivivere in una vita più grande. I cristiani dicevano per rivivere in Cristo, noi nella patria. E per questo noi tutti t'abbiamo seguìto. Tu sei il nostro capo. Io sono un uomo convertito da te. Questa nave porta il tuo sogno religioso. E così dicendo Giacomo Rummo, già sacerdote della nuova religione, fissava l'amico seduto tenendogli una mano sulla spalla in segno di protezione. Poi gli disse: — Levati. Andiamo a respirare il vento del mare. E tutti e due andarono sovra coverta o l'intera notte camminarono su e giù sotto le sartie e sotto le stelle parlando dell'Italia e della guerra. Finalmente la mattina dell'undecimo giorno dalla partenza di Rio de Janeiro il capitano annunziò: — Stanotte vedremo il Capo Spartel sulla costa d'Africa e domani a quest'ora avremo già passato lo stretto e saremo nel Mediterraneo. Tutti furono presi dalla gioia e quelli che erano già stanchi della navigazione si rianimarono. Ma poi molti pensando che sarebbero sbarcati a Genova mutaron la gioia in una pena segreta perchè avrebber voluto, anch'essi, rivedere il loro paese natio. E alcuni rifacevano tra sè e sè il viaggio che cinque, dieci, vent'anni prima, avevan fatto dal loro paese natio a quel porto per emigrare; rifacevano quel viaggio muti a' parapetti della nave guardando, anch'essi, lontano lontano di là dall'orizzonte del mare, guardando in un punto dove per ognuno il cuore metteva la patria, una pianura breve più di quanto gli occhi avrebber potuto comprendere, oppure un monte, anche essi, o una ripa di fiume, poche case, un campanile, una casetta. Quest'era, anche per loro, la patria, e sarebbero sbarcati lontano, sarebbero andati a combattere e forse a morire lontano senza più rivederla. Ma in loro, in alcuni di loro, si risvegliò ora il ricordo della guerra e che andavano a combattere insieme. Occhi si cercarono con occhi, nè alcuno si sentì più solo, separato dagli altri nel suo paese natio, ma in tutti risorse l'amore dell'altra patria più grande. Ci fu chi cominciò a cantare un inno guerresco della patria, e poi altri e poi altri, e poi finalmente l'entusiasmo riguadagnò tutti, un delirio pari a quando a Rio de Janeiro dodici giorni prima avevano fatto l'offerta della loro vita. La notte poi stavan tutti al parapetto della nave aspettando che apparisse il faro annunziatore dello stretto di Gibilterra. Aspettavano con tutta l'anima nelle pupille fisse avanti nella notte, perchè sembrava loro per la prima volta d'esser sul punto di rimettere piede in patria, sembrava di vedere i campi di battaglia e d'accorrervi anch'essi. Tirava un po' di vento e portava un piovischio negli occhi; un nuvolame fosco si moveva per il cielo lasciando qua e là scoperte le stelle. Tutto l'orizzonte era ingombro dell'umidor della pioggia e pareva biancicare. Più frequenti delle altre notti si vedevano i lumi delle navi sboccate dallo stretto. Ma le pupille de' reduci si spingevano attraverso la notte cercando di centuplicar la loro virtù per afferrare il lume che già era quello della patria. E ora uno, ora un altro dicevano: — Eccolo! Eccolo! E tutte le pupille ansiose cercavano verso il cenno delle mani nell'oscurità. Ma il lume non era visto e solo apparivano qua e là barlumi avvolti nell'umidore e sparivano. Si navigava ancora in silenzio, si tornava a sentire il soffio del vento che portava il piovischio nelle pupille. Ma poi un'altra voce rispuntava e altre e più e più: — Eccolo! Eccolo! Finchè dall'alto del ponte di comando il capitano gridò: — Il Capo Spartel! Il fremito dei petti si levò, poi fu silenzio, si sentì l'impeto della nave nel mare oscuro. Ma poi di nuovo si levaron voci, grida, canti e tutti passaron la notte sul ponte senza dormire aspettando l'alba. All'alba Piero Buondelmonti sentendosi già nella chioma il vento del lago romano, si mise a parlare ai compagni per celebrar quello che avevano e quello che avrebbero fatto. — Voi — incominciò a dire — avete dato il buon esempio alla patria. Siete pochi, ma il vostro ritorno ha un grandissimo significato, perchè voi, amici miei, partiste emigranti e tornate combattenti. Cioè, avete fatta in piccolo, ma prima di tutti, una cosa che fatta in grande cambierà le sorti della nostra patria. E perciò per parte della nostra patria voi siete meritevoli di gratitudine. Tutte le generazioni avvenire d'Italia vi dovranno essere grate. Perchè se l'Italia vincerà questa guerra, riprenderà animo e si rimetterà per le vie de' suoi padri. E allora quelli che verranno, non avranno più bisogno di fare quello che avete dovuto far voi, d'emigrare in terra straniera, armati soltanto delle braccia e di pazienza, ma potranno emigrare nelle terre che la patria si sarà conquistate. Allora l'Italia non sarà soltanto dov'oggi è Italia, ma sarà dovunque saranno italiani com'oggi è Inghilterra dovunque sono inglesi. E allora gli italiani non parleranno più la lingua dei loro padroni, ma parleranno la loro lingua. Allora, anche quelli che verranno, faranno ciò che voi fate, torneranno per combattere nelle grandi guerre della patria, ma in molti e non in poche centinaia come voi, in molti com'è oggi degli inglesi i quali quando ne abbiano bisogno, possono muovere e radunare da un continente a un altro e da un oceano a un altro interi eserciti come corpi d'un esercito solo. E allora, come voi fate, altri torneranno, e non per combattere, bensì per ammirare le opere di bellezza con le quali la patria si sarà glorificata nel nuovo impero come già nell'antico. Le città che ora sono antiche, splenderanno dinanzi agli occhi di coloro i quali torneranno un giorno, più antiche e più venerande, veri santuarii delle stirpi, e altre ne saranno sorte, egualmente belle e immense. Allora ovunque saranno, gli italiani sentiranno parlare con riverenza della loro patria perchè questa sarà di nuovo capo del mondo, sarà capo d'un mondo che avrà superato in vastità, velocità e potenza questo nostro moderno di quanto esso ha superato l'antico. Voi, cari compagni, siete un pugno d'uomini e un giorno foste poveri emigranti delle braccia e della pazienza, ma avete il merito d'essere stati i primi a dare il buon esempio. Così parlò il Buondelmonti e la voce gli tremava fortemente. Ma ancora si rivolse al giovane straniero che tornava per combattere con gli italiani, e mettendogli una mano sulla spalla incominciò a celebrargli la patria. — Tu poi — gli disse — se vivrai dopo la guerra, vedrai le belle città! E innanzi d'ogni altra l'eterna Roma, l'augusta madre delle nazioni, Firenze, madre di genii, e Venezia che concepì nel fango e partorì un sogno orientale! E altre e altre che quando le vie scorrevan sangue, furon lavorate dagli artisti, tutte quante finamente come un gioiello, e dove le torri crebbero molto più gigantesche delle palme nella tua Rio de Janeiro e ora quelle che restano in piedi hanno preso il colore dell'oro nei tramonti della nostra patria! E vedrai altre città che portano in cima in cima alle montagne e alle rupi le reliquie delle stirpi antichissime e tutte quante scomparse innanzi ai vasti piani ondeggianti dove da millenni e millenni si rinnovano ad ogni stagione le viti e il grano! Vedrai città che cantano sulla riva del mare inebriate di sole e di malinconia, che cantano cantano una canzone d'amor carnale e appassionato! Sentirai il canto italiano su labbra italiane sotto il cielo italiano! Sentirai alle sue sorgenti il linguaggio che attraverso tanti secoli e tante fortune di popoli e tante loro mutazioni e peregrinazioni è giunto fin laggiù dove tu sei nato! Vedrai il riso del bel paese, i lineamenti delle cose ben proporzionate nell'aria leggiera, vedrai ale di mare gettate sulla terra, ale di terra gettate sul mare! Vedrai colline senza palme ma alate come la tua divina Gloria, isole dei laghi leggiadre come la tua isoletta Fiscal, isole del mare che hanno per sposo il sole, isole ardenti e tutte profumate di fiori d'arancio in mezzo al mare! Vedrai festoni d'isole lungo lungo l'Italia, dove volò l'Aquila e passeggiò il Leone, le vedrai, se torneranno nostre dopo la guerra! Vedrai, vedrai e amerai amerai la patria lontana! Così disse il Buondelmonti con voce tremante. Dopo poco il capitano della nave gridò dall'alto: — Siamo nel Mediterraneo! Si levò dai quattrocento petti una sola voce: — Italia! Poi fu silenzio. E nel silenzio parve a Piero Buondelmonti di sentir giungere dal lago romano la voce del cannone. Ed ei s'inginocchiò con l'anima dinanzi al sacro mistero della morte e della vita che le nazioni celebravano a quella voce. FINE. DEL MEDESIMO AUTORE: _Maria Salvestri_, dramma in 3 atti L. 4 — _La guerra lontana_, romanzo 3 50 _Le sette lampade d'oro_, novelle 2 — Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of La Patria lontana, by Enrico Corradini *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PATRIA LONTANA *** ***** This file should be named 48398-0.txt or 48398-0.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/4/8/3/9/48398/ Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. 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